Cioran, agonia di un reazionario

di Mario Sammarone

Per i tipi della casa editrice Bietti è recentemente uscito il libro di Emil Cioran, L’agonia dell’occidente – lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), un carteggio intercorso tra lo scrittore rumeno e il critico ed editore austriaco Wolfgang Kraus, con l’aggiunta, in appendice, di altre due lettere scritte dalla compagna di Cioran, Simone Boué, ed estratti del diario di Kraus che vertono sulla figura stessa di Cioran – la scoperta e la conseguente trascrizione di questo carteggio si deve a George Gutu, avvenuta in maniera casuale durante lavori di ricerca presso l’Archivio Letterario della Biblioteca Nazionale di Vienna.

Cioran-Kraus ItaliaCon questa pubblicazione, curata da Massimo Carloni che ne scrive una intensa e pregnante introduzione, veniamo a conoscere da vicino il pensiero dello scrittore rumeno, che ci viene reso nella sua piena umanità ed attività di intellettuale, grazie anche all’imponente apparato di note che sono un supporto ulteriore per accedere alla collocazione storico-biografica delle lettere stesse.

Cioran incontrò Kraus in occasione della traduzione tedesca del Mauvais démiurge per l’editrice Europa di Vienna, presso cui Kraus lavorava nel 1971 – ma probabilmente si erano già riconosciuti in precedenza. Si delineano subito le differenti personalità dei due intellettuali: Cioran con il suo pessimismo che lo fa volutamente restare ai margini del mondo culturale e per cui la produzione artistica si nutre necessariamente di una buona dose di ascetismo; Kraus, invece, che interpreta il suo ruolo di intellettuale come un’alacre attività di mediazione tra l’Est e Occidente, con un vero e proprio impegno emotivo, ed etico nel senso hegeliano del termine, che lo spinge ad invitare in Austria alcuni scrittori dei paesi del blocco sovietico; ma entrambi impegnati nel cantare l’Elegia del finis Austriae, nazione che per essi è archetipo della decadenza dell’Occidente.

L’Austria, che Cioran sente essere la sua vera patria, al punto di definirsi un tardo cittadino di Kakania, la terra immaginaria e pure reale creata da Musil, oppure sentendo su di sé le stigmate ideali di un soldato austroungarico, nato com’era ai confini orientali di quel grande Impero, prima che quelle terre diventassero dominio del caos balcanico. E tuttavia quell’anima orientale è rimasta, come una sorta di fatalismo, a comporre la complessa personalità di Cioran, quasi suo malgrado, insieme alla prediletta componente austro-germanica, e alla Francia terra d’adozione che gli dà ospitalità e lingua. Cioran rinuncia infatti all’idioma rumeno con un gesto di abiura che è un rifiuto totale della “rumenità” con il suo carico di maledizione individuale e nazionale, un auto-sradicamento consapevole portato alle estreme conseguenze.

La decadenza della potenza austroungarica è sentita visceralmente da Cioran come pericolo incombente sull’intera Europa, avendo aperto la via al pericolo della dittatura comunista che egli paventa possa dilagare in Occidente. Anche en France Cioran non si sente assolutamente a suo agio, essendo preponderante tra gli intellettuali il pensiero marxista, allora egemone con le grandi figure di Sartre, Althusser, Baudrillard, per lui incomprensibili con la loro adesione a una dittatura disumana. Ancora una volta, Cioran è sradicato, anche nel mondo della cultura. Per lui l’uomo occidentale è come Tantalo, il re mitico che sedeva al desco degli dei ma che non sapeva godere della propria ricchezza, colui che ha tutto ma che vuole votarsi a un inspiegabile pauperismo comunista: paradosso.

Nelle lettere a Kraus, Cioran rivela tutto il suo preoccupato stupore nel vedere la gioventù francese, non contenta della libertà di cui dispone, reclamarla a gran voce in cortei e proteste, per consegnarsi, eventualmente, attraverso una agognata rivoluzione, all’incubo della tirannide sovietica. La sua lontananza da quella ideologia lo porterà, pur frequentando lo stesso caffè di Sartre, Le Flor nel quartiere latino, ad ignorarlo per anni senza rivolgergli mai la parola.

Il sentirsi “straniero” di Cioran è in sintonia con l’amata figura di Sissi, l’imperatrice moglie di Francesco Giuseppe, angelo del disinganno, ombrosa al punto tale da rifuggire ogni contatto pubblico, vero atto di diserzione sociale che gliela rende sorella. Come Sissi si celava dietro le sue velette, Cioran vorrebbe una vita solitaria, più nascosta, non sottoposta alla schiavitù delle visite, degli incontri serali, delle conversazioni futili e sfinenti, degli spossanti e difficili rapporti con editori e traduttori.

E tuttavia, al di là di questa apparente misantropia, nelle epistole a Kraus emerge la figura di un uomo buono, educato, rispettoso, il quale suscita la perplessità del critico viennese che si chiede, nei suoi appunti di diario, come possa Cioran essere l’uomo civile e generoso che è, ed elaborare al contempo il suo pensiero così aridamente gnostico e ostile ad ogni manifestazione materica. Kraus azzarda delle ipotesi, quasi una diagnosi: perché il suo pessimismo? Da dove deriva? Una delusione? Un eccessivo idealismo tradito? Questione di salute? O l’insonnia forse, l’antica tiranna giovanile di Cioran, di cui soffriva già in Romania con la madre, atterrita dal malessere del figlio, che ordinava la celebrazione di messe – insonnia combattuta poi, una volta trasferitosi a Parigi, con la terapia della bicicletta e di passeggiate salutari nei giardini del Luxembourg. La mancanza di sonno, per Cioran, è assenza di rinascita mattutina, mancanza di risveglio, e non permette quel minimo di ottimismo e di progettualità connessi a un inizio.

Per Kraus, in Cioran c’è anche sofferenza, sebbene del tutto volontaria, dell’intrappolamento in una lingua straniera e così freddamente grammaticale come il francese: una specie di “camicia di forza” in cui il temperamento mistico di Cioran deve piegarsi. Ci sono poi il rifiuto della mondanità, del successo, poiché Cioran teme ogni superficialità che ne possa derivare. Gli sembrerebbe uno svilimento. Arriva perfino a rifiutare premi letterari corredati di denaro. Rifugge anche da un eccesso di scrittura, che ritiene inutile. Eppure, Cioran, pur sapendo dell’inconsistenza della vita, non ne rimane fulminato, procede.

Nel corso di queste lettere, scritte nell’arco di un ventennio, viene gettata luce sulla vita di questo scrittore, in una prosa sempre elegante e controllata, che ci informa dei suoi progetti, delle sue letture e anche del declinare della salute e della forza vitale con l’avvicinarsi della vecchiaia, stagione aborrita per la perdita di libertà che ne deriva. E poi sullo sfondo Parigi, fatale Parigi, oppressiva, tutta un chiacchiericcio, mentre Cioran anela a una patria fredda di clima e di rapporti umani.

Le sue innumerevoli letture, un “vizio” di cui non può fare a meno, lo portano a crearsi un suo personale pantheon di figure che gli sono più affini, come Erwin Chargaff, stimatissimo scienziato e pensatore, e poi Jünger per cui nutre un’ammirazione vitalistica e con il quale condivide un aristocratico pessimismo, e ancora Joseph de Maistre, pensatore della controrivoluzione, Rudolf Otto, Meister Eckhart – “il più sublime” –, madame du Deffand, la grande scrittrice di epistole che fece della conversazione un’opera d’arte, cosciente e lucida in maniera esasperata e quindi troppo civilizzata e così, per forza, fragile e declinante. E soprattutto, il maestro della coscienza, il suo maggiore conoscitore, Dostoevskij, che vide in essa una malattia per l’uomo.

Anche il nichilismo offende Cioran quando non è abbastanza puro, come nei russi che avevano una finalità storica ben precisa e quindi una meta – perfino nel buddismo Madhyamika c’è il fine ultimo della liberazione, cioè ancora una meta. Pieno di un vero furore gnostico, se fosse stato credente Cioran sarebbe stato un cataro, con il suo rifiuto di avere figli poiché pensa che la famiglia non meriti di perpetuarsi. La sola pace possibile la trova nei piccoli lavoretti di falegnameria, quando si reca in vacanza a Dieppe, manifestando quasi una propensione alla mistica zen, oppure rivelando un insospettabile slancio estetico quando invita uno scrittore amico ad adottare una certa frivolezza formale. Cioran, che affronta tutto con una scrupolosa serietà, pare incapace di prendere atto che l’uomo sia ciò che è; lo desidera quasi simile a un dio e gli si scaglia contro perché così non è. Cioran è un mistero.

In ogni caso, o attraverso le letture, o nella sua vita reale, vediamo come egli sia capace di avere un rapporto autentico solo con persone che hanno smesso di essere entusiaste. Preferisce quelle messe a nudo, non rivestite dalla protervia di un’illusione.

Sono questi scritti uno squarcio su una vita e su un periodo di storia estremamente puntuali, che si leggono con piacere, ma con alcune singolarità che, in quell’apparente scorrere fluido della scrittura, emergono folgoranti. Aforismi, che quel semplice racconto riscattano, nella freddezza marmorea della parola che cela un’apertura di verità possibili. Gemme che ci folgorano.

Ma alla fine, unica parola che Cioran dice che gli rimanga è Umsonst, invano, che, come un cartiglio in un’iscrizione araldica, egli potrebbe porre a suggello della propria vita: per questo feroce nichilista, la grazia di un significato non esiste.

Print Friendly, PDF & Email

3 Commenti

  1. Bellissima rievocazione. Come espatriato (rumeno) Cioran è sostanzialmente, intimamente apolide a Parigi, ‘costretto’ al francese come l’apolide (rumeno) Luca, come l’apolide (rumeno) Celan il quale, paradossalmente, aveva trovato rifugio nel tedesco. I tre (grandi) erano ‘ospitati’ da una Parigi ospitale per la sua stessa centralità simbolica (liberté. egalité, fraternité) ma non dai parigini (Sartre & company) un poco ottusi e pieni, strapieni di se (Sartre, Lacan, Barthes, Sollers….)

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

La sostanza degli arti mancanti

di Elena Nieddu
Il Ponte crollò mentre stavano costruendo la mia casa. In quel tempo, quasi ogni giorno, l’architetto e io andavamo a scegliere cose nei capannoni della valle, parallelepipedi prefabbricati, piatti e larghi, cresciuti negli anni lungo il greto del torrente, abbracciati da strade che nessuno si sarebbe mai sognato di percorrere a piedi.

Esca

di Ilaria Grando
Papà ti spiega come uccidere la domenica pomeriggio. Hai 10 anni. Attraverso i tuoi occhiali da vista tondi, lo guardi preparare le esche chiuso in una giacca a vento rosa e verde. Nell’ago appuntito infila un verme vivo. Il verme sguscia tra le dita, si agita. Ti chiedi se senta dolore

Tiziano

di Federica Rigliani
Il padre di Martina e il mio collega Tiziano furono per me lame di una forbice. Il primo non c’è stato mai, ha sbagliato una volta e per sempre. Tiziano invece riempiva uno spazio fisico da cui fu allontanato troppo tardi. Lui ha sbagliato tante volte. Una dietro l’altra

Guerra e pace tra Tommaso Landolfi e la sua terra

di Tarcisio Tarquini
In questo scritto parlo di Tommaso Landolfi e di “scene di vita di provincia”: alludo al rapporto dello scrittore con la sua terra, alle ragioni di quella felicità di scrittura di cui egli confessa di riempirsi a Pico e non da altre parti. Mi riferisco, inoltre, alla diffidenza con cui la provincia guardò Landolfi, ricevendone in cambio un sentimento assai vicino al rancore

Il branco

di Marco Angelini
A casa ho fatto le cose per bene per mantenerla come l’hai lasciata. Dopo il lavoro ho trascorso il più del tempo in officina e mi sono preso cura di Tobi. Con il nostro giardino ho fatto il possibile. I gelsomini hanno resistito, le rose bianche invece sono morte e le ho sostituite

Fluminiano

di Matteo Ubezio
Cinta, sbanca, raspa, rileva, cataloga e dágli con lo zappino e la scopetta, per settimane e settimane si gruvierarono campi e boschi, finendo col portare alla luce le sobrie vestigia di un antico villaggio: esemplare, secondo la miglior vulgata latina, per virtù risparmiativa, cioè poverissimo. Un poco discosta dall’abitato era riemersa come Troia allo Schliemann l’antica Fluminiano
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: