Scatole cinesi

di Giovanna Daddi

 

Io la vedo: non si muove, non parla. Sta, semplicemente. Forse tenta di ponderare l’imponderabile: la quantità indefinibile e inestinguibile di oggetti, delle più varie dimensioni, che sono contenuti nella grande casa, dal sottoscala al sottotetto. Pensa come farà a essere pronta, forse non lo sarà mai. Ma va fatto, la grande casa va svuotata, quelli che l’hanno acquistata non vogliono certamente taglia erbe arrugginiti, sistole da giardino intasate, porta vivande, porcellane da cinque centesimi e serviti di famiglia, coperte infeltrite, corredi ricamati, posate d’argento, guanti spaiati, attrezzi da manovale, elettricista, idraulico, cazzuole, mazzuoli, vanghe, scarpe da trekking, sci Rossignol comprati a Corvara nell’84, valigie, asciugamani di spugna di ogni dimensione e colore, porta trucchi, parrucche, agende fitte di impegni passati, manoscritti polverosi, appunti di lezioni, tesi di laurea da correggere, rimaste lì con i commenti a margine sospesi, lasciati probabilmente all’arguzia inesistente di qualche studente speranzoso, occhiali con le stanghette rotte, soprammobili giapponesi, messicani, iraniani, misuratori di pressione, fasce elastiche, medicinali costosi aperti, altri ancora chiusi. Carriole, cappotti di cashmere, sciarpe, zuppiere, bicchieri di cristallo, bicchieri presi con i punti, biciclette senza una ruota, schedari stracolmi, lettere, videocassette, ciotole, cibo per gatti, cassapanche, tavolini e tavolinetti, lampade da terra, lampade da tavolo, disegni, quadri, trapani (tre), microonde rotti (due). Tappeti turchi, tappeti europei, cuscini urticanti. Pentole antiaderenti “per cuocere le tue pietanze in modo sano e dietetico”, cassette di frantoio con latte vuote. Manuali d’uso di telefoni, pc, navigatori, decoder, lavatrici, lavastoviglie. Raccomandate “Egregia signora ci preme segnalarle che non risulta pagata la bolletta relativa al periodo”. Urne con le ceneri dei nonni, sistemate in un armadio in mezzo ai piumoni per farli stare comodi presumibilmente.
E diecimila libri. Diecimila. Sistemati senza alcun ordine apparente nelle otto librerie, più gli armadi del sottoscala, in cui le pagine si sono attaccate le une all’altre, fuse in un compendio delirante dall’umidità impietosa della terra, da cui sono separate solo per un sottile strato di contro solaio arancione.
Tra le pagine e i vermi grassi del terreno solo un velo, che si potrebbe squarciare facilmente, soprattutto se non verrà rapidamente individuata la perdita di acqua che fa scricchiolare la cantina e le assi di legno: un giorno la grande casa potrebbe collassare, con la rapidità dei casinò di Las Vegas che vengono fatti esplodere nei film americani, lasciando solo un cumulo di verde, arancio e mattoni.
Perciò non si muove. Poco prima si muoveva, fino a qualche giorno fa: si muoveva fin troppo. Entrava nelle stanze, aprendo una porta dietro l’altra, come scatole cinesi infinite. Un domino di scoperte senza senso, che facevano lievitare la quantità di oggetti di cui era necessario disfarsi.
Così si era mossa rapidamente e nervosamente anche il pomeriggio in cui la madre aveva smesso di respirare: prima respirava, un istante dopo non respirava più. Dopo aver preso una boccata d’aria, come prima di un’immersione, e avere spalancato gli occhi, come a tentare di assorbire un’ultima immagine, si era afflosciata, d’un tratto. Ferma. Per sempre.
E allora lei si era messa a correre per la stanza, a chiamare, a gridare quasi. Un comportamento che non era il suo, non le stava bene addosso, come un cappotto di due taglie sopra. Ma si impara presto che in certi casi le reazioni sono insospettabili.
Aveva continuato questo moto perpetuo instabile e isterico per giorni: farla sistemare, correre a prenderle dei vestiti adatti, lasciarla nelle mani degli operatori delle pompe funebri, dimenticarsi le scarpe e tornare a prenderle, toglierle l’anello, e poi rimetterglielo perché avrebbe voluto così (forse?) avvisare le persone care e anche quelle non care, scrivere ai parenti lontani, leggere risposte tutte uguali, organizzare il funerale, chiedere al prete di tenersi sul vago che lei non era credente, non esageri con discorsi sulla vita eterna eccetera tanto sappiamo tutti che di vita ce n’è una, e questa è, questa che è appena terminata; svuotare l’armadietto dell’ospedale, andare dal notaio, andare in banca, pagare tasse, avvisare a lavoro: “Le spettano i tre giorni di lutto, pregasi inviare richiesta all’indirizzo deputato, unitamente al certificato di morte, in allegato”. Che mancanza di tatto.
E poi fermarsi, di botto.
Una scatola cinese dopo l’altra, una stanza dopo l’altra, scoprire cose, ritrovare fotografie, i momenti peggiori e più duri: rivedere i volti, volti dimenticati, come erano una volta, talmente era abituata a vederli così come erano trasformati, al presente impietoso. Ritrovare il passato perduto, nelle foto sbiadite, il passato più lontano che ci possa essere, insieme a cuccioli di tigre al circo, passeggiate nel bosco con i fiori gialli nei capelli, il cane che corre e guarda l’obiettivo, la madre con un abito a fiori che la tiene per mano dio santo quanto tempo, da quanto tempo non guardava quelle foto, non sapeva neppure che esistessero ancora.

Davanti a questa galassia di memoria si ferma, altro non può fare. Ora.
Non sa da quanto è ferma, seduta sul pavimento un po’ sporco, a studiare stolidamente le impronte fangose lasciate da qualcuno, il giorno del funerale in effetti pioveva. Guarda le impronte di piedi, conta mentalmente i denti delle suole di carrarmato, in un angolo un ombrello rotto, come se il salotto fosse una discarica, cristo dio, potevano riprenderselo e buttarlo in un cassonetto. Ma non si può controllare il comportamento della gente, in certe situazioni.
Fuori è buio, quindi deve esser lì da parecchie ore. Sente freddo, ed è l’unico motivo per cui decide di muoversi: cercare una coperta, un maglione della madre, qualcosa per coprirsi.
Si alza, aiutandosi con le mani, le ginocchia rattrappite da quella posizione fetale tenuta troppo a lungo, fa il gesto di stirare le membra e si incammina verso la scala che porta al piano superiore, il primo, quello con le camere da letto: un piede dopo l’altro sui gradini, sfiora il corrimano di legno scuro, attenta a non urtare gli scatoloni che stanno in mezzo, si trascina su con una stanchezza che non le è propria. Entra a colpo sicuro nella stanza della madre, guarda il letto, perfettamente rifatto con i cuscini di seta appoggiati alla testiera, la luce del comodino è rimasta accesa, la spegne e accende il lampadario grande. La luce fa sembrare la stanza più piccola, si vedono tutte le cose rimaste in mezzo, il tavolino stracolmo di fogli e libri, il computer acceso e lampeggiante “è richiesto l’aggiornamento dell’antivirus”. Butta giù lo schermo, taglia corto. L’oggetto di interesse è l’armadio blu, lo apre sapendo che lì troverà vestiti caldi. Tira a sé una delle ante con lentezza, quella cigola, lo ha sempre fatto, si sentiva perfino dal piano terra quando veniva aperta, guarda dentro e vede un’inspiegabile pila di calze, collant, parigine, calzettoni, ordinati meticolosamente, tutti color carne. Accanto, alla rinfusa, i maglioni appallottolati senza garbo, la lana colorata che ha preso la sembianza di un pianeta sconosciuto, rotondo, impreciso, a chiazze morbide e buchi, i forellini dell’angora e del mohair. Se ne prendesse uno distruggerebbe quella sfera. Perciò agguanta un giubbotto con le toppe da una gruccia e, per la prima volta da settimane, parla:
«Non le ho mai visto addosso un paio di collant color carne». Ha ragione.
Ricorda che dai pantaloni morbidi o dalle lunghe gonne sbucavano solo i piedi piccoli di sua madre, infilati in scarpe di camoscio. Mai viste le gambe, da tanti anni. Mai scoperti i polpacci, le ginocchia, tantomeno le cosce. E invece erano lì, proprio dove dovevano stare, attaccati al tronco superiore del corpo, e avvolti in calze rigorosamente color carne.
Ne prende un paio, sembrano soffici, non sono di nylon, sembra più cotone caldo, come lo chiamano. Si siede sul letto, si sfila i jeans e inizia a infilarsi con cura quelle calze, le arrotola bene e poi le appoggia sulle punte dei piedi, da lì le tira su piano, delicatamente, fino alle ginocchia, si alza dal letto e tira su le calze fino alla vita, le stanno un po’ grandi ma le guarda con soddisfazione queste tengono caldo, non le butterò via. Poi si rimette i jeans, sopra le calze.
«C’è qualcosa che vuoi?» mi chiede, per la prima volta.
«Vorrei un tappeto turco» le dico «sono giorni che ti seguo nelle stanze e ho pensato che in camera mia manca un tappeto, manca proprio un tappeto»
«Hai ragione, darà un tono all’ambiente».
Ho solo diciassette anni ma capisco che in una camera da letto un tappeto ci vuole. E poi così avrò un ricordo della nonna.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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