Intelligenze nomadi
di Nicola Fanizza
Verso la fine del mese di luglio, sono tornato nel paese che mi ha visto nascere. Avevo appreso – attraverso facebook – che erano quasi terminati i lavori di ristrutturazione della piazza. E, pertanto, la mattina del giorno successivo al mio arrivo, sono andato subito a vedere la sua nuova veste. Ho avvertito subito la sensazione di trovarmi di fronte a una meraviglia accecante!
Se è vero che il bianco dei mattoni amplifica e dilata lo spazio, è altresì certo che il riverbero della luce del Sole costringe i presenti a chiudere gli occhi.
Nell’ora del meriggio ho avuto l’impressione che il tempo e la natura si fossero, addirittura, fermati in una stasi inquietante: gli effetti dell’astro hanno cessato all’improvviso di essere benefici e si sono fatti opprimenti e disseccanti. Da qui la mia fuga verso l’unica zona d’ombra della piazza, dove ho incontrato alcuni amici che non vedevo da diversi anni.
Nel ricordare quelli che non ci sono più, i miei interlocutori hanno chiamato in causa la discarica, che è ubicata nel perimetro di un paese vicino. Viene ritenuta, infatti, la causa principale della brutale devastazione del territorio e, insieme, delle numerose neoplasie che hanno colpito i residenti.
La devastazione dello spazio sociale l’ho percepita, invece, attraverso il tono di voce con cui essi mi hanno parlato. Il sentimento che ho potuto riconoscere nelle loro parole, nei loro tristi sorrisi e nei loro sguardi è stato di amarezza e di rabbia disperata.
A volte mi è capitato di cogliere nei loro discorsi ciò che da sempre accomuna gli abitanti del Sud: l’ostinazione a voler essere sempre se stessi, lamentandosi delle proprie mediocrità salvo poi godere inconsciamente di quest’attitudine a essere immobili, languendo nel vedersi affondare.
Pensavo pure che l’età avanzata rendesse gli individui liberi di esprimersi, di esistere, di comunicare. Invece ho visto vecchie persone rancorose ancora in preda al bisogno di marcare il proprio territorio, segnare il tempo e non riuscire a sorridere alla vita che prima o poi apre a tutti le sue finestre di libertà.
Nel gioco dei ricordi, i miei amici mi hanno riportato alla mente il motto pronunciato da mio fratello, in occasione della sua partenza per il Canada. Prima di salire sul treno – era la primavera del 1965 –, Giovanni si rivolse ai suoi amici, che erano andati alla stazione ferroviaria per salutarlo, con queste parole: «Addio paese dell’Oriente. Qui c’è troppa fantasia!».
La fantasia non è il male. La fantasia di per sé è positiva. Serve per rendere più dolce la vita, serve per sognare. Nondimeno, quando non è supportata da alcun sostrato materiale, quando è eccessiva, può assumere una curvatura negativa. Spesso ci dimentichiamo che Narciso non ama sé stesso, bensì la sua immagine. Infatti, dopo aver forgiato la propria immagine, si riconosce per davvero nel fantasma che ha prodotto, ossia in ciò che è frutto solo della sua immaginazione, in ciò che non esiste!
Non penso comunque che i giovani di oggi abbiano più o meno fantasia dei giovani degli anni Sessanta. Ciò che abita, sicuramente, nei loro pensieri sono i sentimenti, le paure, la solitudine e il senso di inadeguatezza dei giovani. Di ieri, di oggi, di sempre.
La mancanza di lavoro rappresenta di fatto la pietra di inciampo che impedisce loro di fare progetti o di coltivare eccessive illusioni. L’hanno capito persino quelli che si iscrivevano ai partiti di governo per trovare il «posto» ai propri figli. Manca il lavoro. E quei pochi temerari che tentano l’avventura, aprendo nuove attività commerciali, sperimentano, dolorosamente, il fallimento.
Le uniche attività in cui i datori di lavoro ti pagano alla fine della giornata sono solo quelle dell’agricoltura e della pesca. Nelle attività rimanenti, i salari sono di fame e i lavoratori non sanno mai quando saranno pagati.
Per quel che riguarda il caporalato, va detto che nel Mezzogiorno non è mai morto, anche perché le istituzioni non lo hanno mai combattuto. Si può dire che spesso i politici e i sindacalisti lo hanno addirittura incentivato, assumendo essi stessi il ruolo dei caporali.
D’altra parte, i giovani hanno capito che la scuola non è più un ascensore sociale, vivono in un mondo ostile, un mondo che non riconosce più i diritti, un mondo che li fa vivere in una perenne incertezza. Da qui la loro fuga verso altre nazioni europee, sanno che la loro strada non passa per il paese in cui sono nati.
Vivere nel luogo che ti ha visto nascere, vivere respirando sempre la stessa aria, non è una cosa positiva. Gli uomini non sono come gli alberi, non hanno radici. Sono nati per uscire, per vagare nel mondo. Il tempo del paese è il tempo della ripetizione, è un tempo sempre uguale e, insieme, il tempo dell’attesa, è un tempo sprecato, è il tempo della noia, è un tempo che ti rende infelice.
Il Sud, oggi, non può farcela da solo. Ogni anno perde i suoi figli migliori: il 50% dei giovani che si diploma va a studiare nelle università del Nord o in altri Paesi e pochissimi sono quelli che, dopo aver conseguito la laurea, tornano a vivere nei luoghi in cui sono nati. Da qui l’impossibilità di affidare lo sviluppo dello spazio sociale ed economico del paese solo ai rimanenti.
E’ risaputo che chi arriva da lontano il più delle volte ha un piglio e una disponibilità che, difficilmente, trovi in chi è catafratto da sempre nel suo paese. I rimanenti, invece, amano la ripetizione, sono nevrotici e, a volte, tendono a impigliarsi nelle reti della malinconia. Occorre aprire le porte del paese, occorre fargli prendere aria fresca, accogliendo gente nuova. Il paese non deve configurarsi come un luogo identico sempre a se stesso, bensì come un luogo di transito, non come luogo dell’essere, ma come un luogo del divenire.
Il paese deve aprirsi agli altri, rimanendo nel contempo contratto: infatti, mentre la contiguità spaziale ed emotiva consente la dilatazione dell’anima, l’ipertrofia urbanistica sortisce, invece, la sclerosi delle coscienze, ossia individui chiusi, monadi senza finestre, ripiegate sempre su se stesse.
Ma ciò che può davvero avviare un movimento di rinascenza del Mezzogiorno è, soprattutto, il ritorno a casa delle intelligenze nomadi. Penso a tutti quegli individui che, non riconoscendosi nel discorso canonizzato del paese, sono andati a vivere altrove.
Questi ultimi devono essere ascoltati, sono individui che dicono il vero (parresiates), sono come i pittori di cui parlava Machiavelli, i quali per rappresentare il paese si collocavano sulla collina alla giusta distanza. Mentre i rimanenti non riescono a cogliere ciò di cui paese soffre poiché sono troppo vicini, gli stranieri non riescono a mettere a fuoco il paese, in quanto sono troppo lontani. La distanza in cui si collocano le intelligenze nomadi è, viceversa, quella giusta. La loro è una prossimità distanziante. Sono vicini, poiché sono nati nel paese e, insieme, lontani, giacché hanno acquisto durante la loro erranza le lenti per mettere a fuoco i problemi reali del paese.
La rinascenza del Mezzogiorno sarà, comunque, possibile solo riattivando la grande tradizione di pensiero dei nostri meridionalisti.
Il degrado culturale nel Mezzogiorno, intanto, è diventato onnipervasivo. Gli intellettuali impegnati sono ormai una specie in via di estinzione in tutta la penisola Italiana e nel Sud in modo particolare. Gli eredi dei meridionalisti hanno gettato la spugna da un sacco di tempo e sono stati sostituiti da uno strato di operatori culturali variamente occupati nella produzione di un immaginario che – dicono loro – deve essere utile e spendibile. Ciò che viene riciclato, a fini di marketing territoriale, è un passato folclorizzato e devitalizzato: ossia come ti vendo il Salento ai milanesi!
Sono d’accordo. Come “espiantato” non riesco a – né mi interessa – tornare. Però, se qualcuno ritrovasse l’interesse a un rientro temporaneo, potrebbe essere un’opportunità vera per una crescita. Salvo che non si trasformi in un predicatore nel deserto – ch’è il rischio maggiore.