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La caduta

di Walter Nardon

1.

E così arrivò anche la caduta. Del tutto inattesa, simile a una perdita d’attenzione che non si può recuperare e che poi, vista da vicino, si mostra spaventosa. Una messa in minoranza nel consiglio di amministrazione del Comitato Promotore di Sviluppo lo aveva indotto a presentare le dimissioni. Con sorpresa nessuno, neppure Sardelli o Innocenti gli avevano chiesto di ritornare sui suoi passi. Ora non poteva più tirarsi indietro. Mentre usciva a un quarto a mezzanotte da Palazzo Poli illuminato a festa, il suo intuito gli aveva rivelato la natura dell’errore: sorda e degradante. Di lì – lo sapeva – poteva infatti venire anche il resto, a partire dalla verifica in Consiglio quindici giorni più tardi. Si fermò a controllare l’orologio, poi prese via Matteotti. Alternative non ce n’erano, non di apprezzabili, almeno. Avrebbe potuto rimanere al suo posto cercando di assecondare i giovani – proporsi come mentore (ma lo avrebbero riconosciuto in quella veste?) – oppure poteva scegliersi un ruolo di oppositore dignitoso, un ruolo esemplare, per così dire, che aveva sempre trovato inutile, il più ambito dalla media borghesia cittadina che amava ostentare la probità rivelandosi in concreto pavida e inconcludente, in grado solo di costruirsi una carriera all’ombra della cattedra vescovile. Oppure poteva tacere, scomparire nel numero, dando a intendere di lavorare a una proposta più efficace. Ma se non poteva contare su un consenso allargato, quanto sarebbe potuto durare il bluff,  due mesi? E quando fosse venuto a galla che la sua proposta sarebbe stata praticamente irricevibile, che figura avrebbe fatto? No, le dimissioni erano più oneste; ma in questo ambito l’onestà è solo un’opzione e mai la migliore: è solo l’opzione di chi non ha forza. Doveva ammettere di essere un po’ a corto di soluzioni.

Si fermò a osservare la luce di una finta lanterna, che era rimasta accesa in mezzo al Portico dei Vetrai e illuminava l’edera sulle pareti. Neppure quella del “padre nobile” in qualche organismo pubblico era una strada percorribile. Per il padre nobile è necessario il consenso di buona parte del fronte politico e alcune cose gli erano d’ostacolo: l’espressione ruvida su cui si era costruito la sua reputazione e, quindi, alcuni eccessi che la pratica – in una supplenza impossibile delle sue lacune – non aveva saputo smussare e che erano rimasti in bella vista urtando a turno poco, ma un po’ tutti (questo costituiva senza dubbio l’ostacolo generale di maggior peso); doveva poi aggiungere l’acume con cui aveva costruito di volta in volta un metodo diverso per cogliere un diverso traguardo.

Insomma, per due decenni aveva sostenuto – era passato in proverbio – che a contare erano solo l’obiettivo e il risultato, che dovevano coincidere. Ma ora i risultati raggiunti potevano bastare a destare la giusta attenzione in un gruppo politico più giovane, quando non portavano il suo nome inciso a fuoco? D’altra parte, fra patrimonio e alleanze politiche non raggiungeva un capitale in grado di produrre una pressione incontrastabile. Anche sommandoci le influenze più futili delle amiche di sua moglie non sarebbe andato lontano. Un guaio, perché non era più tempo di maggioranze risicate: era montata – come accade di tanto in tanto – l’aria del rinnovamento, che per conquistare l’opinione pubblica impone di lasciare spazio ai giovani. Di norma dura una stagione, dopo di che, una volta cooptati, i due o tre giovani del caso cominciano a comportarsi in modo ragionevole. In genere in tre anni il prodotto scade, rientra tutto. Erano comunque tre anni e il problema rimaneva: togliendogli di mano un obiettivo, di quale metodo avrebbe potuto discutere?

E poi: dove interpretarlo, il ruolo di padre nobile? Sarebbe stato necessario costruire anche questo risultato come un traguardo, ma – e qui gli va senz’altro riconosciuto un merito – Carlo non era quel tipo di politico; non era quel tipo di uomo. Per chi recitarla quindi la parte? Per questi, che lo avevano estromesso? Per un pubblico ancora tutto da creare? Mah. Neanche l’ultima alternativa gli sembrava percorribile: l’aveva vista incarnata da Zafesta un modesto politico della generazione di suo padre e la considerava forse la peggiore, quella di usare ciò che gli restava, la sua insufficiente rete di fedelissimi (Rivolta, Tornabuoni, Donzetti), per costruire dall’esterno una lobby tale da condizionare le consulenze, i piccoli incarichi, perfino qualche appalto. Osservava la fontana in gesso con il putto che giocava col delfino. Agitarsi per l’applauso di questa comunità devota e già tenuta alla riverenza?

Forse l’unica cosa che avrebbe potuto fare era raccontare la sua vita, proporsi come modello: ma gli pesava. Non si sentiva ancora arrivato in fondo.

Controllò il suo orologio con quello del campanile. Aveva molti incarichi. Provò a concentrarsi sul lavoro, ma la crepa avanzava intaccando la sua sicurezza. «Sconfitto e solo», si disse «e invece devono far almeno un po’ di fatica per togliermi di torno». L’onore delle armi non conta niente. Conta solo la forza, la posizione in un rapporto di forza. Il resto è polvere. Perciò – ancora una volta – doveva farsi valere, minacciare qualche danno, far rotolare qualche testa, al punto da farsi pagare quanto serviva per recuperare la reputazione.

Poco più avanti c’era un cantiere della IMMERmobil. Si fermò a osservarne le insegne, le impalcature, le indicazioni del piano di sicurezza, ma erano dettagli. Voleva seguire lo stato d’avanzamento dei lavori, perciò mise la testa oltre le reti di protezione, nella luce di che arrivava forse solo due metri oltre. Procedevano spediti. Ecco, quando non si sa cosa fare, politicamente l’urbanistica paga sempre. Sembra ridicolo, ma funziona. Poteva attaccarli su questo piano. Non c’era anzi altro campo in cui si potesse mettere al sicuro un risultato in poche settimane. Rovinarli, no: sarebbe stato necessario troppo tempo e lui – bisognava essere realisti – non ne aveva.

Quando si verifica un cantiere, è sempre difficile trovarlo scrupolosamente in ordine.

Riprese la via. Nel Bar Panizza si sentiva vociare qualcuno. Tirò dritto.

Guardando questi giovani – ad esempio Verrazzano – la prima cosa che si notava è che venivano dagli studi; ignoravano cosa fosse il volontariato, cosa avesse rappresentato in quegli anni. Certo, anche loro nei primi anni Novanta avevano fatto parte di qualche associazione, ma progressivamente, procedendo negli esami, se ne erano staccati: ne avevano avvertito il limite, anche perché di fatto erano stati messi in un angolo dagli altri soci. Avendo preferito l’ambito civile a quello politico, avevano usato l’associazione per i loro timidi traguardi e per questo difficilmente sarebbero tornati a far parte di questi organismi. Raggiunta la laurea, sognavano di essere invitati a tenere una conferenza (che avrebbero vissuto stupidamente come una rivincita). Davvero non avevano nulla di imprevedibile. Se anche fossero rientrati, difficilmente avrebbero provato a convincere i soci della bontà delle loro idee; anzi, per essere chiari, con tutta probabilità avrebbero lasciato associazioni e soci a loro stessi e si sarebbero trasferiti in città, dove – ignoti a tutti – avrebbero finalmente potuto partecipare a eventi collettivi con i loro simili: andare alle presentazioni dei libri, perfino a cineforum perfettamente inutili. Più avanti avrebbero ricominciato a lamentarsi che lì non li conosceva nessuno, che nessuno li valorizzava per ciò che sapevano, avevano studiato, avrebbero voluto realizzare. E avrebbero continuato a lamentarsi in lunghe serate al bar (o nei pub, come usavano dire in modo ancor più idiota, cercando di copiare l’arredo inglese). In periferia, nelle valli, sarebbero rimasti soprattutto quelli che non avevano studiato, quelli considerati più stupidi, il che gli avrebbe semplificato il lavoro, perché con questi, certo, sarebbe stato più facile intendersi: non avevano esperienza e quindi speravano di acquisirla parlando con quelli come lui, ma soprattutto: avevano dei limiti. Se fossero stati più svegli, li avrebbero mandati a studiare e ora si sarebbero trovati come i loro compagni laureati. In sintesi, con la prudenza si poteva ancora andare lontano.

Guardò un cestino dei rifiuti vicino all’edicola, inusualmente pieno. Le nuove lotterie continuavano a illudere parecchie persone. Ci cadevano anche i più giovani. La serata era umida.

Intanto, per il consenso, un dato di fatto. Era difficile pensare che il volontariato, su quelle basi e con quei numeri, si sarebbe mantenuto senza grandi modifiche, ma bisognava continuare a farlo credere, fare in modo che i più partecipi si esponessero, che i giovani rimasti in periferia si inserissero e, si intende, gratificarli in proporzione, a patto che mostrassero un minimo di riconoscenza politica. E qui un altro problemino. Bisognava farsi pagare prima che il tema stagionale del rinnovamento influenzasse anche il volontariato: non era il caso di impensierirsi, era un ambito conservatore – o per meglio dire in mano a persone che volevano restare al proprio posto – ma era meglio pensarci, prepararsi.

Wilma era buona, ma glielo aveva ripetuto mille volte: non aveva idea delle complicazioni che le cariche comportavano. Non erano questioni sociali. Non si trattava del vestito da indossare, né delle poche parole da dire (ormai questi dettagli li risolveva senza nemmeno più pensarci). Il cuore del lavoro era altrove, la fatica dei calcoli, delle ipotesi, dei rischi da correre, le alleanze temporanee da stringere nelle geometrie più impensate: e, naturalmente, il tutto da impostare quasi per intero su valori presunti.  Ci voleva istinto. Lo sapeva, lo avevano già detto in tanti. Bisognava esserci portati. L’insicurezza è la divisa segreta di chiunque faccia questo mestiere: ciascuno sa che non è destinato a durare a lungo, per questo fa di tutto per durare. I più bravi se la cavavano: lui era in sella da quasi diciotto anni.

2.

«Che fai ancora in giro? Riunioni?»

«Riunioni, caro».

«Sempre in movimento».

«Ma a portata di mano. A Roma io ci vado poco».

«Intendevo, sempre da una riunione all’altra».

«D’altra parte funziona così. E in mezzo cerco anche di combinare qualcosa».

«Sì, lo so, scherzavo. Da dov’è che vieni?».

«Dal Comitato Promotore di Sviluppo. Mi sono un po’ stancato di cercare di farli ragionare, voglio metterli alla prova. Ora vedremo».

«Senti, scusa se te lo chiedo. Sai che un po’ mi interessa e un po’ sono tenuto a farlo: quella faccenda dell’azienda per il turismo – ne abbiamo già parlato – sarebbe ora di metterci mano, no? Io ho sentito tre o quattro colleghi albergatori, ma mi dicono che è tutto fermo, che non si muove niente».

«Eh, bisogna vincere qualche resistenza. Lo so che a te può sembrare strano, ma c’è molta gente che apprezza la gestione in corso: del resto, chi sta bene non ha bisogno di cambiare».

«Ah, non ne dubito. Ma bisogna poi capire se stanno bene davvero. Ce ne sono troppi che non hanno proprio capito che qualcosa è cambiato, che tutto sta andando pian piano verso il peggio. Dai un’occhiata agli indici, alle presenze. Bisognerebbe fare qualcosa, almeno quel tanto da dimostrare che questo organismo ha ancora senso, non credi?»

«Sì, ma la maggior parte dei tuoi colleghi è contenta. Cosa vuoi, che vada a dire che bisogna cambiare tutto, se sono lì proprio per dire che non dobbiamo toccare niente? Credi che qualcuno voterebbe una proposta del genere?».

«No, ma è assurdo. Sai già tutto ciò che serve sapere. Hai visto cosa stanno facendo negli ambiti vicini al nostro? Hai visto Fenoglio? Un vagone di iniziative. Se non ci diamo una mossa, cazzo, restiamo indietro di cinque anni, te lo dico io».

«La questione è tutta qui: chi ci vota? Gli organismi pubblici funzionano in questo modo».

«Non è possibile che nessuno si accorga che se non ci muoviamo restiamo tagliati fuori».

«Prova a convincere i tuoi».

«Sì, siamo a posto».

«Che vuoi che ti dica? L’alternativa è fare a meno del pubblico. Non dovrebbe essere difficile».

«Sì, e i soldi ce li dovrei mettere io? Cioè, dovrei continuare a pagare la quota annuale della società e poi, per poter vedere qualcosa di buono, dovrei tirar fuori i soldi di tasca mia e crearmi un’altra realtà operativa? La tua soluzione sarebbe questa?»

«Convinci i tuoi colleghi».

«Va bene, metti pure che io ci provi, a convincere gli albergatori: nel consiglio di amministrazione ci sono anche due rappresentanti delle associazioni e cinque interlocutori pubblici, quattro, te escluso. Credi che questi ci seguirebbero?»

«Secondo me il problema sono gli albergatori. Se questi sono d’accordo, perché i referenti pubblici dovrebbero mai mettersi di traverso, visto che in teoria sono lì per far contento il settore?»

«Perché? Per affari loro, casini politici fra di loro».

«Non è detto che debbano risolverli proprio lì. Sono sempre le stesse facce e in questo periodo un buon risultato potrebbe fare comodo. Ma bisogna avere pazienza. Potresti dire che tutto resterà uguale, tranne che per un piccolo progetto, una proposta, un tentativo tanto per fare qualcosa, qualcosa che costerà poco, sia chiaro. Non una stagione intera. Non devono preoccuparsi».

«Tu sei d’accordo, no?».

«Naturalmente, ma non spendere il mio nome, altrimenti sembra che voglia fare bella figura io. Fai in modo che sembri roba vostra».

«Devo convincerli tutti?»

«No, bastano meno della metà, al resto ci pensiamo in consiglio».

«Non posso assicurarti niente».

«Non è a me che lo assicuri, ma a te, a voi. Io sono lì solo per favorire il processo».

«Beh, ora vediamo. Ma senti, ti fermi al Bar Panizza?»

«No, è già tardi».

«Va bene».

«Tienimi informato, eh. Lo sai che mi interessa. Ci vediamo».

«Sì, sì, mi faccio sentire».

3.

Girò la testa a terra sul selciato. Non riusciva a mettere a fuoco. Poca luce. Una sensazione di torpore freddo, il senso di un taglio sulla guancia. Un’attrice. Uma Thurman? Era caduto. Era caduto e pur avendo messo una mano avanti aveva sbattuto la testa. Forse cadendo si era girato. Fatto sta che era ancora steso. Probabilmente per qualche secondo aveva perso i sensi. Non aveva ancora chiaro cosa fosse successo. Quel film sulle autostoppiste. Guardava in alto, fra le case, la striscia di cielo stellato. Cercava di recuperare il momento decisivo. Era inciampato. In quel tratto di strada, subito dopo la curva la luce era debole. Le pietre sconnesse da sistemare. Colpa dei lavori. Sì quella autostoppista col pollice lungo. Non riusciva a recuperare l’istante in cui aveva perso il controllo. Era inciampato. Era anche un po’ che non andava al cinema. Ci voleva anche questa, non bastava il ridicolo di quella sera. Pensò che sarebbe potuto rimanere a terra ancora un po’: il pavimento non era così scomodo. Era sfinito. La strada, chiusa al traffico. Quel film su un nuovo sesso. Sentì dietro di sé le voci lontane di due o tre persone che uscivano dal bar. Sì, fermarsi ancora un po’. Riposare. Cercò lentamente di girarsi e a metà rimase steso sul ventre per un momento. Riposare. Sembrava tutto a posto. Che ridicolo. Gus van Sant. Si mise sulle ginocchia. Rialzarsi in modo corretto, come gli aveva insegnato il fisioterapista. Lentamente. Decisivo per chi ha problemi di schiena. Le voci si allontanavano dall’altra parte, per fortuna. Cowboy? No, Cowgirl. Ecco, Cowgirl. In tv qualche sera prima, a tarda ora. Era in ginocchio. Poteva fingere di pregare. Ma era ora di ripartire.

Si rialzò barcollando, ma restò in piedi. Tutto a posto. Cowgirl, che razza di film. Il ginocchio sinistro dolorante. I pantaloni rovinati. E il gomito, un po’ tutto il braccio destro. Ma niente di grave. Si toccò la guancia sinistra, anche qui doveva essere poca cosa. Qualche piccola goccia di sangue. Doveva trovare una vetrina in cui specchiarsi, cercare un po’ di luce. Un politico di secondo piano praticamente distrutto. Perfetto.

Mise a posto i pantaloni e fece un paio di passi. Sì, tutto bene. Non era lontano da casa. La cassetta delle lettere verde cupo sul muro arancione di una casa: «Famiglia Marghetti» con la tromba postale in rilievo. «E se fosse così che comincia?». Perché un conto era sapere di dover porre mano alla battaglia, altro invece dire: «Comincia adesso». Un orrore esclusivo, innominabile. Ebbe un brivido di esitazione, poi scostò faticosamente il pensiero con una mano. Si sentiva male, ma non tanto da trasformare ciò che gli restava da vivere in una lunga meditazione sulla fine. Non ancora, almeno; forse mai. Tutto ciò che aveva disposto era rivolto al fare, a partire da Wilma e dalle ragazze, per poi passare alla famiglia, al paese. Bisognava dare il buon esempio. Non c’era ragione di cambiare orientamento solo perché ora sentiva di avere meno tempo. Quanto meno, poi? Avrebbe continuato a rivolgere ogni sua attenzione nello stesso verso, anzi, con maggior coscienza e senso di responsabilità. Avrebbe continuato ad agire. Per sé e per gli altri. Del resto, perché assolutizzare un episodio che sarebbe potuto capitare a chiunque? Camminava un po’ meglio, portando il passo fino in fondo, usando tutto il piede, come gli aveva raccomandato il fisioterapista. Sentì cadere una lamiera, forse per un colpo di vento. Non era niente di che. Provò ad accelerare: tutto bene. Pensava alla chiesa parrocchiale di San Giuseppe, poco frequentata e bisognosa di restauro. Don Giulio gli aveva mostrato la perizia. Bisognava mediare, sentire la Sovrintendenza, Chioccioli, le Belle Arti. Wilma, le ragazze. Sta di fatto che era toccato a lui.

4.

Sabato 15 marzo alle dieci e trenta, al termine dei lavori, era prevista l’inaugurazione del rinnovato Parco giochi Ferraris. Carlo si era vestito impeccabilmente. Completo grigio scuro, cravatta testa di moro, un’eleganza inconsueta (da qualche mese non lasciava più nulla al caso: Fiorella, la commessa che lo serviva – se con lui non c’era Wilma – sapeva il fatto suo). Sindaco, autorità provinciali. Gli era toccato un posto d’onore.

Aveva quasi concluso, fra applausi tutto sommato più calorosi della media. Settanta presenti. Del resto, si trattava di una risistemazione del parco: avevano cambiato le panchine, il castello per i bambini. Due nuovi alberi, il fondo rimesso a nuovo sotto il castello. Non era il caso di farla lunga. Era stata un’idea sua, però, e aveva voluto ribadirlo:

«Questa volta dalle intenzioni al risultato finale ci è voluto meno del previsto. Non ci volevo credere, ma è andata bene».

Qualche insidia era rientrata.

In Consiglio, si era fatto assegnare il coordinamento di una commissione per lo sviluppo del territorio (in questa, con maggior dinamismo e su una superficie meno estesa, faceva quel che il Comitato da cui si era dimesso – dimissioni non accettate, situazione in stallo – non riusciva a realizzare sull’intero ambito di riferimento: l’idea era appunto di formare un modello in piccolo e poi di prendersi tutto). La stanchezza alla schiena e alle ginocchia era bilanciata da una soddisfazione che dopo sei mesi di rincorsa poteva dirsi ritrovata.

Vedi, aveva detto a Wilma, ciò che conta non è la nostra reazione emotiva, ma la costanza silenziosa del lavoro.

Lei gli aveva sorriso, come gli sorrideva adesso, in un angolo lontano dal palco, sotto un ippocastano. Lo vedeva meglio: forse gli anni incominciavano a pesare, ma si difendeva “con grinta”. Si diceva così una volta, perché ora non lo diceva più nessuno? Alla festa di compleanno, Clara gli aveva annodato una cravatta di seta blu trapuntata di rosso, elegantissima. Si era quasi riconciliata con suo padre, vai a capirla. Non che tutto fosse rientrato, le divergenze rimanevano: ma sì, ora avevano ripreso a parlarsi. Soprattutto, lei aveva ripreso a dare qualche esame. Di quel passo, esclusi nuovi colpi di testa, in un paio d’anni si sarebbe laureata.

«E insomma, per una volta lasciatemelo dire. Sono contento. Siamo stati fortunati a prendere al volo un finanziamento: è stato un po’ come quando si entra in un negozio mentre il titolare sta abbassando la serranda. Ci siamo riusciti per un pelo. Sono entrato e ho detto subito che non me ne sarei andato finché non avessimo portato a casa quello che ci serviva e – direi – quello che ci spettava. Era così poco – e le misure di finanziamento erano ancora aperte – che non riuscivo a capire questa esitazione: oggi i funzionari ti mettono sempre davanti una difficoltà, quando non un rifiuto. Ma dico, per così poco? Eppure è sempre così: tanto o poco per loro non conta. Come se li si dovesse convincere con una persuasione che di per sé dovrebbe sembrare superflua. Ad ogni modo, questo è quanto. Siamo contenti, e i nostri bambini (e le mamme che li sorvegliano) lo saranno anche di più».

Fra ripetuti cenni di consenso, cercò di guadagnare la sedia sul fondo del palco. Voltandosi, si sentì barcollare: come gli era già capitato, sentiva di camminare sul ponte di un traghetto, ma ce la fece. Forse non se ne era accorto nessuno. I dolori cervicali si erano fatti insostenibili; del resto, il dottor Fernandi glielo aveva detto. Qualche passeggiata senza fretta, non «farsi divorare l’ultima parte della vita dalla paura di non arrivare in tempo». Sintesi lodevole. Lorenza, Presidente della Scuola Materna, gli sorrise amabilmente. Non capiva, non aveva mai capito. Forse non capiva niente. Cercò con lo sguardo Wilma e la trovò, infine, più o meno dove si metteva sempre. Gli fece un segnale di approvazione con un pollice alzato.

Ora osservava il salice sulla sinistra, in fondo alla piazza. Dava sul cancello verde dell’orto della parrocchia, un cancello di recupero, troppo alto da terra, con gli elementi verticali in ferro saldati distanti l’uno dall’altro. Non elegante, ma faceva il suo. Ecco, una cosa così.

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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