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Premonizione

di Leonardo Palmisano

I miei figli sono morti.
Ci penso tutti i giorni, quando cammino lungo il fiume mentre vado in ufficio, e passo davanti alla scuola materna, e vedo i figli degli altri scendere dalle macchine e salutare con un bacio il papà che li ha accompagnati.
Li osservo finché qualcuno incrocia il mio sguardo: non mi piace che si accorgano di me. Mi volto verso il fiume e proseguo, e mi pare che nella mia testa tutto diventi freddo, ghiaccio, e che debba essere così in eterno. Poi, lentamente, ogni cosa torna quasi come prima.
Alcuni minuti dopo mi siedo alla mia scrivania e comincio a lavorare.
Leggo e scrivo per otto ore, più o meno. (Non serve entrare nei particolari.) Per farlo mi danno seicento euro al mese. Ho degli amici che per lo stesso lavoro prendono cinquecento o settecento euro. Per i più bravi – e i più fortunati – si arriva a ottocento. Si sentono felici. C’è anche chi non vede un soldo per sei mesi e spera che prima o poi gli facciano un contratto, che non lo caccino per far posto a un altro.
Non sempre la speranza si avvera.
Durante la pausa pranzo ci scriviamo delle mail per dirci come stiamo, per raccontarci quello che ci succede al lavoro.
Il capo di Livia è il nostro argomento di conversazione preferito: una pimpante signora acida di quasi sessant’anni (“la vecchia”)  che non capisce niente di filosofia ma è amica dell’editore e quindi dirige una collana sul “pensiero contemporaneo”. Tremila euro al mese. Non le basterebbero per comprare uno solo dei vestiti che indossa per arrivare in casa editrice a mezzogiorno, sedersi alla sua poltrona, inviare un paio di mail e restare fino alle quattro al telefono con le sue amiche, ripetendo “Guarda, oggi è una giornata terribile. Scusami, ma ho solo un minuto, perché qui se non ci penso io…”. Ci piace immaginare che suo marito sia un uomo d’affari ricchissimo, che non le rivolga la parola da prima della caduta del Muro e che abbia una giovane amante, da qualche parte in oriente, per l’esattezza a Shangai. Non ne sappiamo molto, in verità.
Livia è laureata in filosofia, 110 e lode. Poi ha fatto il dottorato. Poi, fino a sei mesi fa, ha lavorato all’università, pagata di tasca propria da un professore. Ha scritto dei saggi che sono stati pubblicati da riviste prestigiose, e lo scorso gennaio l’hanno invitata a un convegno in Canada. Quando è andata dal preside di facoltà per chiedergli se l’università avrebbe potuto pagarle il volo, si è sentita rispondere “Non so che dirle. Faccia una colletta tra i colleghi”.
Quasi ogni giorno ci inviamo dei link che rimandano ad articoli pubblicati sui siti dei più autorevoli giornali nazionali, pieni di refusi, di frasi buffe e di “quant’altro”. Qualche volta ci incontriamo per l’aperitivo e facciamo una specie di inventario. Ridiamo. Beviamo. Chiacchieriamo. A turno, prendiamo un’altra birra. Una sera abbiamo provato a redigere una classifica dei quotidiani con più errori, ma non siamo stati abbastanza costanti. C’è sempre uno di noi che non parla per mezz’ora ma, quando cominciamo ad avere quel tono sprezzante che non possiamo permetterci (e prima che cali un silenzio rivelatore), tira fuori un salutare “Che cazzo ce ne frega!” e cambia discorso.
Anche i figli dei miei amici sono morti.
Gli anni passati lontano da casa ci hanno resi dei cuochi e dei pasticcieri decenti, ma non riusciamo quasi mai a organizzare delle cene: c’è chi ha da tradurre, chi da correggere, chi da scrivere una scheda di lettura.
Di tanto in tanto si aggiunge qualcun altro al nostro aperitivo, ma è gente di passaggio: la cerchia non si allarga mai. Per la maggior parte si tratta di nostri superiori curiosi e invadenti, ai quali piace sentirsi democratici – oppure, più raramente, di fantasmi di antiche amicizie. Persone che parlano di viaggi, case da comprare, matrimoni da preparare. Ci trovano interessanti, simpatici, ci stimano persino, ma non le rivedremo più al nostro tavolo. Forse la colpa è nostra: ogni volta ci inventiamo un motivo divertente per snobbarle e lasciamo che vadano per la loro strada. Non credo che se ne accorgano o se ne rammarichino. Chi sta andando da qualche parte si dimentica subito dei contrattempi.

Prima o poi uno di noi si ucciderà, o ucciderà qualcuno per un refuso. Non credo che sarò io, ma mi piace immaginarlo.
Entrerò nella redazione di un giornale e punterò la pistola al primo che capita. Gli dirò di farmi vedere l’articolo a cui sta lavorando, nel quale troverò l’immancabile “quant’altro”. «Che cosa hai studiato, caro?», gli chiederò. Mi risponderà «Lettere (o filosofia, o scienze politiche, o sociologia)». Senza accorgersene, alzerà la voce, per la paura, e tremando dirà «Ho frequentato anche un master in».
Non saprò mai di che cosa si trattasse.
Il colpo partirà per un riflesso condizionato.
Lo guarderò per qualche secondo, mentre se ne starà per terra, immobile, prima che un suo collega cuor di leone mi salti addosso, mi disarmi e cominci a picchiarmi. Basterà per imprimere per sempre nella mia memoria l’immagine di quel corpo morto.
Quel cadavere sono io. Il suo sangue è il mio sangue. Alcuni anni fa, non so con esattezza quanti, ho avuto la prontezza di comprendere che il mio dovere non si fosse esaurito con lo studio, con lo stage, con l’impegno, con le letture, con l’amore per tutto ciò che avevo imparato, con la certezza di essere ormai in grado di mettere la mia firma in fondo a un articolo, di suggerire la pubblicazione di un libro e di lavorare con l’autore per renderlo migliore. Ho capito che dovevo fare anche altro. Andare a una festa, stringere una mano, sorridere, bussare, insistere, rischiare di diventare molesto – ma mai triste o deprimente, sempre simpatico! Sopprimere in me ogni forma istintiva di generosità, tenere in tasca il numero di telefono che sarebbe servito di più a un mio amico, e usarlo per cercare un lavoro che lui avrebbe svolto meglio di me.
È in quel momento che sono diventato adulto.
Pochi giorni dopo mi hanno convocato per un colloquio, mi hanno offerto un incarico a termine, l’ho accettato. È andato tutto bene. Dopo un anno è arrivato il contratto a tempo indeterminato. Ho chiesto alla mia ragazza di sposarmi. Abbiamo comprato casa. Abbiamo avuto un figlio, Andrea. Presto ne avremo un altro. Se sarà femmina (e vogliamo che lo sia) la chiameremo Sara.
Stamattina, quando ho accompagnato Andrea a scuola, ho notato un uomo che camminava lungo il fiume. Ci osservava.
I suoi figli sono morti, ma io non posso saperlo. Non so nemmeno immaginarlo. Anche i figli dei suoi amici sono morti. Non sono mai stati concepiti, eppure loro li hanno visti morire.
Ero certo che sarebbe venuto ad ammazzarmi.
Ho guardato con i suoi occhi il mio cadavere.
Era il suo.

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4 Commenti

  1. Sprazzi di amara realtà, punte di sapiente ironia, avvolgente malinconia. E’ sempre un piacere leggerti, Leonardo.

  2. Non ho potuto fare a meno di immaginarmi seduta lì accanto a te, a quel tavolino, a fare i nostri interminabili discorsi. Come l’ultima volta in quella di notte di fine agosto, in quella piazzettta di un paese minuscolo della nostra terra, dopo non esserci visti per tanto tempo e sapendo che sarebbe successo di nuovo. E’ bello e doloroso leggerti oggi e saperti lontano.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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