Balk Clubbing

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di
Azra Nuhefendic
(note di lettura sul libro, Sahib di Nanid Veličković)

“Saragevo”, cosi in modo sbagliato, pronunciavano il nome della città quelli che per primi si sono recati a Sarajevo, all’inizio della guerra: i giornalisti e i membri delle varie organizzazioni internazionali. Molti, ancora prima che venissero là, o giù (perché per definizione quelli che sono diversi dal mondo civile sono sempre giù) si prendevano per “gli esperti” della nostra storia, dei nostri costumi e della situazione politica in Bosnia ed Erzegovina.
Viaggiavano per il mondo in comitiva, in giro per guerre e conflitti come quei vacanzieri che frequentano i villaggi turistici sapendo che in qualsiasi posto del mondo essi vadano, troveranno sempre le medesime condizioni, un identico contenuto, mentre oltre il recinto ci saranno i locali, anch’ essi identici, dappertutto. Da un momento all’altro anche noi bosniaci siamo diventati “locali”, “indigeni” e assai presto ci siamo accorti che l’erronea pronuncia del nome della città era la cosa meno grave che potesse accaderci.

Quello che non sopportavamo erano i pregiudizi e gli stereotipi con cui loro venivano giù da noi e che ci rinviavano puntualmente ogni volta: i giornalisti a mezzo stampa, e i politici e i diplomatici nei loro “reports” internazionali. Il nome Bosnia come una lunga, incurabile malattia, ce lo trascinavamo dietro all’epoca dei fatti e ancora oggi, a quindici anni dalla fine della guerra, sembra non volerci abbandonare.
Il vero cavaliere è colui che combatte per una causa già persa”, frase pronunciata uno dei personaggi del libro “Sahib”, esprime, credo in modo appropriato come si senta la maggior parte dei bosniaci oggi: stanno combattendo una battaglia persa in anticipo.
L’incomprensione, tra i bosniaci e i membri dell’eterogeneo gruppo che rappresentano la comunità internazionale, è la principale protagonista del libro “Sahib”. Tramite i due personaggi chiave, lo scrittore Nenad Velickovic, descrive la tragica e insieme comica condizione della Bosnia attuale.

“Qui chiamano la mentalità, quello che è per noi un disturbo mentale”,chiosa un giovane inglese Sahib, giunto in Bosnia per una missione umanitaria. Sahib è il nomignolo che gli ha affibbiato il suo autista bosniaco che invece si chiama Sakib nome musulmano abbastanza comune a Sarajevo.
Ed è proprio a partire dai nomi dei protagonisti che l’autore comincia a costruire una storia pregna di contraddizioni, dove fa da sfondo la presunta superiorità occidentale da una parte e un paese conservatore e retrogrado dall’altra. “Sahib”, ovvero “ padrone”, era il nome che in segno di rispetto impiegavano gli indiani per i dominatori inglesi. I due personaggi a causa del lavoro che svolgono, trascorrono molto tempo insieme. Non c’e tanta stima tra di loro, non si capiscono bene ma con il passare di tempo si crea un’amicizia particolare che scatenerà una serie di situazioni comiche, fraintendimenti, incomprensioni e vittimismi.
Sahib, l’inglese, è cinico, ignorante e razzista e rivela da subito come lo scopo della sua missione a Sarajevo sia tutt’altro che umanitario:

“Ti ho già detto che la nostra missione qui non è aiutare le vittime di guerra in Bosnia, ma far tornare i rifugiati dalla Comunità Europea dove loro risiedono e vivono già da troppo tempo sfruttando gli aiuti sociali”, afferma Sahib, e poi: “I nostri governi si aspettano da noi rapporti completi, non risultati.”

Il suo autista, Sakib, bosniaco cerca di esaudire ogni desiderio del suo padrone, esagerando con le attenzioni al suo ospite- cosa tipica per un bosniaco – al punto di farsi del male. La satira di Veličković è tagliente, fa male, ma non cattiva. La sua percezione è fantastica. Ridicolizza i miti falsi, svela le falsità della politica, mostra l’assurdità dei cliché, svela i pregiudizi e gli stereotipi mimetizzati. Nenad Veličković non giudica, ma non perdona neanche.
Senza pietà fa i conti con i propri connazionali e con la stessa Bosnia . Ad esempio scrive, per bocca d’un inglese, di uno dei posti sacri di Sarajevo, nel cuore della città vecchia:

La piazza dove oggi ho bevuto un tè, in una parte della città che si chiama Bascarsija, mi ha ricordato Venezia. Non per la grandezza, ma per la puzza dei picconi”.

Per quelli che non conoscono la mentalità bosniaca, e specialmente, quella della gente di Sarajevo scrivere una cosa del genere potrebbe apparire un sacrilegio, eppure per quanto possa essere sporca e puzzolente, Nenad Veličković adora la sua Bosnia.
Il vero bersaglio della critica feroce dello scrittore bosniaco è proprio la limitatezza mentale della società di massa occidentale, e la sua politica di colonizzazione del resto del mondo dissimulata dietro la retorica della liberazione e della democratizzazione dei popoli.

Nenad Velickovic, scrittore bosniaco:”Sahib”
Edizioni Controluce, 2009). L’autore è già conosciuto in Italia per “Il diario di Maja” e “Il padre di mia figlia”.

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4 Commenti

  1. L’articolo è interessante ma mi sento a disaggio, quando il giornalismo è pensato come viaggio turistico, mi sembra la critica esagerata. credo che la parte occidentale ha visto gli orrori. C’è testimonianza delle donne violentate che è arrivata nel cuore delle donne dell’occidente. E mi rammenta la paura, perché la ferita nel Balkan, frontiera dolorosa, frontiera che parla alla nostra memoria.

  2. Lavoravo come fixer (uno o una che fa tutto) per i giornalisti stranieri per tre anni. Alcuni ci venivano senza minima conoscenza di cosa sta succedendo là. Potevo, tranquillamente, dirgli che si trattasse dei cowboy e indiani. Non pochi venivano perche raccontare la guerra in BiH portava al instante attenzione. Un giornalista spagnolo mi aveva detto che “grazie alla guerra in BiH aveva guadagnato per comperare un Porsche”
    Mi ricordo una TV italiana, non avevano una pallida idea, tranne che c’e la guerra, di cosa sta succedendo. Inoltre, insistevano che gli raccontassi mia storia privata, nonostante che gli avevo spiegato che quello portava un pericolo reale per me. Volevano la storia ad ogni costo.
    C’erano quelli che sula guerra in BiH scrivevano 500 chilometri lontano, cioè da Belgrado, oppure che sorseggiavano la grappa a Pale, roccaforte serba, con la figlia di Karadzic, e scrivevano come è la situazione in Sarajevo assediata.
    Ancora oggi le trace di ignoranza o di indifferenza sia dei giornalisti che i politici seguono la storia di guerra in BiH. Ad esempio che ”tutti sono colpevoli”, “si tratti di odi secolari”, “le parti coinvolte”, “le guerre tribali”.
    Questi stereotipi sono stati abbattuti (ma solo dopo la guerra, e chi gli legge oggi?) nei documenti del Tribunale D’Aia, delle Nazioni Unite, oppure con i documenti e testimonianze archiviate preso State Departement americano (una don a musulmana impichiatasi dopo di aver essere stuprata “non era colpevole, non era esponente di un presunto odio secolare. Il suo atto disperato era la tipica reazione di qualcuno incapace di agire anche solo in autodifesa”.
    Oggi leggiamo nei vari libri, la verità. Ultimissimo è il libro di Tylora Brancha “Clinton Tapes”, Simon & Shuster, 2009) dove autore scrive che l’ex presidente francese François Mitterand si opponeva ad aiutare la BiH, perche “un paese musulmano non appartiene all’Europa”. Dalle affermazioni del genere risultavano i stereotipi che aiutavano agli politici di evitare ad aiutare la BiH, e i giornalisti citavano i politici.
    I danno è già stato fato, oggi quando i lettori reagiscono a quello che scrivo, ancora oggi usano “i fati” del ministero di propaganda di Serbia di Milosevic.
    Rari sono i giornalisti come americano Davi Reiff che nell’introduzione del suo ormai classico libro sulla guerra in BiH “The slaughterhouse, La Bosnia e il fallimento dell’Occidente” che è arrivato i n Bosnia senza sapere niente, per scoprire che non si tratti del conflitto ma di mattatoio.
    Mi ricordo ancora oggi il ministro italiano dell’epoca che veniva ad aiutarci facendo la parte dei diplomatici europei. Lo ricordo non per quello che aveva fato, ma per i rapporti nei giornali che quello si divertita nei vari disco club, quando non faceva le trattative. Oppure Lord Carrington inglese, che partecipava alle aste di antiquariato, e “già-che-ci-siamo” dava interviste ali giornalisti, cosi tanto lo interessava la BiH.
    Oppure i diplomatico norvegese Thorvald Stoltenberg che diceva che “i musulmani sono di origine serbi”, ripeteva quello che sostenevano i criminali come Radova Karadzic o Biljana Plavsic, e cosi lui stesso ha contribuito all’esito tragico di guerra in BiH. Gli esempi sono tanti e ci vuole un libro per elencare tutto e tutti.

  3. Ringrazio Azra per la risposta. Ammiro la sua sincerità che è fondata sul dolore dell’esperienza della guerra. Non ho conosciuto la guerra che come eco terribile. Ho solo provato orrore quando ho saputo che cosa è accaduto alle donne ( in ogni parte di questa guerra, le donne hanno subito orrore).
    Il problema è quando sei dall’altro parte e che sei una ragazza, che hai l’informazione su cose orribili e che non puoi agire.
    E’ il sentimento di impotenza.

  4. OT
    io trovo affascinante il modo in cui la lingua italiana accolga i non italiani, anzi, per essere più precisi, nel modo in cui i non italiani accolgano la nostra lingua.
    effeffe

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francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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