“La tempesta scatenata dall’ispettore fantasma” di Gianni Celati
di Nunzia Palmieri
È uscito domenica scorsa sul «Corriere della Sera» un nuovo racconto di Gianni Celati, una storia in cui si ritrovano molti dei personaggi che abbiamo già incontrato nelle pagine delle Vite di Pascolanti (Nottetempo, 2006) e nei Costumi degli italiani 1 e 2 (Quodlibet, 2008): l’avvocato Annoiati, l’assessore Rovina, il prefetto di polizia Imbrogli, il direttore del giornale locale G. Mastrotto, le dame, mogli dei notabili, la contessa Tinti-Altiforni, la marchesa Cecchi-Mammullà, la signora Veratti e altre nobildonne, il sindaco Cagnotto, il tipografo Catenacci, Scagliarini, il grande giocatore di biliardo detto «il geometra del panno verde», il professor Amos, filosofo e bevitore, e poi Pucci e i suoi compagni di scuola. Anche i luoghi che i personaggi attraversano sono familiari ai lettori dei pascolanti: la piazza della cattedrale, il caffè, il circolo culturale anarchico, l’Accademia del Biliardo, il quartiere Mame, il vicolo del Voltino nel quartiere Carrozze dove abita la famiglia Pucci. È la città di sogno a cui Celati ha dato vita, città senza nome nella quale fa muovere di tanto in tanto le sue figurine leggere e indimenticabili.
Questa volta nella città di Pucci e Bordignoni sbarca un tipo misterioso con impermeabile e cappello sulle ventitré, che vaga per le strade prendendo appunti su un taccuino e conducendo strane indagini nell’Albergo del Leon d’Oro. Nessuno sa chi sia, da dove venga e cosa stia cercando, ma gli alti prelati e i notabili della città temono voglia ficcare il naso negli affari loschi legati alla demolizione di un ospizio per anziani di proprietà dell’arcivescovado, abbattuto per poter costruire al suo posto una serie di villette monofamiliari. Nel corso delle sue indagini, per la verità piuttosto strampalate, l’omino che di nome fa Muccinelli, «minuto e basso come l’omonimo giocatore di calcio, ai tempi» si trova intrigato in storie di truffe, di corruzione, di adulteri, di speculazioni, di ricatti, di rivalità, di invidie, di progetti politici sovversivi e di violenze. Gli affari loschi condotti nella città sono la trasposizione fantastica, ottenuta con l’impiego di un cannocchiale rovesciato, di un habitus sociale che, su scala più vasta, fa parte della storia passata e presente del nostro paese.
Nella città di provincia si muovono, come in una visione di Bruegel gremita di personaggi, i tipi umani destinati a formare il grande quadro dei costumi degli italiani. È una piazza universale, come quella che si trova nel dizionario dei mestieri e delle professioni di Tomaso Garzoni da Bagnacavallo (La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Einaudi, 1996), un libro – ci fa notare Celati – a suo modo etnografico: «La Piazza Universale parla di tutti i mestieri immaginabili. Non soltanto delle professioni serie, del retore, del filosofo, dell’architetto, dell’avvocato, del musico, del pittore, ma anche e soprattutto dei mestieri che si dicevano “meccanici”: fabbri, sarti, tessitori, fornai, muratori, lanaioli, levatrici, barbieri, vasai, tintori, intagliatori, pescatori, asinari, caprari, osti, etc. E inoltre di attività sociali non moralizzate, come quelle delle meretrici, dei puttanieri, dei giocatori d’azzardo, dei banditi, degli sgherri, dei ciarlatani, dei maldicenti, degli oziosi di piazza, e perfino degli innamorati. E infine dei mestieri loschi, mescolati più o meno con l’imbroglio, decisamente aggrediti dalla sferza di Garzoni, degli alchimisti, degli astrologi, degli esorcisti, degli indovini, dei maghi» (Gianni Celati, La Piazza Universale delle parole secondo Tomaso Garzoni, “Griseldaonline”, n. VI, 2006-2007).
Così ci appare la città di Pucci, con le sue strade, i suoi edifici sospesi fra realtà e sogno e i suoi tipi umani che si affacciano sulla piazza di volta in volta come protagonisti o come figure di sfondo, spostandosi in primo piano per poi ritornare nell’ombra. Prendiamo Rinaldi, studente dell’ultimo banco bocciato in tutte le materie, uno dei tanti compagni di Pucci: qui lascia il teatrino della classe scolastica per diventare apprendista detective nell’agenzia di Johnny Morgagni, «l’investigatore prescelto per indagare sulle indagini di Muccinelli». Diventa così protagonista di comici appostamenti, con spie che spiano e sono spiate, in una giostra di equivoci, di sospetti e di malintesi in cui tutti si muovono alla cieca, senza arrivare a nulla di fatto. Ma l’ispettore governativo Muccinelli, piccolo e gracile, quasi un omino di fumo uscito dalle pagine palazzeschiane, assorbito anche lui nel pascolo quotidiano lungo le strade, conserva fino alla fine il suo segreto.
La scrittura segue le traiettorie erranti dei personaggi, tenendosi in miracoloso equilibrio tonale, muovendosi su un filo teso fra resa comica e racconto dei minuti fatti quotidiani, abdicando a ogni spettacolarizzazione del narrare, affidandosi ai ritorni, alle ripetizioni a distanza, alle riprese con variazione che ci mettono di fronte il nuovo senza farci sentire spaesati. Il corpo del racconto fa sentire la propria unità nel tempo, nel divenire, nella crescita e nella metamorfosi, dando vita a un’utopia della lingua come centro di leggende che si ricrea dentro ogni parola, una lingua allo stesso tempo familiare e inattuale, che prende volontariamente le distanze dall’immediato presente, dalla prosa da gazzette e da romanzo di successo. Nelle pagine dei Costumi degli italiani convivono infinite varietà tonali: le citazioni dai classici latini e il latinorum dei liceali, memorie letterarie riconoscibili, un lessico diffuso di matrice romantica e tardo ottocentesca, forme del parlato che appartengono alla novellistica dialettale, ai ricordi di infanzia o al sentito dire, termini tecnici e gerghi settoriali, refrain da comica cinematografica in una festa delle parole in cui si mescolano alto e basso, presente e passato. La scelta di un sottotono euritmico e di una lingua discretamente straniata, come avviene nei racconti di Delfini, contribuisce a creare un mondo possibile nel quale ci sentiamo presi quasi senza sapere come, un universo familiare, vicino e lontano, che ci sembra di riconoscere come la stanza dimenticata di una casa che lentamente ci torna alla memoria.
Ma le vite di pascolanti non sono soltanto un meraviglioso repertorio delle parole che ogni storia porta con sé: i personaggi migrano da un racconto all’altro e ogni racconto aggiunge nuove figure (qui compare la guardarobiera del Leon d’Oro, che forse ritroveremo, come il narratore ci promette, in un’avventura a venire) e crea nuove attese. Quello che si presenta ai nostri occhi è un dizionario vivente, mobile e aperto, sempre passibile di nuove inclusioni, imprevedibile come la vita stessa. Il diavolo Asmodeo di Lesage torna a scoperchiare i tetti della città, mostrando quello che succede nelle case, nei luoghi di ritrovo, nelle botteghe dei barbieri e nelle stanze degli alti prelati, lasciando che sempre nuove figure si aggiungano di volta in volta. Ma i Costumi degli italiani non prevedono una cornice né una costruzione spaziale che funzioni come principio architettonico d’ordine: qui i racconti nascono da altri racconti, quasi per partenogenesi, dagli incontri o dall’esposizione ai luoghi, seguendo un movimento divagante che prevede progressioni e ritorni.
L’io che si fa carico del narrare si mostra solo a tratti, con una presenza discreta: la sua visione apre prospettive parziali, punteggiate di vuoti e dimenticanze, come un affresco di cui alcune parti si siano irrimediabilmente staccate. Si ha l’impressione di un’incertezza del vedere che non ci mette di fronte a un mondo già dato di cui si stia facendo una descrizione o un resoconto, quanto piuttosto al processo in atto che Merleau-Ponty definisce come un «ordine nascente», colto nel suo farsi da punti mobili di visione. La voce del narratore si manifesta e si ritira, si fa sentire di tanto in tanto come quella di un testimone non invadente, con una debolezza di vista che lascia correre tutto lontano dal proprio centro, dandoci l’impressione di essere solo una delle tante figure che attraversano la città. I vuoti lasciati nel racconto creano dei punti di sospensione, delle sfrangiature che ci riportano agli inciampi del dire per voce e al gusto semplice del narrare non specializzato, che ha una sua precisa funzione nella comunità: distoglierci dai rumori del mondo, sollevarci dalla pesantezza del vivere con l’uso sapiente delle parole che seguono gli accenti interni e le pause occasionali, come i battiti di un ritmo sentito come proprio che riusciamo a condividere, a sentire insieme. Forse per questo le storie di Gianni Celati ci mettono ogni volta in attesa di un omino che sbarchi in città, portando con sé un nuovo racconto.
Un post in cui si sente la passione di chi legge.
Un bel post.
la notizia lascia presagire che si sta preparando un nuovo mirabolante episodio di quell’autentico romanzo a racconti che è costumi degli italiani ?
da celatologo apprezzo molto questo testo.
io pure celatomane
mi arruolo tra queste schiere di ammiratori (ardenti e non arditi) e inneggio al post.
Leggere Celati è sempre un’esperienza…
A me questo racconto ha ricordato un po’ quel film con Nino Manfredi, commesso viaggiatore assicurativo, che sbarca in un paese di provincia e per una serie di disguidi viene scambiato per un emissario governativo venuto a spiare. Euritmica la lingua
Certo, “Anni ruggenti” di Zampa. C’è poi un antenato illustre: “Il revisore” o “L’ispettore generale”, a seconda delle traduzioni, di Gogol’. Da leggere o rileggere.
Ciao Luigi, ciao Franco: è bello ritrovarvi qui, a commento di questo post.
Credo Celati sia la prova di come sia possibile “ancora oggi” narrare con gioia e sapienza.
A parte la lingua, ciò che mi ha sempre colpito in lui è lo sguardo sul mondo, uno sguardo umile e divertito.
Anche in questo racconto, il punto di vista del narratore non si sovrappone mai agli eventi, ma si fa portare di un discorso che riguarda un’intera comunità.