Perché gli animali?
di Ermanno Castanò
Con l’inizio burrascoso del nuovo millennio il tema dell’animalità ha conquistato un ruolo crescente nella filosofia, probabilmente perché è cresciuta allo stesso tempo la presa dei dispositivi di governo sull’aspetto “biologico” della vita umana e non-umana: il contagio, l’alimentazione, la riproduzione, l’ambiente etc, sono diventati temi politici di primaria importanza che hanno sostituito temi come la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, l’indipendenza che avevano segnato il secolo passato.
Un altro elemento che ha caratterizzato l’animal turn è stata la crescente importanza del rapporto fra l’uomo, gli altri animali e l’ambiente. A tal proposito, vale la pena ricordare che sin dagli anni ’70 Peter Singer e Tom Regan avevano avanzato la richiesta di una maggiore considerazione morale per gli animali aprendo un dibattito durato fino a oggi. All’inizio degli anni 2000 in questa scena irrompono due testi che ne hanno modificato profondamente termini e concetti: L’Aperto. L’uomo e l’animale di Giorgio Agamben e L’animale che dunque sono di Jacques Derrida.
Questi testi hanno contribuito a orientare una parte del dibattito degli Animal Studies verso il rapporto uomo-animale, introducendo la nozione di Human-Animal Studies. In questa seconda svolta che ha caratterizzato la filosofia mondiale ha avuto un ruolo cruciale, dunque, la filosofia italiana (che così colmerebbe un presunto gap con quella anglofona), dal momento che in essa Giorgio Agamben ha giocato una parte di rilievo.
È stato da poco pubblicato in inglese un libro intitolato Animality in Contemporary Italian Philosophy che ricostruisce proprio il peculiare modo in cui la filosofia italiana ha affrontato la riflessione sull’animale, sia attraverso nomi noti dell’Italian Theory come lo stesso Agamben, o Roberto Esposito e Toni Negri, sia attraverso nomi meno noti che qui vengono presentati per la prima volta al pubblico anglofono. L’intento del libro è, infatti, quello di contribuire al dibattito internazionale sull’animalità attraverso la specificità della filosofia italiana mostrandone tanto i punti più alti, che la marginalità di cui a volte ha sofferto, ma che ha finito in qualche modo per preservarla. Gli stessi curatori del volume, Carlo Salzani e Felice Cimatti, sono due filosofi italiani che hanno ottenuto una certa attenzione in Italia e all’estero grazie ai loro studi di provata serietà e che hanno arricchito il volume con un’introduzione e due loro saggi. Il libro, infatti, è un’opera collettiva che vede l’intervento di molti dei più importanti pensatori italiani contemporanei della questione animale, interventi che però risultano armonizzati da una sensibilità comune, ben esposta nell’introduzione dei due curatori, e nel primo saggio firmato da Cimatti.
L’idea che ha fatto da guida al volume è che la filosofia italiana (tralasciando per un attimo la complessità di quest’espressione), forte di una tradizione che affonda le radici nel pensiero medioevale e rinascimentale, a loro volta radicati nell’antichità, abbia conservato fin nell’epoca moderna una sorta di alternativa al cartesianesimo che oggi, al tramonto del suo paradigma meccanicistico, può tornare a parlare al presente con rinnovato vigore. La filosofia italiana, insomma, non è mai stata cartesiana. Quando, infatti, Cartesio propose un pensiero basato sulla divisione ontologica fra res cogitans e res extensa (pensiero e materia estesa) trovò terreno fertile nella filosofia tedesca e in quella francese, che aprirono la strada al pensiero moderno, ma negli stessi anni Giambattista Vico, che criticò decisamente questo dualismo, passava quasi del tutto inosservato e inaugurava un’epoca in cui l’Italia, e la filosofia che a vario titolo vi trovava luogo, diveniva la periferia d’Europa.
È proprio Cimatti a esporre come questa tradizione anticartesiana avesse i suoi capisaldi in pensatori come Dante Alighieri e Nicolò Machiavelli, e raggiunse la sua massima tensione con Giordano Bruno che affermava, prima di Spinoza, l’identità fra Dio e Natura, ma che rappresenta una strada violentemente interrotta del pensiero occidentale. Ciononostante questa possibilità negata e rimasta per secoli ai margini, riaffiora di colpo nell’opera di autori come Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini, il cui immanentismo quasi dionisiaco esclude qualunque separazione netta e incolmabile fra pensiero e materia, o fra uomo e natura. Una prospettiva che, abbiamo detto, può indicare vie nuove a una civiltà, la nostra, profondamente in crisi da questo punto di vista.
Dopo lo scritto di Cimatti il libro si snoda attraverso tre sezioni. La prima si apre coi saggi di Luisella Battaglia sul pensiero di Aldo Capitini, il “Ghandi italiano”, che affermava una filosofia della non-violenza nei rapporti fra uomini e animali attraverso una visione della considerazione morale allargata a tutti gli esseri senzienti, e col saggio di Giorgio Losi e Niccolò Bertuzzi che offrono una panoramica completa delle maggiori tendenze antispeciste in Italia.
A illustrare il pensiero di Agamben, di cui abbiamo parlato in apertura, è proprio Carlo Salzani, l’altro curatore del libro. Secondo il filosofo, l’animalità si staglia proprio nel cuore della riflessione agambeniana poiché la sovranità altro non è, in fondo, che la macchina antropologica la quale separa uomo e animale, ponendo il dominio del primo sul secondo. Solo un pensiero capace di andare al di là di tale opposizione può disattivare questa macchina dagli effetti mortiferi tanto sull’uomo che sull’animale, e muovere verso l’idea di una vita come potenza destituente.
Matías Saidel e Diego Rossello, invece, espongono il pensiero di Roberto Esposito il quale, pur non essendo implicato direttamente nell’antispecismo o in una riflessione sull’animalità, si è comunque impegnato in una decostruzione dei dispositivi politici per evidenziarne il dannoso tentativo di immunizzare l’umano da qualunque contaminazione con l’alterità, in particolare animale. Una tematica affine, legata questa volta al tema del postumano, viene trattata nello scritto successivo da Giovanni Leghissa.
Dal canto suo Marco Maurizi lavora sulle orme della teoria critica francofortese elaborando le implicazioni della dialettica umano/non-umano e ragione/natura e in questo saggio ripercorre la storia del marxismo italiano mostrando come da Labriola al post-operaismo questo nodo problematico sia costantemente presente nei diversi protagonisti di quella stagione, arrivando a delinearne brevemente prospettive e problemi irrisolti. Applicando lo schema marxista all’antispecismo, Maurizi sostiene che non “sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo”.
Il libro prosegue con l’intervento di Federica Giardini che mette in relazione il pensiero dell’animalità con quello della differenza sessuale elaborato dal femminismo di pensatrici come Adriana Cavarero o Carla Lonzi. Con l’intervento di Alma Massaro che illustra l’attenzione verso gli animali nella teologia di Paolo De Benedetti, e con il saggio di Roberto Marchesini sul riconoscimento della soggettività animale nell’etologia scientifica, si chiude la seconda sezione.
La terza sezione si apre, invece, con Massimo Filippi e la traduzione inglese del suo denso saggio «Il faut bien tuer» o il calcolo del mattatoio. Qui Filippi opera una decostruzione del dispositivo del mattatoio e della politica sacrificale secondo la quale la stessa nozione di Soggetto, che sembra un dato oggettivo, è in realtà un effetto dei dispositivi di separazione della vita imposti dall’antropocentrismo ai fini del dominio. Anche il concetto, apparentemente biologico, di specie funziona in realtà come un dispositivo ontologico-politico del divenire vivente. La sua riflessione ispirata a filosofi come Agamben, Derrida, Žižek e Butler, è declinata in modo originale e indica come il superamento dell’antropocentrismo possa darsi solo in una vita animale-politica come ibrido gioioso e sensuale.
Il libro si chiude con una carrellata di interventi che spaziano anche al di fuori della filosofia. Laura Bazzicalupo interpreta l’Antropocene mediante categorie foucaultiane come una battaglia biopolitica per il controllo dell’animalità. Valentina Sonzogni riporta alcuni casi di specismo nell’arte italiana contemporanea che a volte ha tentato di fare della morte dell’animale un’opera artistica, dimostrando anche in questo campo una particolare insensibilità ed estetizzazione del dolore. Infine Leonardo Caffo, autore particolarmente attivo anche sui media, riporta una visione etica del rapporto con gli animali che non è strumentale, ma “soltanto per loro”, sostenendo allo stesso tempo come sia improrogabilmente giunto il momento di parlare di animalità.
Interessante. In effetti mi piacerebbe approfondire le riflessioni sul rapporto antropocentrico dell’uomo con l’animale (e quindi con la natura nella sua complessità), da un punto di vista progressista, o addirittura marxista. Proverò a cercare quindi in Derrida e Agamben. Questo anche alla luce di una serie di successo e alla moda come “L’Alligatore”, dove i due energumeni tanto per gradire cuociono un’aragosta viva (in finzione spero, ma la scena arcaica e barbarica non cambia). Proprio un gran “progressismo”.