Intimisti per fragilità: la lezione govoniana

di Matteo Bianchi

Una rilettura dell’opera crepuscolare di Corrado Govoni (Tamara, Ferrara, 1884 – Lido dei Pini, Roma, 1965) attraverso le ultime due generazioni di autori emiliani si è imposta nel momento in cui la cifra elegiaca e l’abbassamento dei toni e del registro lessicale si sono rivelati tratti somatici imprescindibili, con la premessa che la vena intimista di stampo pascoliano sia pulsante lungo l’intera produzione lirica del poeta di Tamara (anche a detta sua) e sia sconfinata per mezzo delle descrizioni paesaggistiche nelle prose poetiche de La santa verde (1919), rendendo Govoni un punto di riferimento per le tendenze letterarie della provincia ferrarese e di quelle emiliane limitrofe. Tanto che il Futurismo fu condannato criticamente dall’amico Giacinto Spagnoletti, forse la penna che ne scrisse di più e più a lungo, prima e dopo la sua scomparsa, come fosse stato un morbo, un’influenza virale di passaggio che lo aveva distolto da quel suo “sentire” tenero, borghigiano e capace di stupirsi ogni volta come fosse un’inaugurazione di fronte agli oggetti del quotidiano. Venduta la casa paterna e i poderi (trecento ettari a coltura intensiva), fuggì dalla campagna ferrarese senza aver compiuto studi regolari, ma stringendo tra le mani soltanto un’acerba esperienza da mezzadro. In principio la fuga fu per ragioni in parte lavorative, quando si volse verso Milano per ampliare il suo giro di rapporti culturali (dove conobbe Marinetti e cominciò a collaborare con la storica rivista “Poesia”), che poi divennero strettamente lavorative, quando scelse Roma sede del Fascio, dove gli furono riconosciute qualità intellettuali e una modesta carriera da burocrate (dal 1928 al 1943 fu segretario del Sindacato nazionale autori e scrittori).

Corrado Govoni subì l’esistenza e, spesso, ne fu travolto, ma i suoi versi cominciarono a registrarlo con nitidezza dopo l’uccisione del figlio Aladino (1944) nelle Fosse Ardeatine per mano dei nazisti, un lutto destinato a non rimarginarsi. Accadimento che gli fece ritrattare di fronte allo specchio ogni cosa, persino quel suo minimo interessamento alla politica nazionale, rinnegando tutto e ritirandosi in definitiva dall’erudita mondanità che mal sopportava. Allora recuperò con una scrittura ancora malinconica, ma dotata dell’entusiasmo di fondo per la scoperta, e dell’amore per il mondo agreste che mai avevo smesso di mancargli:

Credo che pochi scrittori italiani siano rimasti, come me, attaccati con fanatica fedeltà, in poesia e in prosa, agli interessi, alle sollecitazioni ed alle suggestioni della propria terra natia: anche se dalla mia terra e dalla mia gente io non sono mai stato ritenuto degno di qualunque particolare riconoscimento anche semplicemente morale[1].

Se la curiosità lo aveva accomunato a Filippo de Pisis, il ritorno con la penna all’immaginario bucolico lo aveva avvicinato a coloro che avevano scelto di abbandonare “la musa pentagona” per porti più ospitali, così lo stesso de Pisis e Giorgio Bassani; mentre intellettuali come Franco Giovanelli, che già aveva provato lo spaesamento dal fazzoletto di terra di Sermide alla “città delle cento meraviglie”, rimasero saldamente ancorati alla loro nuova dimensione; in più, Giovanelli amava la sua cattedra da insegnante al liceo classico, sebbene qui non ci fosse fortuna né, tantomeno, attenzione editoriale2 . Altri, come il contemporaneo Roberto Pazzi, originario di Bocca di Magra, in Liguria, hanno da sempre resistito inter nos, ossia dentro le mura rinascimentali che la modernità non è riuscita a scalfire, verosimilmente figli di un’epoca che, per mezzo dei rapidi trasporti e delle comunicazioni globali, gliel’ha permesso.

SUL TERREMOTO DEL 2012

Il capitolo quarto vorrebbe dimostrare che il terremoto che afflisse l’Emilia nel 2012, oltre a elevare in un attimo un sentimento di comunanza regionale, ha spinto numerosi autori a ricorrere alla poesia per risolvere le crepe interiori che la precarietà del sisma aveva lasciato in loro e nei loro cari. In sostanza un terreno fertile, un’ulteriore occasione per l’intimismo govoniano di rinascere. C’è stato un terremoto fisico, oggettivo, scientificamente misurabile e un terremoto soggettivo, spirituale: gli autori presi in esame si discostano dalle forme molteplici dell’iconografia sismica, poiché la memoria collettiva, che si nutre assiduamente di immagini, resta un fenomeno culturale e come tale è sottoposta a sofisticazioni di varia natura per essere scomposta e ricostruita ad arte, secondo scopi e convenienze. In sostanza, più è astratta e trasfigurata meno l’immagine sarà neutra, specialmente se condizionata da una figura retorica. E che lo voglia o no, nemmeno il lettore può rimanere neutrale, scegliendo se dare adito al dubbio di un confronto, a una scintilla conoscitiva, oppure volgersi altrove.

Una contaminazione eclettica tra animismo e intenzione oggettivante, materializzazione della psiche d’artista e ostilità muta e crudele della natura, nostalgia rurale e attrazione, ripulsa per la città tentacolare[2].

È la definizione data da Alberto Bertoni e Gian Mario Anselmi nella loro geografia letteraria tra Emilia e Romagna (1997) per circoscrivere l’esperienza del Govoni poeta, per il quale lo scenario prediletto era una Ferrara «dai tetti rossi», «silenziosa» e «metafisica», dove l’attenzione per le geometrie visibili e quelle invisibili era intrinsecamente collegata alla ricerca di un principio originativo quanto ordinatore. «Certo, nella storia del futurismo, il “caso” Govoni è di notevole peso critico, proprio perché non ha alcun senso opporre al Govoni futurista un presunto Govoni anti-futurista. Grazie a Govoni e grazie soprattutto al giovanissimo Filippo de Pisis (aggregato quasi subito al gruppo dei “metafisici”), Ferrara divenne presto per Carrà e per i de Chirico il referente topografico e simbolico ideale» , per via della presenza delle mura che congiungono l’antico al moderno. Quella di Govoni, però, non sembra una piena adesione alle dicotomie tipiche della metafisica, piuttosto una propensione a lasciarsi coinvolgere nel vortice visivo ed emotivo della raffigurazione, senza indugiare nella sfera del simbolico, rinunciando a un altrove non ancora e non del tutto percepibile. Collazioni imprescindibili dalle quali prendere il largo e proseguire un intreccio tra il vissuto privato di ciascun autore e le rispettive correlazioni con il paesaggio, che si perpetua nei decenni, sono state Fuori Le Mura. Antologia di paesaggi letterari della pianura padana (1991), a cura di Monica Farnetti e Giorgio Rimondi, e la dimenticata I misteri della Bassa per terra acqua aria fuoco. Antologia della civiltà letteraria padana del Novecento (1982), a cura di Giovanni Negri. Inoltre, l’elaborato intende, tramite alcuni spunti e citazioni, dare ripetuta luce agli studi accademici dei docenti Elena Salibra, scomparsa nel 2015, e Paolo Cherchi, scomparso nel 2013.

Tratto dall’Introduzione al volume

Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscoli sul Po agli influssi emiliani,

Mimesis, Punti di vista, 2023, pp. 198, euro 18

 

Matteo Bianchi, 1987, si è specializzato in Filologia moderna all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sul lascito lirico di Corrado Govoni e ha curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020). Scrive su “Il Sole 24 Ore”, “Left”, “Il Foglio” e Globalist.it. È redattore di Pordenoneleggepoesia.it e dirige il semestrale “Laboratori critici”. Ha pubblicato quattro raccolte in versi e ha inoltre curato di Filippo Secchieri Scintillazioni. Tutte le poesie (con J. Robaey e A. Scarsella, Alce 2015). Ha anche collaborato alla Guida tascabile delle librerie italiane viventi (Clichy, 2019) ed è membro del comitato scientifico della Fondazione “Giorgio Bassani”.

[1] C. Govoni, Storia della mia vita, ovvero le «confessioni» che scrisse per i «cari goliardi copparesi», stampato in mille copie nel 1958, dattiloscritto, Fondo “Corrado Govoni”, Biblioteca Comunale Ariostea.

[2] A. Bertoni e G. M. Anselmi, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, Clueb, Bologna 1997, p. 260.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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