L’amicizia adulta

di Andrea Carraro

(Un estratto da Andrea Carraro, Come fratelli, Barbera editore, 2013, 256 p.)

Capitava che andassero a comprare il fumo, era un’occasione per stare insieme. Andrea lo andava a prendere verso le dieci dopo cena, Dario scendeva con comodo e poi compariva sulla strada illuminata a giorno dai lampioni e dalle insegne dei negozi. Spesso pioveva. Le rotaie del tram scintillavano in una curva luminescente: pareva uno scorcio di Lisbona immortalato da un bravo pittore di strada. Improvvisamente scompariva dietro il tranvetto verde sferragliante e poi ricompariva, lungo e dinoccolato come sempre, con gli arti lunghissimi e deformati dagli angusti finestrini della 126 amaranto di Andrea.

Entrava chissà come nell’abitacolo e immediatamente tirava indietro il sedile per farci entrare le gambe che doveva tenersi praticamente in bocca. Talvolta gli parlava con la mano davanti alla bocca, per non fargli sentire l’alito. Un gesto che gli pareva indicare sensibilità ma anche disposizione al teatro. Mentre attraversavano la città per raggiungere il posto dello spaccio, Dario gli faceva molte domande, gli chiedeva dei suoi impegni letterari, del lavoro in Comune che – sebbene lo impegnasse solo al mattino – lo stressava e che non aveva il coraggio di abbandonare, di come andavano le cose con Valeria, o si godeva in silenzio il notturno paesaggio urbano che si srotolava sghembo e spezzato oltre il finestrino. Raramente parlava di se stesso.

Il posto dove erano diretti era una miserabile propaggine di Testaccio, uno spiazzo semiasfaltato sotto il quale, in fondo a una scarpata di fitte e spinose sterpaglie, scorreva il Tevere. Lo stradone largo e malamente illuminato dai pochi lampioni risparmiati dal vandalismo avanzava diritto per una cinquantina di metri fra buche e gobbe e a un certo punto si interrompeva in una macchia di pruni selvatici impavesata di cartacce e preservativi. C’era solo una bassa e malandata costruzione rosa di cemento che ospitava un centro sociale fra i più sballati della città, e che un tempo era stata sede del mattatoio comunale.

come fratelli COP-1

Lo spaccio avveniva lungo quella strada: se eri fortunato non dovevi neppure scendere. I pusher ti si accostavano vociando e agitando la mani, non capivi quasi se con buone o cattive intenzioni. Ti stavano intorno in due o tre schiamazzando e intanto ti studiavano per capire se eri uno sbirro, finche abbassavi il finestrino e ne chiamavi uno.

[…]

Pigliavano il sacchettino: una abborracciata confezione ottenuta con un lembo liso e strappato di busta di plastica chiuso alla meglio. Dario annusava con aria competente. Erano ossessionati dall’idea della sola. Si fumava, non ci davano la sòla…, aveva cantato Rino Gaetano qualche anno prima. Ma Rino Gaetano era giovane – era rimasto giovane per sempre – mentre loro, giovani, non lo erano più da un pezzo.

Se non trovavi subito quello che volevi ti toccava scendere. Faceva un certo effetto quel posto di notte. Era una delle piazze più battute di tutta la città, e pullulava di tossici, quelli veri, gli metteva un po’ paura.

[…]

Tornando, guidava Dario mentre Andrea rollava una cannetta di prova, che poi si fumavano sotto casa sua in macchina continuando a chiacchierare magari ascoltando qualcosa di Bowie o di Neil Young. Stava bene con lui in quei momenti, gli raccontava anche cose intime della sua vita coniugale, delle sue frustrazioni da travet, era un libro aperto con lui. Dario invece non si sbottonava mai completamente, a misura che gli anni passavano, era sempre più reticente.

[…]

Quel giovane spacciatore l’avevano conosciuto al Mattatoio. Strisciava per terra nella notte fra le macchine parcheggiate per non farsi vedere dai pusher arabi che stazionavano sulla strada un po’ più avanti. Gli aveva bussato sullo sportello, gli aveva allungato un sacchetto d’erba per un centone. “Ma questa e buona, perché l’ultima che abbiamo preso non faceva granché!”

“E erba sai!… Più di tanto non fa l’erba!… se vi volete sballare veramente fatevi l’ero! Se ne volete, co’ du’ piotte ve la rimedio… Non la pigliate dai marocchini, e tajata co’ l’antrace!”

“No, a noi l’eroina non ci interessa, va bene questa…”.

Prima di andare gli lasciò un bigliettino sudicio dove era scritto il suo numero di cellulare. Era un ragazzetto biondo particolarmente malridotto, mezzo sdentato, si chiamava Stecco. Girava con un motorino sgangherato. Era malmesso, ma gli dava quello che chiedevano e spariva. Un giorno si presentò da Andrea al lavoro, lo chiamarono gli uscieri al telefono interno:

“C’e un ragazzo che dice di farti scendere… Ci ha un’aria!…”

“Ok, ditegli che arrivo…”.

Stava con una ragazzina che pareva Cristiana F. Guardavano con aria ammirata l’ingresso del suo ufficio dove stazionavano due guardie giurate.

“Cazzo, ma te lavori la dentro?”

“Eh, sì…”

“’Coddio, che culo!”

“Sapessi… Ma come ti è venuto in mente di venire qui?”

“Beh, che c’è de male?”

“Okay, okay, però non devi più venire… Se ho bisogno ti chiamo io!”

Li fece spostare di qualche metro.

“Si te serve quarcosa, questo è er momento…”

“Ne ho abbastanza, quando mi serve ti chiamo io.

Non devi venire tu da me!”

“Te dico che adesso te conviene, è un affarone!”

La ragazzina gli fa: “Annamo a Stecco, questo nun ci ha bisogno de ‘n cazzo… Armeno rimediamo du’ spade!”

“Aspetta!” fece il ragazzo. “Allora, amico, con due piotte domani te ne rimedio un vagone! E’ roba bona, algerina… Da paura…”

“Algerina?…”

“Sì, giuro, solo che i sordi me li devi da’ subbito, insieme a quarche siringa de insulina, a tuo buon cuore… Ce sta ‘na farmacia qua?… Tanto te ci hai l’aria precisa, a te nun te fanno storie…”

“Ok, poi ve ne andate però…”.

Tornò pochi minuti dopo con un sacchetto della farmacia. Il ragazzo s’era tolto il giubbetto. Andrea si accorse solo in quel momento che le braccia e le mani erano piene di escoriazioni.

“Ma che hai fatto?”

Lui non rispose, lo fece la ragazza al suo posto: “E’ cascato dal motorino ‘sto cojone!… Tie’, dotto’, pijete questa…”

La ragazza gli mise in mano inaspettatamente qualcosa.

“Dacce un artro centone e arrivederci… Pero bada dotto’, questa nun te la poi fuma’ sinnò la sprechi…

Allora la voi?”.

Non capì bene dapprima ma pagò per affrettare il loro congedo. Gli avevano dato appuntamento per il giorno dopo a Porta Maggiore. Ma l’indomani all’appuntamento non venne nessuno. Telefonò al numero del giovane spacciatore e gli rispose un uomo.

“No, è morto stanotte, io so’ er padre! tu chi sei?”

“Un amico… Ma come, morto?”

“E’ cascato dar motorino…”

“Cristo!” esclamo fra i denti e attaccò senza dire altro, preoccupato di dover dare qualche spiegazione. Quel fesso si era strafatto di eroina come una pigna e poi era andato in motorino.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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