L’economico e il politico. Da: Riot Sciopero Riot (Meltemi, 2023)

di Joshua Clover

 

La confusione tra riot e violenza è stato uno strumento essenziale per il riduzionismo politico operato nei confronti del riot e per la sua espulsione dai territori della politica propriamente detta, che, implicitamente, si fonderebbe sulla presenza o meno di un modello di autocoscienza. È proprio questo che Thompson ha inteso criticare ferocemente, parlando di una “concezione spasmodica” della storia popolare:

Secondo questa concezione non si può considerare la gente comune come un soggetto storico prima della Rivoluzione francese, perché, prima di allora, essa si impone nel quadro storico solo occasionalmente e in modo convulso, in periodi di improvvisa tensione sociale. Si tratta, cioè, di intrusioni indotte, non consapevoli né autonome, di semplici risposte a stimoli economici. (1)

Questo armamentario concettuale è rinnovato dall’approccio scientifico quantitativo adottato, tra gli altri, dal New England Complex Systems Institute. Nel loro studio del 2011, dedicato alle nazioni a basso reddito, si traccia una correlazione univoca nella quale gli autori “identificano una specifica soglia per il prezzo degli alimenti, al di sopra della quale le proteste diventano probabili” (2). A partire da questi presupposti di base, ci sono versioni più sfumate, secondo cui l’intollerabile aumento dei prezzi delle merci si articola con quelle trasformazioni economiche più ampie, come i programmi di ristrutturazione del debito e le relazioni commerciali stabilite dall’FMI, che creano le condizioni stesse per la precarietà dei sistemi alimentari. Pur sottolineando come i concetti di carestia e scarsità siano socialmente costruiti, anche queste interpretazioni finiscono per configurare un meccanismo di reazioni a catena del tutto autonomo. Ed è tale meccanismo a determinare unilateralmente una definizione efficace del riot: quest’ultimo è, molto semplicemente, quel che succede quando i prezzi degli alimenti raggiungono un certo picco, secondo una particolare versione dello schema adottato da quegli “storici dello sviluppo” criticati da Thompson per il loro “riduzionismo rozzamente economicista, dimentichi della complessità di cause, comportamenti e funzioni, con un atteggiamento che provocherebbe la loro indignazione se notato nei lavori dei loro colleghi marxisti” (3).

Un approccio del genere trova un contrappunto piuttosto perverso in Alain Badiou, la cui interpretazione di questa fase politica è, invece, astratta e qualitativa. Per molti versi, l’analisi di Badiou supera i limiti dei suoi contemporanei, di quegli intellettuali di sinistra che, davanti ai riot di Tottenham del 2011, vi trovarono ben poco di istruttivo. Come ci venne spiegato, quei riot raggiunsero, al massimo, una sorta di desolato spontaneismo, un’accusa che è la riattivazione, da parte del pensiero socialista, del tropo dello “spasmo”. È stato bizzarro vedere come una teoria politica un tempo all’avanguardia fosse rivenduta come una verità evidente, come se il dibattito tra Lenin e Luxemburg avesse trovato una conciliazione finale e le conclusioni fossero utili per tutte le epoche, senza richiedere una vera analisi. I servizi giornalistici furono, in generale, ancor meno generosi. I partecipanti al riot vennero descritti come zimbelli della società, mossi dalle compulsioni autodistruttive della loro età, avatar di un individualismo materialista a briglia momentaneamente sciolta, in grado, forse, di sfuggire a quegli sfoghi senza senso se soltanto qualcuno avesse dato loro un programma politico. Per riportare la geremiade affidata da Slavoj Žižek al commissariato di carta della “London Review of Books”: “Chi sarà capace di dare una direzione alla rabbia dei poveri?”. Era facile temere che sarebbe stato un filosofo a candidarsi per questa missione.

Badiou, al contrario, afferma chiaramente che i riot sui quali si sofferma non sono affatto alla ricerca di un direttorio d’avanguardia, senza il quale possono solo confermare la società che ha portato alla loro esplosione. Li definisce come un fatto intermedio, all’interno di una periodizzazione che solo alla fine porterà alla realizzazione di quel direttorio:

È possibile, come sembrano comunicarci in lingue rivoluzionarie ancora oscure vari popoli e varie situazioni, che tale periodo stia per concludersi, che vi sia un risveglio della Storia. Dobbiamo allora ricordarci dell’Idea rivoluzionaria, e trovare per essa una nuova forma, tenendo conto dell’insegnamento offerto da quello che sta accadendo. (4)

L’Idea nasce dall’evento del riot, al quale conferisce poi forza organizzativa e durata. In questo schema, c’è una certa alternanza tra periodi in cui “la concezione rivoluzionaria dell’azione politica è diventata talmente chiara da poter […] ottenere a questo titolo appoggi massicci e disciplinati” e “un periodo interstiziale [in cui] l’idea rivoluzionaria del periodo precedente […] è rimasta senza eredi” (5). Quest’ultima fase, mancando di un’idea d’ordine complessiva (che spesso appare con la maiuscola, come Idea), dà adito all’espressione del disordine nel modo protopolitico del riot. Badiou scorge una “strana somiglianza” tra il nostro passato recente e la Restaurazione francese, una fase, successiva alla disfatta finale dello spirito repubblicano, che “a partire dagli anni intorno al 1830, ha rappresentato anche un importante periodo di rivolte spesso momentaneamente o apparentemente vittoriose […]. E sono proprio le rivolte, ora immediate, ora un po’ più storiche, a caratterizzare un periodo interstiziale” (6).

Come ci si potrebbe aspettare, la dimensione puramente economica e quella puramente politica mostrano, per via negativa, i loro limiti reciproci. La storia indicizzata dal New England Complex Systems Institute si limita a seguire alcuni dati quantitativi nel loro avvicinarsi a determinate soglie e poi ad aspettare il riot che inevitabilmente seguirà. Il loro metodo sembra relativamente accurato, sulla scia degli hard data, ma è scarsamente esplicativo per quanto concerne il riot come fenomeno sociale.

Badiou, al contrario, fornisce un’analisi notevolmente esplicativa ma inaccurata. In altre parole, dà al riot un contesto sociale riconoscibile in opposizione ad altre forme d’azione, fa un appello alla periodizzazione, ed è pronto ad accettare il riot come testimonianza affidabile della trasformazione storica. Rimangono, in ogni caso, delle stravaganze nella sua ricostruzione storica, che desume le proprie periodizzazioni dalla storia francese, in modo piuttosto arbitrario, e a partire dai desideri politici che è l’autore stesso a ipotizzare – periodizzazioni che sono poi incanalate in una traiettoria globale del riot con cui una scansione storica del genere non può collimare. Il movimento oscillatorio che Badiou deduce per la Francia, con fasi che durano decenni, non si basa, in realtà, su una grande capacità di periodizzazione; presumibilmente accurato per la sua nazione d’origine, la sua ricostruzione mantiene scarsa o nulla corrispondenza con quelle che sono le tendenze della storia in altri luoghi. Inoltre, ogni riot con valenza politica (un “riot storico”, nella sua tassonomia) appare come un evento privo di determinazioni concrete, fuori dal tempo. I quantitativi ci forniscono troppa causalità, Badiou troppo poca.

Questi due approcci ci appaiono come Scilla e Cariddi, i fondali bassi dell’economicismo volgare e i mulinelli dell’astrazione politica. Come si può navigare tra di loro, tra il riot come hunger game e il riot come emanazione di una diafana struttura del sentimento politico? Senza dubbio, ciascuno dei due poli è istruttivo, per certi versi, ma di per sé risulta insufficiente. Se si è sottolineata l’importanza della periodizzazione, lo si è fatto perché trasformazioni fondamentali e durevoli all’interno del repertorio dell’azione collettiva suggeriscono come sia possibile stabilire una periodizzazione in forme più compiute dello spasmo o dell’oscillazione, su scale che possono essere sia infra- che sovranazionali. Se il riot guarda alla periodizzazione, il periodo gli restituisce lo sguardo attraverso lo spioncino dialettico. È difficile, forse impossibile, stabilire cosa sia un riot senza periodizzazione; facendone uso, invece, il riot (così come lo sciopero) può essere inteso come un insieme di pratiche che fronteggiano circostanze concrete, con o senza quell’immaginario specifico, riguardante l’autocoscienza riflessiva dei partecipanti, sul quale si concentrano tante interpretazioni.

L’analisi di Thompson si fonda sulla prassi. Le sue conclusioni prevedono l’aggregazione di pratiche diverse, come il blocco, la confisca, la rivendita, la minaccia e l’uso di vera e propria violenza nei confronti dei commercianti e dei trasportatori. È da queste pratiche, messe in relazione con il significato consuetudinario assegnato alla soglia di sussistenza, che Thompson deduce che l’attività unificante è la pratica dell’imposizione dei prezzi. Thompson, a propria volta, è stato criticato per l’enfasi che ripone sulla consuetudine e sul presunto diritto di esercitare la consuetudine come un’arma da parte delle folle. È, in ogni caso, prossima all’incontestabilità l’argomentazione più elementare da lui addotta, per la quale la situazione del riot non è dovuta a pura e semplice fame né a una sorta di “emozione” politica (come rivela uno dei nomi originari del riot), bensì alla dominazione del mercato. Se quest’ultimo era “il luogo in cui i lavoratori sentivano più spesso di essere esposti allo sfruttamento, era anche quello in cui – soprattutto nei distretti agricoli o dove vi era solo qualche manifattura sparsa qua e là – potevano darsi un’organizzazione con maggiore facilità”, mostrando, così, che “il mercato era la scena del conflitto di classe – come durante la rivoluzione industriale lo divennero la fabbrica e la miniera” (7).

Parlare di conflitto di classe può comportare il rischio di un certo riduzionismo. In effetti, non sembra una descrizione completamente adatta, almeno nelle valenze ortodosse che ha assunto, né per il mondo protoindustriale in questione, né per il presente, nel quale l’appartenenza di classe fornisce tanto una logica quanto un limite per la mobilitazione politica. Malgrado ciò, come si è osservato nell’introduzione, “l’imposizione dei prezzi sul mercato” descrive soltanto una porzione del riot contemporaneo. Thompson, e non è l’unico, indica una via d’uscita spostando l’attenzione sul soggetto del riot. Interrompe la sua analisi per osservare: “Molto spesso erano le donne che davano il via ai tumulti”, poiché, chiaramente, “erano anche le più coinvolte nella contrattazione individuale al mercato, particolarmente attente ai prezzi e quanto mai abili a scoprire se i commercianti rubavano sul peso o rifilavano prodotti di qualità scadente” (8).

È come minimo ragionevole sostenere che chi è stato escluso in anticipo dal “patriarcato del salario” (9) sia più incline a entrare in lotta sulla piazza del mercato, dopo che l’agricoltura di sussistenza è stata messa a repentaglio e la questione fondamentale della sopravvivenza è stata sospinta nella sfera in espansione dello scambio economico. E questo, la sfera del consumo e dello scambio, ci dà più di una semplice logica della circolazione; genera anche una logica della produzione propriamente detta.

______________

(1) E.P. Thompson, E.P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in “Past & Present”, n. 50, 1971, pp. 76-136; tr. it. di S. Loriga, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981, p. 57.

(2) M. Lagi, K.Z. Bertrand, Y. Bar-Yam, The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middle East, New England Complex Systems Institute, Cambridge, 10 agosto 2011, p. 1.

(3) E.P. Thompson, L’economia morale, cit., p. 59.

(4) A. Badiou, Le réveil de l’histoire, Nouvelles Éditions Ligne, Parigi 2011; tr. it. di L. Toni, M. Zaffarano, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Ponte alle Grazie, Roma 2012, p. 91.

(5) Ivi, p. 44.

(6) Ivi, p. 46.

(7) E.P. Thompson, L’economia morale, cit., pp. 120, 103.

(8) Ivi, pp. 98-99.

(9) Cfr. S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano 2004

 

*

Professore di English and Comparative Literature alla University of California Davis, Joshua Clover è autore di libri di poesia – tra cui Madonna Anno Domini (1997), The Totality for Kids (2006) e Red Epic (2015) – e di saggi di critica culturale – tra cui 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About (2009) e Roadrunner: A Film About Anthony Bourdain (2021). (Qui un frammento del suo panorama culturale di riferimento, in una “top ten” stilata per Ubu Web nel 2007.)

Riot Sciopero Riot (2016) è il suo primo intervento nel campo della filosofia politica, tradotto in italiano da Lorenzo Mari per la collana Culture Radicali di Meltemi nel 2023. In precedenza, Lorenzo Mari aveva tradotto anche #Misantropocene. 24 tesi (2014), testo poetico di Joshua Clover e Juliana Spahr per le autoproduzioni della libreria Modo Insfoshop di Bologna.

Presentiamo qui un estratto dal primo capitolo del libro Riot Sciopero Riot.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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