una rete di storie I MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI


una rete di storie
STORIE DI EMIGRAZIONE I minori stranieri non accompagnati
Domenica 29 ottobre alle ore 15.00 Sala Ipogea
Mediateca Montanari di Fano [PU]
“Invisibili. Non è un viaggio, è una fuga” 1
Documentario UNICEF 35 minuti

Accompagnare i minori
di Andrea Inglese
Il migrante è senza dubbio una delle grandi e terrificanti figure del nostro tempo, lo è a tal punto grande (e terrificante) da evocare una quantità di immagini estremamente forti, perturbanti e spesso contraddittorie: il migrante è colui che annega, che non può essere salvato, che nessuno vuole sia salvato, ma il migrante è anche quello che viene salvato, agguantato per un soffio, strappato alla morte quasi esausto. Il migrante è quello che scappa, è quello sempre in fuga, è quello che passa le frontiere invisibile, nascosto nelle pieghe del camion, ma è anche quello che arriva, che prende posto, che si accampa, che dorme per terra e che, noi passanti, dobbiamo scavalcare. Il migrante è quello che non sa cosa fare, che non sa cosa vendere, che vaga senza un ruolo, una meta, ma è quello che raccoglie i pomodori, è quello che fa ogni tipo di lavoro clandestino, è quello che rischia di morire di lavoro. Il migrante è un rifugiato, è un richiedente asilo, viene da un paese raso al suolo dalla guerra civile, rischia la morte per sfuggire alla morte, ma il migrante è un immigrato, qualcuno che vuole uscire dalla povertà, qualcuno che rischia la fame per sfuggire alla fame. Il migrante è un minorenne solitario, senza famiglia, senza alcun sostegno, ma deve provare alle istituzioni che è un minorenne, e gli si guardano i denti, gli si misurano le ossa. Il migrante popola tutti i fantasmi razzisti e fascisti, popola i sogni di pietà, popola la nostra impotenza e la nostra rabbia, le nostre paure. Il migrante alberga sovrano al centro della nostra cresciuta, allenata, indifferenza. Il migrante è il nonno che ci sta alle spalle, è l’esclusione che temiamo per nostro figlio. Il migrante è quello che noi fortunatamente non siamo. Noi siamo espatriati, semmai.
In uno dei migliori dizionari della lingua italiana, il Palazzi e Folena, il sostantivo “migrante” non esiste neppure. C’è un aggettivo, derivato dal participio presente di migrare, che è un termine medico: “ascesso, rene migrante, che si sposta dalla sua sede primitiva”, ma vi è attestato anche un uso meno tecnico: “uccello migrante, uccello migratore”. In effetti, “migrante” è un sostantivo della nostra epoca, una fatale invenzione linguistica, ed è un vocabolo carico di talmente tante immagini e significati che è necessario, ad un certo punto, dargli un ancoraggio più circoscritto, riferendolo a una realtà con la quale possiamo entrare in contatto in modo più personale e intimo.
 
Abbiamo scritto su Nazione Indiana dei migranti (per esempio qui), di quelli che scappano da una guerra, di quelli che muoiono senza arrivare da nessuna parte, di quelli che soggiornano in un limbo dentro i nostri confini nazionali, dentro le nostre città, e non si riesce a capire, a decidere, se siano sommersi o salvati. Per la festa indiana organizzata a Fano volevamo parlarne ancora. E io ho suggerito agli amici e alle amiche indiane di parlare dei minori non accompagnati, e di comprendere come oggi, in Italia ma anche in Francia, sia possibile incontrarli, conoscerli, e decidere di fare delle cose con loro, di seguirli da vicino per un tratto della loro vita, di fare a loro un po’ di posto nella nostra vita.
 
Marielle Macé, una studiosa francese di letteratura, ha appena pubblicato un volumetto intitolato Sidérer, considérer. Migrants en France 2007 (“Sbalordire, considerare”). La sua analisi è particolarmente interessante perché non muove da sbandieramenti di principi – quello che uno Stato di diritto dovrebbe fare, quello che una società democratica e giusta dovrebbe fare nei confronti dei migranti – ma da due attitudini più concrete, due posture affettive e intellettuali. Nella prima, tutto ciò che vediamo alla tele, che leggiamo sui giornali, che ci capita di vedere per strada, ci lascia “pietrificati, chiusi in un’emozione che non è facile trasformare in azione”. Nella seconda, caratterizzata dal verbo “considerare”, siamo invece spinti “ad andare a vedere, a tener conto dei viventi, delle loro vite effettive”. Nello sbalordimento, restiamo impotenti a distanza, e ci riempiamo di immagini. Nella considerazione, ci avviciniamo, comprendiamo, entriamo nella concretezza delle altrui vite. Sembra forse un ragionamento ancora astratto. A me pare essenziale, però, partire da questa impotenza, che è conseguenza di una domanda schiacciante: “che fare?” Che fare di fronte agli annegamenti, al traffico delle vite umane, alla miseria dei molti, ai respingimenti, alla criminalizzazione delle ONG, al razzismo di paese, al razzismo parlamentare? Io sono partito dal mio sentimento di vergogna (ne ho parlato qui). Sono partito dalla vergogna, in quanto questo sentimento impregnava la mia prima persona plurale – il noi dell’appartenenza occidentale, europea e nazionale – ma anche la mia prima persona singolare, l’Andrea Inglese che aveva scritto su Calais, ad esempio, senza mai essere andato fare qualcosa a Calais, e che guardava, come tanti, la sofferenza “a distanza”.
 
In realtà, già allora sentivo non si trattava di porsi di fronte alla domanda massimalista: “che fare?”, dal momento che il problema vero era: “da dove cominciare?”, perché le possibilità d’azione sono in realtà molteplici, innumerevoli, e si tratta d’individuare soprattutto quelle che ci corrispondono di più, quelle per cui siamo in grado di garantire una fedeltà sulla lunga durata, al di là della reazione emotiva momentanea.
 
In questo mi ha aiutato in modo decisivo Olivier Favier, una persona che ha scritto molto sui migranti in Francia, che continua a scriverne, e che nello stesso tempo vive coi migranti, soprattutto i più giovani, i minori, accogliendoli direttamente, coinvolgendoli in attività teatrali, mettendoli in relazione con famiglie e individui residenti in Francia. Un giorno Olivier ha messo un post su Facebook, in cui parlava di un centro in un villaggio a me sconosciuto, a due ore di distanza da Parigi, dove un’associazione per conto delle autorità provinciali accoglieva dei migranti minorenni. Olivier invitava delle persone residenti a Parigi a proporsi come “padrini” per questi ragazzi, in modo tale da costituire per loro un punto di riferimento all’interno della società francese, un punto di riferimento che non fosse puramente istituzionale. L’impegno non pareva spaventoso. Non implicava un diretto sostegno economico, e poteva limitarsi a un’ospitalità limitata nel tempo, con incontri di scadenza mensile. L’idea di entrare in diretto contatto con una persona, una concreta persona e per di più molto giovane, strappandola alla massa indifferenziata dei migranti, mi corrispondeva. Sentivo che a quel livello potevo fare qualcosa, e sentivo che m’interessava fare qualcosa, che era importante per me entrare in quel nuovo rapporto. (È importante precisare che mia moglie e io, accettando questo ruolo nei confronti di Samed – ruolo per altro poco definito in termini giuridici, almeno in Francia attualmente – cercavamo di soddisfare anche un nostro desiderio. Il posto che facevamo a Samed, all’interno del nostro nucleo familiare a tre, inclusa nostra figlia di sette anni, era in realtà un vuoto che noi percepivamo, e che avremmo comunque cercato di riempire. Da questo punto di vista, non potremmo essere più lontani dall’idea dell’aiuto come gesto unilaterale, magari tinto di qualche elemento sacrificale. Se c’è generosità nell’avvicinarsi a un minore, nel fargli spazio all’interno della propria vita, è innanzitutto una generosità nei confronti della propria vita, è perché si vuole una vita più grande, più ricca e, devo aggiungere, più complicata.)
 
In questo modo, dopo vari mesi di attesa, ho conosciuto Samed, un diciassettenne ghanese (oggi maggiorenne), anglofono, con una pesante storia alle spalle (il viaggio dal Ghana alla Libia, il soggiorno libico di alcuni mesi, i tentativi di traversata, l’approdo in Italia, la fuga in avanti, l’attraversamento della frontiera a Ventimiglia, il vagabondaggio in Francia alla ricerca della capitale, e alle fine l’incontro fortuito con l’educatrice di un’associazione che lo ha tolto dalla strada). Si dirà che tutti i migranti hanno una pesante storia alle spalle. Sì, appunto, ma quella di Samed è una, è la sua, inconfondibile rispetto a tutte le altre.
 
Incontrando Samed, però, ho incontrato tutto un mondo di persone in gamba, sorprendenti, che a vario livello, in vari modi e secondo stili di pensiero magari differenti, sono mobilitati per entrare in contatto, conoscere, aiutare, fare qualcosa con questi ragazzi. E questo è un altro aspetto prezioso di tutta la vicenda. Ci sono un sacco di persone, spesso non più giovani, che hanno voglia d’incontrare e di vivere qualcosa d’importante con questi giovani. La forma esteriore che tutto ciò prende ha i caratteri della solidarietà, ma è qualcosa di più profondo che si gioca tra questi diversi gruppi di persone. Siamo all’interno di uno scambio simbolico, di affetti, uno scambio di universi generazionali, di speranze nei confronti del futuro. Ecco, forse si cerca soprattutto di scambiarsi un futuro. Giovani africani con europei non più giovani, entrambi alla ricerca di qualcosa che dia senso al futuro, al tempo che ci resta da vivere.
 
Non vorrei farla lunga, anche se molto potrei scrivere di cosa è cambiato in noi conoscendo e vivendo con Samed. (Quello che sembrava un impegno non spaventoso, ad esempio, è diventato un forte legame affettivo, che ovviamente ridefinisce in maniera imprevista aspettative e ruoli di tutti nella relazione.) M’interessa di più sottolineare una cosa. Mentre mia moglie ed io eravamo coinvolti in questo nuovo progetto con Samed, ho incontrato in Italia un paio di amiche che erano interessate a lanciarsi nella medesima avventura e che cercavano di capire in quale quadro istituzionale si poteva agire per i minori non accompagnati. Oggi mi pare che le cose comincino ad essere più chiare. Un ⇨ articolo su “Repubblica” del 10 ottobre prova a fare il punto sulla situazione dei cosiddetti “tutori volontari”.
 
A Fano, il 29 ottobre si parlerà di questo soprattutto, durante l’incontro intitolato Storie di emigrazione. Sarà presente Olivier Favier, dalla Francia, per portare appunto una testimonianza su cosa accade al di là delle nostre frontiere, sia in termini di politiche migratori sia in termini di mobilitazione cittadina. Interverrà in dialogo con lui Andrea Nobili, una figura istituzione, ossia il Garante per i diritti dei minori delle Marche. Ma l’incontro si avvarrà anche della testimonianza di Giuseppe Acconcia, giornalista esperto di Islam e Medio Oriente, che già è stato ospite di una festa indiana e ha pubblicato articoli sul nostro sito. Verrà trasmesso anche un documentario UNICEF, Invisibili non è un viaggio, è una fuga. Alla preparazione di questo incontro hanno lavorato, oltre a Orsola Puecher, Maria Luisa Venuta, Renata Morresi e il sottoscritto.
 
Il nostro obiettivo è quello di riuscire ad accompagnare magari qualcun altro di noi a fare un passo fuori dalla vergogna e dallo stordimento, per avvicinare queste vite di giovani e giovanissimi, e realizzare con loro un pezzo di strada.

 
Con Giuseppe Acconcia, Olivier Favier, Andrea Nobili, Maria Luisa Venuta
 
GIUSEPPE ACCONCIA (Salerno, 1981), giornalista e ricercatore, si occupa di Iran e Medio Oriente. Laureato in Economia, dal 2005 ha vissuto tra Iran, Egitto e Siria collaborando con testate italiane (Il Manifesto, Il Riformista, Radio 2, RaiNews), inglesi (The Independent) ed egiziane (Al Ahram). Ha lavorato come insegnate di italiano per migranti e all’Università americana del Cairo. Si è occupato di cooperazione euromediterranea e ha pubblicato racconti, poesie e romanzi brevi. Ha pubblicato La Primavera egiziana (2012), Egitto. Democrazia militare (2014) e Grande Iran (2016).

OLIVIER FAVIER Storico di formazione, è reporter, fotografo, traduttore ed interprete. Ha creato nel 2010 il sito www.dormirajamais.org e pubblicato nel 2016 il libro Chroniques d’exil et d’hospitalité (Le Passager clandestin), frutto di un lavoro di tre anni a contatto dei migranti, in Francia ed in Italia.

ANDREA NOBILI Garante per i diritti dei minori delle Marche ⇨ OMBUDSMAM Chi é

MARIA LUISA VENUTA Dottore di ricerca in Economia.
Dal 1997 svolge in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità integrata, economia circolare e come coordinatrice di progetti culturali e di carattere ambientale. Da giugno 2015 collabora a Fondazione Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia nel settore ricerca e progetti e come Project Manager del Progetto triennale di riapertura del museo del ferro San Bartolomeo di Brescia.

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NOTE
  1. “INVISIBILI “
    Non è un viaggio, è una fuga. Storie di ragazzi che arrivano soli in Italia

    Un progetto di inchiesta di: Floriana Bulfon e Cristina Mastrandrea
    Realizzato per UNICEF Italia
    Durata: 30 minuti
    Regia, riprese e montaggio: Toni Trupia e Mario Poeta
    Post-produzione audio: Gianni Del Popolo
    Assistenza tecnica e Realizzazione trailer: Tango Produzioni
    Realizzazione trailer istituzionale: Toni Trupia, Mario Poeta con Gianni Del Popolo
    Grafica: Ilaria Vescovo

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