“Tutti gli occhi che ho aperto”: frammenti luminescenti di rivelazione
di Prisco de Vivo
Se nel passato dell’alto medioevo si chiedeva ad una poetessa come Christine de Pizan: “Cos’è la poesia?” sicuramente, senza esitazioni, avrebbe risposto: “È un fiore che sboccia numinoso sul petto”.
Una visione gotica vicina quasi a Cristina Campo, alla sua ossessione per la perfezione (rovesciata alla bellezza); quella celata e nascosta, irreale e cristallina che si frantuma solo con la parola e si sprigiona con lo spirito.
In modo che estremamente essenziale questa dimensione la ritrovo anche in Franca Mancinelli, spece in quella sua appartenenza alla pienezza; quella voce lenta che nasce dalle crepe di un modesto vivere. Franca Mancinelli è una poetessa che vive appieno con il suo mondo trascendente, lo misura con l’intermittenza della sua crescita interiore che è dettata quasi sempre da una sola peculiarità quella di essere veritiera.
Se ci soffermiamo ai suoi primi lavori come: “Mala kruna” oppure “Pasta madre”, la sua poesia affronta la “duttilità” ed allo stesso tempo il dissolvimento della parola, quello che si incardina al racconto in una continua metamorfosi. La sua è una poesia arcuata, ed ingemmata che non è riuscita a disperdersi al tempo ed allo spazio.
Nell’ultimo periodo in cui ho incontrato Franca le ho chiesto com’è nato questo suo libro e lei, come ha risposto ad altri, ha esclamato: “mentre ero seduta sul pavimento cercavo la forma che accogliesse tutti gli occhi che ho aperto”!
La somma e la traccia nevralgica del libro risulta proprio l’intermezzo, ma, di grande intensità risultano, anche, il centro e le pagine finali del testo.
È un dettato intimo e frammentario, un discorso che rimane in un equilibrio funambolico; c’è il desiderio di cadere in un profondo spazio semantico “tutti gli occhi che ho aperto”.
Sono poesie che aprono l’anima ed il cuore per chi si esprime per sollecitazioni intime ed abbandona il corpo per attraversare le linee del suono, del sussulto e dell’estasi.
Come quegli attraversamenti silenziosi e pudici che caratterizzano le azioni delle mistiche, come quelli sinuosi e lenti che Teresa di Lisieux, la santa protettrice di Francia, con la sua tenera teologia della “piccola via”; evocava quegli umili gesti che parlavano di verità e di rivelazioni lucide che rimangono nel fondo della coscienza santa.
I versi di questa raccolta si innervano cosi: “Non riesco a murarmi dentro , a cementare la porta”. Una volontà dichinsoniana che sovverte il proprio corpo e lo mette in un angolo cercando di ricomporlo: “Dietro questa faccia di cartapesta risplende in tutti un sorriso perenne”.
In questi versi si evidenziano le facce dei dipinti di Ensor, le famose maschere senza anima, “i volti non volti” che scavano negli anfratti della memoria. Le memorie e gli anfratti del sogno riverberano in Franca Mancinelli come secche allegorie, talvolta, trasparenti e plastificano le parole rendendole con eleganza “corpo e immagine”: “Sono perle nel tempo, le morti le attraversano”.
Al lettore, con forte vivacità, si configura davanti agli occhi il passaggio abbandonato dell’uomo.
I suoi versi evocano “La terra desolata” di Elliot, oppure i paesaggi irreali e mefitici dell’artista tedesco Anselm Kiefer: “L’albero incandescente ha aperto i rami nel tremore l’anima fulminata tra pareti di pelle e di vene, affiora l’azzurro da un tessuto logoro”.
Il terribile è una natura luminosa e grigia che investe l’anima che rifiorisce e rinverdisce dalle sue rovine come una fenice che risorge dalle sue ceneri.
La distruzione, quella catramosa ed apocalittica, si illumina dalle parole e con esse si infiamma.
I suoi versi incalzano verso l’illuminazione, una nuova luce libra come un raggio colorato ed insorge là dove è possibile: “È un chiodo la mattina trafitta la mente / affiora un’immagine come un frutto marcio”.
Il clima è quello di un semenzaio di segni e tracce ruvide come quello dei pellegrini che in un tempo a noi lontano con i loro piedi nudi lasciavano le loro impronte, in un terreno vergine e brullo.
Così, la poesia strascica da una forma all’altra lasciando essiccare la sua fragile impronta: “Tralasciando la terra nel sonno continuiamo a discendere / in circolo tra organi e pianeti ”.
Il cuore rimane preda dell’inquietudine fin quando non trova pace in Dio. La natura deve uscire fuori dalle sue tensioni come ben faceva intuire S. Agostino.
La natura si avvicenda sempre ai nostri occhi con le sue mutazioni, e lo si ritrova appieno nella sezione di questa raccolta dedicata ad “alberi maestri”; si contorce la vita alla morte, la memoria al dissolvimento temporale e spaziale.
Nell’ultimo capitolo di questo libro il nucleo narrativo si allinea al “disvelamento”, alla commiserazione piena del proprio sentire fino a svescicare l’istinto della predizione “la fiamma viva della rivelazione”, dove è evidente la “luminescenza”, la visione dello specchio che introduce ed interrompe la lotta eterna tra il bene ed il male.
L’ispirazione finale è quella estrema dello sguardo bianco, uno sguardo nuovo che vuole rifondare il mondo con una volontà genuina e luccicante che elude il volo; quello del distacco alla terra: “Le poiane ci sorvegliano appollaiate sui reticolati dell’autostrada confermano la rotta ogni tanto vengono in volo le riconosci dalla forza che attingono dal cielo tenendo semplicemente le ali aperte”.