Tra l’agave e le cengi

di Daniele Barresi

avvedersi

del bagliore di lucciole stinto

seduti cavalcioni sui bordi

di cengi calcaree

e isolare puntuti apici

d’agave infestanti dintorno.

*

Quest’odore che senti,

quello che tu chiamavi primavera,

altro non è che i fumi

d’asfalto che salgono per il caldo

su insieme ai pollini novizi,

non visibili. Si posano sulle latebre

sfuggono alle trappole delle mani,

vuote esultanze dei pupi al parco.

Non afferrano le ore del riso,

altro tempo non appartiene loro:

muoiono solo di mostrare

le cose nascoste

nelle tasche delle tute.

*

non sai quando le foglie

appese al siliquastro

faranno capolino

nei parchi e nelle strade;

lo domandi, Delia, in ascolto

e sai che foglieranno

vanto di chi ostenta

la piena maturità. Ma tenti

ancora d’inseguire il corpo

e l’ansito ristretto – avvicendarlo

in forme – che sembra la strada

ti sembra la vita, tutta

questo allontanarsi sempre

il valore delle pose?

*

bruceranno i campi

stesi a secca gramigna

d’aridità arata a niente; fiamme

controllate, ma il fumo

sarà nero. Resteranno

soli i ponti crollati

e i lunghi biscioni d’asfalto,

schermi muti al sole

si distenderanno sinuosi

in attesa di nuove

stagioni da attraversare.

Il loro è un sibilo che richiama

automobili, carri bestiame,

frecce; e il canto d’ansie taciuto

si udirà tra i fischi, auscultando

foglie puntute di pale

nei timpani impazziti.

*

La montagna non si atteggia

solitaria, ma isolana

scheletri di case la circondano,

armature di calcestruzzi

(gli appalti, sobillava papà, gli altri

morti nei pilastri

vivi in Viale Lazio) aggrappate

ai pendii ostinate: la betoniera

in disuso, i cumuli di polvere, gli spazi

grigi e svuotati, soggiorni

irrealizzati; respira

appena un nido di tortore, si rincorrono,

sembra che s’amino. Ma l’afa

porta con sé il lamento,

il cicaleccio, un ri(n)corrersi di locuste.

*

Vattene amica, via così,

immersa in queste toppe

di stampe e di zanzare. Il mare

è sostenibile da lontano

soltanto. Oltre gli aghi dei pini montani

bagnanti asciugano bimbi sulla sabbia

rossa del tramonto; la scrollano via

dai corpicini ignudi, ma è solo pianto

e fastidio di rimando. Piccoli

punti carmini lì sotto: non conoscete

brividi a guardare due tortore quassù.

*

appare stanco in volto

Marco, e la novità

non è nella domanda,

nel perché la noia oggi,

ma nella foggia perseguita (inseguita)

l’ostinarsi nelle forme

in cui un saluto è dato,

che a te è disumano

l’occhio della mosca e il guardare

suo a dismisura ovunque.

*

ti dicevano

di non prendere per vere

del giorno certe ore,

di imparare a contarle

come perle dentro ai vini

nelle bettole a Bologna.

La verità, Giorgia, quando t’imbrani,

è in questo non sentirsi mai continui

non essere costanti mai

nelle proprie geografie,

ma corromperle sempre

dei propri lucidi

ricordi futuri.

*

Trovare gli scontrini stinti dagli anni ,

forse mesi, nei fumi del tabacchi

sotto casa e gettarli:

sembra possibile disperdere

il ricordo di una cena,

di un’ora, una colazione

all’ombra dei pini. Confonderla di rifiuti,

– non tue quelle cose – perché nulla

ti appartiene e le mie dita

non vogliono frugarvi: hanno da puzzare.

Se la memoria è questo districarsi

tra piccole carte ignifughe,

si può ritemprare appena

appena tutta la vita.

*

mi raccontavi tra gli spari

el topo de nariz estrella,

di quella sua qualità estrema:

esperire la terra con unghia robuste,

abili nel nuoto

nei cunicoli ciechi – non importa, spara

e andiamo, sa scavarne anche

di nuovi, alla buona.

Sai annusare sott’acqua? Soltanto

chi ci riesce muore veramente

alle scelte: noi temporeggiamo,

e il nostro sguardo s’infutura

troppo, forse, gode negli inverni,

nelle anse pur sempre di passaggio.

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