Motel

di Monica Pezzella

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Binari, romanzo d’esordio di Monica Pezzella, TerraRossa Edizioni 2020)

La prima lettera dell’insegna nel vicolo si è spenta. Non si sente niente ma è come se il ronzio del neon in embolia riuscisse a trascinarsi fin lì nonostante la morte che se lo tira dietro. Fino all’angolo, sul balcone che gira e da cui si può spiare. Il dubbio è arrivato in quel momento, quando questa Voce ha sentito il rantolo. Era hotel o motel? Dopo averlo guardato per vent’anni, questa Voce adesso non lo sa. Il neon che diceva? Dev’essere motel, perché faceva venire in mente le puttane o qualcosa che ha a che fare con le puttane. Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non va a puttane ma in pratica potrebbe esserci andato, una due anche tre volte pure trenta e già a quattordici anni.

È un motel. Da vent’anni almeno. La luce viola dell’ingresso che si inabissa in gradini bordati di un azzurro opalescente verso divani e pouf di maschi e femmine coi cocktail per aria e i soldi di carta che slinguano da taschini e mutande. Giù in fondo qualcosa di più intimo, letti accartocciati rotti dai listelli delle persiane in controluce. E dunque, la m delle puttane è morta. Senza sovrastrutture e sipari e veli consci né fondamenta e paracadute e materassini inconsci, questa Voce ha pensato: Se ci fosse un posto in cui entrare e dire Ammazzatemi con dentro qualcuno che ti risponde Come le pare e che poi ti garantisce che al novanta percento il tutto si riduce a Dormirai… lo faccio. Lo ha pensato in pace. Razionalmente. Né più né meno che un va bene. Lo faccio mi va bene. Leva il dolore fisico, magari una fitta elettrica nel cuore la puoi prevedere, ma leva la paura folle del se dovesse durare tanto. Che può importare invece nella vita una mera questione di tempo in più tempo in meno?

La sigaretta – c’è molto di vivo nella cenere infuocata quando cade e si sgretola nel buio lungo la linea verticale del palazzo che diventa obliqua e spezzata nel punto in cui incrocia la luce del faretto sul cancello – non ha sapore.

Non ha sapore.

Ci si immagina di tutto. Tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si vive. Non ci sarà più. È stato questo a cambiare le coordinate dello spazio e del tempo e le categorie della mente. Ma se sei sette giorni fa al massimo F. ha domandato Voi cosa non fareste mai? e questa stessa Voce ha risposto… Ha risposto: Ammazzarmi. Quella brutta stufa finta che rovinava il tappeto egiziano e B. che spingeva le carte con un dito solo, bianco e tirato, e faceva frinire il vetro umido del tavolino e quando le carte si appiccicavano le bottiglie dei liquori sul ripiano sotto tintinnavano e i bicchieri vomitavano e S. era già ubriaca quando F. l’aveva domandato e infatti lei non aveva risposto. In parecchi altri avevano risposto oltre a questa Voce che diceva secca come un colpo di fioretto Ammazzarmi. Ma quanti stavano lì nel salone e quanti ancora in cucina? Erano passati oltre.

Non ci sarà più lui. La prospettiva di non essere più lui, da qui alla fine del tempo, ha mortificato il tempo. Ci si dimentica di tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si lascia passare. Lui rispondeva abbassando la testa e le palpebre vibranti e si inumidiva il labbro inferiore o quello superiore e mai possibile che questa Voce cominci già a dimenticare ed era un gesto così delicato che non ti veniva di pensare alla lingua e buttava fuori un po’ di fiato mentre si girava dall’altra parte e poi, ancora ancora, l’immagine sta salendo: teneva la sigaretta con le prime tre dita come teneva la penna, no, il portamine con la clip in acciaio che agganciava alla millimetrata, i rotoli di millimetrata con le planimetrie nel portaombrelli di legno dietro la scrivania e dietro il planisfero color sabbia che sembra caffè rovesciato e dietro ancora la finestra l’abusata finestra banalissima musa delle suggestioni e sopra la scrivania l’avvilente disordine di un uomo che in teoria è maniaco dell’assetto, della riga, del millimetro ma in pratica tutte le sue cose sono nel caos e fuori dalla finestra la città che in teoria è l’emblema dell’ordine, dell’assetto, dell’armonia ma in pratica è il comune caos umano che si dibatte in milioni di buchi pure se squadrati nei muri di mattoni in stile georgiano e davanti alla finestra al portaombrelli alla scrivania la porta e dietro la porta lui, il sesso si buttava nell’uscio e quand’era chiuso si insinuava nella serratura e non serviva chiudere a chiave se tanto sperava sempre che entrasse in qualche modo, bussasse piano forte o da ira di dio, insistesse, gridasse, ridesse, piangesse, seducesse, implorasse, impazzisse, in qualche modo a modo suo, e teneva le mani buttate nelle tasche quando si girava a fingere di non volerlo ché non lo stava mica aspettando e neppure l’aveva sentito e invece aveva sentito persino quel suo profumo che metteva quando si andava a vendere alle vecchie e per quanto negasse a sé stesso proprio quel profumo e proprio i vestiti che aveva di nuovo addosso dopo che di dosso chissà chi glieli aveva levati o strappati lo riducevano a uno squilibrato che dà di matto perde il controllo quella combattutissima e poi sempre totale e redentrice perdita di controllo quell’estremo peccato che lo purificava e gli toglieva i dolori dal corpo quel corpo di un uomo di una normalità perfetta e questa Voce sa di più sa molto molto di più vuole continuare a sapere com’è fatto e come reagisce e cosa vuole e cosa disprezza e cosa esige e cosa lo eccita e cosa lo spegne ma sente il male pungere e arretra e i particolari si annacquano, affondano. Affogano.

La m delle puttane è morta.

Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non andava a puttane ma in pratica desiderava quella puttana come un animale, un poco di più ma a volte persino meno di un animale. La prospettiva di non sentire quell’esatto tipo di desiderio da qui alla fine del tempo. Non esiste, per questo l’ha pensato. Non potrà più essere lui, questa Voce, anche se l’ha sempre solo immaginato, anche se ha vissuto tutta la vita nella mente e proprio perché ha veramente vissuto, è veramente stato, questo è morire. E c’è di peggio. C’è vederlo in altri in altro modo e non poterlo più sentire. E c’è di peggio ancora. C’è ricordarlo.

Dimenticherò anche la cosa più piccola anche quel fastidio di essere sfiorato quel piacere di scoparti quando non ti dovrei scopare la rabbia per non averlo fatto la rabbia per averlo fatto l’abbandono dimenticherò l’amore.

E allora l’aveva pensato. Razionalmente. Come si mettono i pesi sui piatti della bilancia e si vede pendere il braccio da una parte ed è quella sbagliata ma che ci puoi fare sta pendendo veramente di là. Contro ogni previsione, contro ogni aspettativa, contro ogni speranza, contro tutti i buoni propositi e la testardaggine di quando questa Voce aveva risposto Ammazzarmi. Io, mai.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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