Enza Silvestrini – Controtempo

di Paola Nasti

In esergo alla nuova raccolta poetica di Enza Silvestrini (Controtempo, Oèdipus, 2018) un verso dal secondo libro dell’Eneide, tratto dall’incipit in cui l’eroe racconta alla regina del suo viaggio e della distruzione di Troia: sed si tantus amor casus cognoscere nostros/ et breviter Troiae supremum audire laborem/ quamquam animus meminisse horret luctuque refugit/ incipiam (….). A chi chiede il racconto doloroso, sebbene con un brivido di orrore si rifugga necessariamente dal lutto, Enea risponde risolutamente, virilmente: Incipiam – comincerò; nonostante tutta la pena del rievocare. Enea è l’eroe del nuovo inizio dopo la devastazione della patria. Il maschile che fonda le città, lasciandosi alle spalle affetti, luoghi cari, nostalgia. Anzi. Il dolore del viaggio e del ritorno – nostos/algia – è la sua cifra più significativa. Impossibile restare; impossibile partire; eppure: è necessità andare, fondare nuove città, lasciarsi alle spalle le rovine della città devastata. Allontanarsi dal luogo della devastazione. Se è la memoria questo luogo di macerie; se è il ricordo, l’identità a sbriciolarsi giorno dopo giorno; è possibile allontanarsi? è possibile restare? come può un figlio allontanarsi dalla rovina della patria – in questo caso: “matria – motherland” –  senza avvertire l’angoscia insopportabile della colpa? senza essere investito dal dolore per l’abbandono? Eppure si deve. Si deve lasciare la regina innamorata ai suoi strazi; le care strade dell’infanzia occupate dal nemico. Tradire la parte più profonda di se stessi. Questo richiede la vita. Tradire. Che è poi anche un “tradere”, tramandare memoria, raccontare di questa dolorosa necessità – incipiam. Il libro della Silvestrini affronta con energia maschile, col dinamismo dell’eroe che va, di Ermes più che di Estia, la malattia e la fine della madre. Estia ed Ermes. La conservazione, la permanenza, il focolare domestico; e l’andare, il veicolare messaggi e retaggi; Didone ed Enea; il femminile e il maschile. Entrambi sempre e necessariamente connessi, in ogni uomo, in ogni donna. A chi si ostina nelle rigide scansioni di genere, estendendole come criteri di valutazione alla produzione artistica e letteraria, questa raccolta poetica risponde con energia che in ciascuno coabitano entrambi gli dei – quella/o che resta vicino alla cenere; e quella/o che procede allontanandosi dal mondo in rovina.   Che è poi la fine del mondo dell’infanzia. Di quella patria che è la prima fase della vita. O della memoria invasa dal morbo.

La poesia di Enza Silvestrini ripercorre con ostinazione e tenacia a volte impietose lo svanimento dell’identità. La pietas, la devozione filiale, non possono medicare la violenza del distacco, la ferita che lacera il tessuto della memoria e dell’affetto. E allora non resta che raccontarne. Resistere raccontando, soprattutto poiché “…. il presente è /questo rogo ardente che dilania la città/ le urla così flebili/ appena un sussurro/ le foto o le statue degli antenati/ il peso accatastato sulle spalle/ delle quattro ossa di mio padre/ che gli anni e la miseria hanno reso svagato/ pallido come un’ombra/ e noi tutti lo siamo/ solo alcuni più di altri //  mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato / c’è bisogno di una radice da piantare in esilio (…)”. La responsabilità di sopravvivere ai morti e di portare a compimento l’opera. Mestiere impossibile e necessario. Lo sradicamento è così il tema portante di Controtempo. La lacerazione della memoria, dell’identità e degli affetti sono cifra di un altro sradicamento – quello del linguaggio. E la poesia, come sempre, ancora una volta, per fortuna, risponde a questa necessità – di restituire, reinventare il linguaggio quando esso è misconosciuto dalla neolingua dell’informazione. Nell’assedio del nuovo esperanto in cui siamo quotidianamente immersi la lingua poetica cerca di rifondare il linguaggio nella comunicazione, restituendogli la sua funzione di medium, di relazione: com-unicare, ri-cor-dare. Forse ogni poesia, ogni tentativo poetico, va in questa direzione, forse anche a prescindere dalla sua efficacia artistica. Rifondare la casa invasa dagli stranieri, da presenze estranee che la spossessano, le tolgono l’anima: “verrà un giorno/ dove la storia tra noi/ sarà azzerata/ non ci saranno stanze sconosciute/ o alberi amici/ non varranno testimonianze/ foto o scritti/ mi darai nome ancora una volta/ ma sarà di qualcuno marginale / e allora così slegati estranei/ ci ameremo di più/ tutti lo dicono/ verrà questo giorno”. La poesia comincia sempre nel luogo dell’azzeramento, nella minaccia della sparizione. E, significativamente, altro polo di questa raccolta è il tema della rovina, del resto, del reperto archeologico e il suo intreccio con la natura che l’avviluppa, lo abbraccia, lo conserva e lo nasconde e gli ricorda il suo futuro di dissoluzione e scomparsa: “tra queste rovine/ da diversi secoli sono tutti morti/ spetta a noi riportare qualche segno di vita/ così ci muoviamo lenti per toccare qualcosa/ che sappia di erba/ l’odore selvaggio della rucola/ abita qui da tempo/ penetra le narici… si incrociano reperti e mosaici/sbiaditi dalle intemperie/ non facciamo che ricostruire/ accavalliamo ipotesi felici”. L’opera diuturna del discorso che stabilisce trame e tessiture, come le erbacce tra i reperti archeologici, ostinatamente. E la resistenza consiste in questo parlare alle macerie, a quello che resta del passato: “parlo con le pietre/ in questo grande campo/ sostengono di essere state vive/…saremo anche noi rocce disfatte/ pulviscolo piuttosto/ aperture di pensiero improvvise/ e mi addolora la mia sorte/ quella che sopporto/da migliaia di anni/come tutti in fondo (…)” . La vicenda accomuna pietre e carne, fiori coltivati in vaso ed erbe spontanee:  “portami via al riparo dal vento/ dove il bosco è sontuoso di alberi fitti della/ statua acefala è rimasto un bel corpo di / muscoli e vene levigati dal marmo (…)”.  E alla fine la dissoluzione può persino risultare un’evaporazione lenta e degna di uno sguardo emozionato e curioso. Nell’ultima sezione della raccolta la dimensione del lutto e del tragico sembrano allargarsi in una meditazione quasi pacificata sulla soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Resta alla poesia rendere con la parola non solo la virtus che nasce dalla dura necessità; ma anche questo svaporare, questo dissolversi come atomi che lasciano il legame e questa ebbrezza di una nuova libertà: “ti immagino così svaporato,/ a resistere tenacemente nell’aria/ ancorato a qualcosa di solido/ per sottrarti a questa incontenibile flessibilità/ che ti sospinge da tutte le parti// chissà cosa si prova/ in questo fermento di libertà/ se c’è un principio/ di bellezza o di gioia/ in questo non essere (…)”.

 

* * *

 

 

quamquam animus meminisse horret (Eneide, libro II)

poco a poco
il mondo scompare
inghiottito dal buio nulla

prima vengono i ricordi
soffocati da fumo acre
stordimento delle voci e degli ultimi respiri

la memoria si rifugia
in luoghi sempre più antichi
ritorno bambino tra le braccia
della madre assente
giovinetto nei lunghi allenamenti
o custode del telaio bianco
torno liquido
ancora disperso
esitante sulla strada da fare

anche i nomi
tutti i nomi
quelli delle cose
dell’amore dell’ira o di ciò che ne resta
vanno via in qualche botola lontana
che non riapro mai
ogni gesto è nuovo
smottamento veloce di residui vaganti
i movimenti dimenticati
nel loro stesso compiersi

e quando per tre volte
il vuoto impetuoso mi respinge
uccidendo anche l’illusione di te
la salvezza sarebbe non avere alcuna salvezza

non voglio più vedere il presente
e il presente è
questo rogo ardente che dilania la città
le urla così flebili
appena un sussurro
le foto o le statue degli antenati
il peso accatastato sulle spalle
delle quattro ossa di mio padre
che gli anni e la miseria hanno reso svagato
pallido come un’ombra
e noi tutti lo siamo
solo alcuni più di altri

mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato
c’è bisogno di una radice da piantare in esilio

la pretesa di esser vivi in questo universo di morti
incalza lentamente
imbarcarsi di nuovo e partire
trovare terre da coltivare
altri uomini da uccidere
e lasciare traccia di sé

poi il mare vibra incolto

****

l’anima se ne va confusa
in questo limbo di sopravvissuti
echi di questo o quell’altro mondo
tuonano all’orecchio sbigottito
emergono frammenti di facce
storie mobili e scomposte
assapori la libertà insensata e divina
di posizionarli a modo tuo
le vie si fanno irregolari
nessuno può raggiungerti

mi batto in difesa dell’esattezza
provo a condurti sulla verità dei fatti
adduco prove minuziosi dettagli
riposiziono date e connessioni logiche

tu sembri convinta
tra le distrazioni del bucato e della pioggia
e per qualche istante
il mondo ridiventa uno
ma poi crudelmente ricominci la storia
di questo o quello
incurante di tempi e luoghi
fatti e circostanze
non c’è più modo di ritrovarsi di nuovo

****

la gloria delle ossa
si alza e si inabissa
intorno al soffio
segno che sei viva
nell’immensa immobilità
del corpo bianco
ritrovi improvvisi vuoti
sotto gli zigomi
nello splendore del pomeriggio

avanziamo verso la sera
in questa calma imperfetta
di sonno e veglia
la scatola del caffè è sempre la stessa
da almeno dieci anni

****

dalla cucina alla stanza contiamo venti passi
riducibili a quindici con un po’ di sforzo
le finestre qui
sono tutte sullo stesso lato
da est a mezzogiorno
per filtrare sole e pioggia
ti mostro gli spifferi nel cuore della notte
che confonde le pareti e i mobili di legno
pieni di cassetti e lenzuola bianche
tu conservi anche quelle strappate?
dobbiamo attrezzarci per l’insistenza invernale
che in questa casa
cresciuta senza ragione in diagonale
ammala di più le ossa

di qui non s’esce
che per qualche visita medica o di rara cortesia
facciamo una mappa dei percorsi possibili
procedendo dalle necessità quotidiane
il cane ha deciso di occupare il cortile
senza pensare alle conseguenze della sua assenza
mi presto a fare tua sorella Lola
vecchia o a vent’anni
è indifferente

***
le migrazioni convergono
nel centro del mondo
portando le spoglie di ogni passato
di geografie lontane e diverse
accese d’ira e inutili amori

l’esile potenza di ciò che è stato
reclama i suoi diritti di eternità
ma al presente
non c’è niente di preciso
che possa sostenerlo
impatta in un terreno molle
che può inghiottirlo ad ogni istante
e certamente lo farà
appena si chiuderanno gli occhi

****

portami via al riparo dal vento
dove il bosco è sontuoso di alberi fitti
della statua acefala è rimasto un bel corpo
di muscoli e vene levigati dal marmo

una torma di ombre
va spargendo i suoi lai
e in questo punto del prato
dove l’erba è più rada
si ammassano formiche speranzose
a caccia di briciole o cadaveri ambigui

mi accorgo d’improvviso
che qui troverei milioni di tane
ma di questo pensiero
la libertà mi spaventa
come i sentieri troppo isolati

quando mi stendo
il prato diventa una tomba
di fili d’erba rissosi e piccole vite

****

il fatto che sia già primavera
è una deduzione di piume
tentativi di teneri voli
cadono in tanti
dalla sommità dei nidi
e forse la specie
non conosce il dolore

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3 Commenti

  1. Interessanti versi e commento: da rileggere e approfondire. Il tema di fondo: necessità di superare il dolore della devastazione della memoria di sé e delle proprie cose per rifondare una vita nuova; dimenticare la devastazione è necessario per superarne dolore e nostalgia per continuare, rifondarsi, rifondare…

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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