Orchestrina della carne

 

 

                                                                            una nota di Pasquale Pietro Del Giudice

a Il lume della follia di Prisco De Vivo

 

il lampo azzurro (particolare dell’opera)

 

Il tema del male, declinato nelle variabili della malattia, della mortalità e della follia, alimenta i testi, i ritratti e i corpi di questo libro multiforme, strutturato in un dialogo tra le arti, in cui la pittura, il disegno e la parola si passano e travasano religiosamente la buia sostanza della poesia. Linguaggi che rappresentano gli strumenti di una stessa orchestrina espressionista minimale, fragile e parca, a mimare la dimensione della povertà e della necessità, un pasto frugale che ricorda, se vogliamo, il teatro di Beckett. Questa dimensione dialogica arricchisce vicendevolmente le arti messe in gioco e la portata comunicativa di una poetica contrassegnata dalla senescenza e dal tragico. La follia, come alterazione dal consueto e dallo schema obnubilante della salute del progresso, in questa antropologia rappresenta classicamente l’elezione e la condanna, il processo degenerativo che porta insieme la ribellione del corpo e la sua identità, determinata come storia e distorsione di una fisiologia deragliata dai binari della legge dello scheletro e della sintassi.

Restando in questa prospettiva, la struttura del mondo rappresenta una gabbia insensata di stringenti poteri, ai quali, kafkianamente, come in un film di Cronenberg, si oppone la cieca dedizione alla propria tela di ragno, tessuta in un buco o in una cantina sfuggita all’occhio di Dio, all’ombra del proprio lavorio, sottratto alle grinfie della specie. Il poeta, attraversando questa condizione, nel caso di De Vivo, sottrae, mangia al tessuto consueto linguistico delle funzioni, trattando il testo stesso come un corpo mangiucchiato dal morbo del tempo, imprimendo alla lingua il negativo delle propria identità; così il poeta diventa tarlo di se stesso, si sabota volontariamente, dall’interno, si innamora e stringe un patto col verme che lo logora e lo alimenta, tenendosi reciprocamente in vita. Il lume della follia si contrappone dunque al lume della ragione o meglio ci mostra un’illuminazione ulteriore, perduta dal logos razionalistico, amplificando e legittimando una proliferazione periferica di pulsioni creative irrazionali, autodistruttive e sacrali. Le figure rappresentate portano dunque scritto in volto i segni di un destino soccombente, il marchio della differenza, dell’affermazione del proprio linguaggio poetico, di cui coltivano le stimmate come una ricompensa. Gli incontri del poeta si inscrivono spesso in una dimensione onirica e simbolica del quotidiano e in queste ambientazioni si ripresenta il tema di un offeso candore che la vita porta con sé, nel suo necessario compromettersi, di un’inevitabile macchia che nessuno esclude, richiamando anche in questo una connotazione religiosa e un’antropologia cristiana.

Questa poesia, tuttavia, anche sfiorando le pratiche medievali del masochismo mistico, la dimensione tragica e il solitario culto della morte, non si esaurisce nella sterilità, rappresentando innanzitutto una forma di dialogo, apertura che oltrepassa i secoli e insieme si rivolge alla prossimità delle figure amate. Nel dialogo con i morti riconosciamo una richiesta d’amicizia verticale, all’ombra degli eventi. L’autore, rivolto al passato, lancia l’amo di questo pugno di versi nel mare rimosso della storia, alla ricerca di fratellanze, parentele nella dissonanza dal mondo, nello sradicamento e nell’estraneità, conservando, come possibilità relazionale, la pietà e il riconoscimento della propria caducità. La voce del poeta si rivolge a un cimitero di ombre, di figure artistiche di cui si ricerca la voce e l’appartenenza. Le numerose dediche, ora a F. Nietzsche, ora a Vincent Van Gogh ecc.. e a tutto un universo riconducibile a una poetica del negativo, da Kafka a Ceronetti, rappresentano lo strumento privilegiato di questa richiesta. In quest’ottica ogni poesia potrebbe essere paragonata a una missiva imbucata in un’ipotetica casella postale dell’aldilà, i cui destinatari sono ideali compagni di viaggio, coloro che secondo l’autore “hanno amato Dio nell’incoscienza e nel delirio”, quelli che “hanno abbandonato la vita per ritrovare se stessi”. Ma oltre al respiro nascosto della storia, a una verticalità e una corrispondenza misurata nel tempo dei secoli, è altrettanto vivo il sentimento della vicinanza, della prossimità delle figure care, familiari e non, verso le quali si instaura un legame di partecipazione al dolore, da cui scaturisce la compassione per il ritratto precario della persona umana, nella restituzione della sua dignità; in una delle poesie più riuscite,  “L’abbraccio di tua sorella Gina”, da sottolineare è anche l’utilizzo del dialetto napoletano, che aggiunge un aspetto sepolcrale della lingua di De Filippo, l’odore della Napoli del cimitero delle Fontanelle. Non è un caso dunque se il volume presenta in esergo due dediche “In memoria di zio Gaetano e zia Olga” e “Ai cani sciolti, ai vagabondi pii e santi che muoiono folli” sintetizzando le polarità verso cui tende il libro, ovvero il riconoscimento nella distanza, nel destino vocazionale dell’artista e dei suoi fratelli e l’individuazione dello stesso sentimento nella vicinanza di alcune figure umane predilette.

La cifra estetica di questi versi brevi, netti, spezzati, riesce a tenere insieme passionalità e oscurità, l’incontro dei due elementi in una dolcezza lugubre, un’eleganza nella tenerezza degli occhi di un bambino senza patria, che ai margini, nel deperimento, tra i dimenticati dal progresso, riconosce il residuo autentico e terribile della vita nella sua nudità.  Sperimentando sulla propria pelle quella caduta dal tempo di cioraniana memoria, questo libro prova a rielaborare la lezione, tra i poeti contemporanei un po’ accantonata, di Giuseppe Ungaretti, mescolandosi ad echi di altri poeti dal vissuto tragico, come Paul Celan, Georg Trakl e Sergio Corazzini. Il recupero delle affermazioni lapidarie ed assolute, l’utilizzo del silenzio, dei vuoti spaziali come elementi plasmanti e la scarnificazione linguistica fanno pensare al poeta della prima guerra mondiale, degli altri poeti citati risentiamo l’eco nell’espressionismo tragico e il culto della morte da angelo nero, da fanciullo ammalato e crepuscolare. Tuttavia, nonostante le tinte oscure, questo libro cela una sua leggerezza, un inatteso spiraglio, come se anche il nero contenesse in sé una dimensione nascosta della grazia, un principio speranza attraverso il quale potersi  aprire alla dimensione sconosciuta dell’altro.

 

 

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1 commento

  1. Profonda analisi, curata nei dettagli, Del Giudice delinea ora il linguaggio ora gli echi dei grandi della cultura, facendo assaporare, in questa dimensione, il sapore dell’oltre dei poesia di De Vivo.

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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