Mani e piedi per spiccare il salto

di Silvia Ferrara

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(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Silvia Ferrara, Il salto. Simboli, disegni, lettere e la nascita del pensiero, Feltrinelli. Un viaggio all’origine dei primi simboli del mondo.)

Cominciamo. Ogni salto inizia con una rincorsa. La rincorsa è l’unico modo per elevarci da terra e opporci alla forza di gravità. Ed è per questo che il salto che faremo prenderà l’abbrivio dalla cosa più ancorata a noi, più intimamente connessa al nostro esistere: il corpo, l’impronta fisica che lasciamo con i polpastrelli, le dita, le mani e i piedi, il nostro stato quaggiù, di cui fa segno il suol che premiamo. Quanta ragione aveva Leopardi.

Il corpo, dopo millenni di evoluzione, ci fa guardare l’orizzonte con lo sguardo dritto davanti agli occhi, parallelo alla terra, non con il naso sempre costretto all’insù. Ci fa muovere per occupare lo spazio ed esplorare le cose con la vista e con il tatto. Ci fa radicare, ci fa lasciare stampi intorno a noi, ci fa emettere suoni e ascoltarli e comporre gesti nell’aria. Non c’è niente da fare: tutto, ma proprio tutto, parte dal nostro corpo. Della mente parleremo più in là, ma forse Cartesio aveva sbagliato, non ci sono divisioni. Siamo un tutt’uno di corpo, membra e mente.

Quando ci muoviamo, lasciamo le nostre impronte un po’ su tutto, anche su quello che percorriamo solo nella mente, dove i nostri neuroni creano e depositano i percorsi del ricordo e le sue sensazioni, tante piccole madeleines degli spostamenti fisici e reali e anche immaginati della vita.

Piedi

Non siamo solo seminatori, siamo anche cacciatori di tracce. Che lo vogliamo o no, ci piace ricostruire il percorso che porta da A a B, e poi anche a C. Facciamo Hansel e Gretel con le mollichine di pane quando calcoliamo un percorso con il navigatore o con la memoria, quando andiamo a correre al parco o a far scodinzolare il cane sotto casa. Ricostruiamo percorsi ogni giorno, itinerari e distanze, andate e ritorni, viaggi proiettati e sognati dentro e fuori dai cassetti, tra le corsie del supermercato o per vedere quanto ci mette questo treno ad arrivare a casa. Quanto manca? Che distanza c’è? Quanto ci impiego?

Alcune impronte fisiche sono impresse nel fango di una capitale mezza europea e mezza asiatica, attraversata dall’acqua del Bosforo e da milioni di persone, tra miliardi di altre impronte e calchi che nella storia hanno parlato decine di lingue diverse. E queste impronte fisiche sono lì e sono tantissime. Non sono certo le più antiche (quelle del sito di Laetoli in Tanzania sono vecchie di 3,7 milioni di anni), ma queste sono davvero speciali.

Yenikapı è un quartiere non lontano dal centro di Istanbul, vicino al porto di Teodosio, in cui si è cominciato a scavare nell’impazienza di costruire una linea metropolitana e un tunnel avveniristico da far passare sotto il Bosforo. Che ci si potessero trovare i resti del passato era quasi banale, una predizione da scavatore-raccoglitore dilettante e primitivo più che da archeologo o ingegnere moderno e progredito. Infatti, sono state trovate navi dell’impero bizantino, con tutte le loro masserizie, anche oggetti che il tempo non restituisce con generosità, come tessuti e legno. Fin qui, bella scoperta, belle navi, tante e ricche. Ma sotto? Scavando, e chi inizia a scavare non si ferma, un villaggio neolitico di ottomila anni fa, con le sue sepolture ad inumazione e a cremazione, mix esplosivo, rarissimo, perché la cremazione sembrava essere pratica più tarda. E remi di canoe, cucchiaini di osso. Cose che servivano in vita. Fin qui, di nuovo, bellissima scoperta, belle cremazioni, tanti e vari sepolcri.

Yenikapı però aveva ben altro da mostrare: uno strato di più di mille impronte di piedi, di adulti, di ragazzi, sagome stampate sulla terra essiccata e sigillata per millenni. A vederle sembrano il gioco Twister che facevamo da bambini, posizioni di piedi che si intersecano e attorcigliano su sé stesse, imbrigliate nel fango. Non vanno da nessuna parte, alcune sono saltellanti perché spaiate, altre sono sovrapposte. Alcuni sono stampi di calzature, altre della pianta dei piedi nudi. E sono un mare di piedi, un villaggio di piedi, talmente tanti che non si riescono a contare, su un palcoscenico cristallizzato, fermo.

Il fango su cui sono impresse doveva essere poroso, forse da lì passava un viottolo umido, forse lì era stata fatta una danza, a piedi nudi, sul letto del fiume, e poi la patina del terreno si è seccata, solidificata, e gli strati di vita e di depositi alluvionali successivi hanno ricoperto tutto. Che fosse stato un ballo rituale o delle passeggiate estemporanee e per niente solenni ha poca importanza.

Quel che importa è che di tutto questo movimento, noi, migliaia di anni dopo, vediamo il fermo-immagine e la sua intenzionalità, arrivata a noi quasi per sbaglio. Seppur bloccate nel fango, fisse, sono orme che brulicano, che fremono di vita. Non sono le uniche in quella zona, altre sono state trovate a Barcın Höyük, nel nord-ovest dell’Anatolia nella Turchia moderna, di qualche secolo ancora più antiche, e con gli stessi connotati simbolici. Ma di queste, a Yenikapı, tra i sibili della metropolitana, in mezzo al rumore degli umani, immaginiamo il rumore di quel momento. Con un po’ di fantasia riusciamo a vedere i piedi in aria e i piedi che ricadono battendo sulla terra. Forse il loro percorso non era definito, e comunque per noi sono solo piedi fermi. Eppure, quanta strada sembrano aver fatto le loro impronte.

Mani

È notte. Anzi è giorno, ma sembra notte fonda. La luce fa fatica ad arrivare lì dentro e quell’uomo sa che cosa voglia dire stare al buio in pieno giorno, quanta paura faccia all’inizio.

Arrivarci ogni volta è un viaggio, di fatica fisica e mentale, un tour de force. Ogni volta che mette piede fuori da quel buco, ne esce distrutto.

Lì entrano solo riflessi pallidi, il sole è alto nel cielo, e il contrasto luce/ombra, chiaro/scuro brucia gli occhi. Quando entra un filo di luce, si insinua tra le onde delle rocce, e lui le conosce, sa come sono fatte perché le ha studiate, palmo a palmo, letteralmente. Sa che sono state sagomate dall’acqua negli anni e che tutti quei segni sono stati fatti dagli orsi delle caverne (Ursus spelaeus). Ne ha visto uno l’altro giorno, di straforo, ma è stato velocissimo, entrato e uscito in un baleno.

Quando entra lui fa fatica a distinguere un passo dall’altro, il terreno è sconnesso e incerto, è sempre difficile. Anche se non è mingherlino e si è quasi abituato al buio, si fa spesso male. Solo suo figlio saltella dentro come uno stambecco (Ibex pyrenaica), tutto di filato. E poi arrivarci. La valle è aspra e rigida, le pareti sono dure, ed è sempre popolata da animali che scendono giù dalla montagna da quella parte, dove il sole sparisce. Sono tantissimi, fanno rumore, il suo gruppo ha imparato a cacciarli.

Cavalli selvatici (Equus ferus) e bisonti soprattutto, ma anche quello splendido animale che noi non abbiamo più, l’uro (Bos primigenius).

Ma oggi è venuto qui con uno scopo diverso. Ha una specie di missione, deve scendere in fondo, dove le pareti non hanno orizzonte. Sono proprio le pietre di calcare che lo guidano con le loro sagome, e le gobbe e le rientranze sono i profili che segue per tracciare le linee, la roccia lo aiuta a crearle.

Non voglio dirvi troppo prima di entrare, perché descrivere quello che vedrete non ha senso. Dovete usare la vostra immaginazione. Intanto seguitelo, vi porta dentro. Attenzione alla testa, attenzione alle stalattiti. Aggiustate la vista, riprendete fiato. E ora guardate a destra. Questo pannello è il suo work-in-progress, ha appena iniziato a lavorare. Prende il pigmento di ocra, lo sparge sul palmo della mano e poi lo imprime sulla roccia. Qui vedete anche un dito perché il suo mignolo è un po’ storto e non riesce a creare un’impronta precisa. Tante volte sbafa, e non è semplice fare le impressioni lì sopra, si deve arrampicare sul muro. Per ora ne ha fatte più di quattrocento su quattro pannelli, gli piaceva la simmetria dei numeri, e forse li ha anche contati tutti, tutti fatti con l’ocra. Questa galleria l’ha chiamata “galleria dei pannelli rossi”, rende bene l’idea secondo me, ogni tanto è utile essere descrittivi, anche se, diciamoci la verità, sembra una parete spalmata di sangue.

Più in là ha disegnato un profilo di bisonte con una tecnica che ha inventato lui, usando una serie di punti rossi chedelineano la sagoma dell’animale, grandi punti a macchia tonda, fatti premendo solo il palmo della mano, senza le dita.

Ma questi disegni devono essere spiegati meglio, un’altra volta, più in là in questa lettura.

Per le mani, invece, ha trovato anche un’altra tecnica, che sembra una magia, invece è solo tecnica. Prende il pigmento e con una cannuccia lo soffia intorno alla sua mano appiccicata sulla parete, che diventa tutta rossa sul dorso, le dita sono accarezzate dalla pittura. Quando solleva la mano e la stacca, i contorni dell’impronta sulla roccia sono dello stesso colore della sua carne. Carne viva, circondata dallo spruzzo rosso.

Ha fatto tutto questo da solo.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale.
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