Per I Tolki di Ida Travi

di Daniele Barbieri

Otto anni*

Quasi otto anni sono passati dalla pubblicazione di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, e quindi certamente più di otto dalla sua ideazione. In questi otto anni i lettori di Ida Travi, anche quelli più fedeli, hanno ovviamente pensato anche ad altro. Pure l’autrice, non c’è dubbio, non si è occupata solo di questo. Però, altrettanto indubbiamente, il mondo dei Tolki ha dovuto essere centrale in lei, come una specie di ossessione che ritorna, che ritorna a parlare.
Chi ha mai visto Ida Travi recitare le proprie composizioni ha certamente presente quello stato di estrema concentrazione, occhi chiusi, voce come trattenuta rispetto al grido, una trasmissione di emozione fortissima da lei a noi. Voglio credere – e non penso di essere così lontano dal vero – che uno stato simile a quello caratterizzi i suoi momenti di creazione. Solo che non è lei a parlare a noi, in quei momenti; sono i suoi personaggi che parlano a lei: è Inna, è Katrin, è Dora.
In realtà non è detto del tutto che sia così, ma la sensazione è che, in tutti i componimenti, il personaggio che parla, che dice io, sia una donna. Gli uomini ci sono in questo mondo: anzi, se percorriamo i nomi di persona che attraversano tutti i cinque volumi, gli uomini sembrano essere maggioranza. Però sono coloro cui ci si rivolge; sono i compagni, gli interlocutori. La voce che parla è comunque femminile, come femminile è la sua attenzione ai dettagli, alla casa, all’ambiente, agli affetti.
Detto questo, Sunta non è Dora e non è Katrin e nemmeno Inna. Ciascuna di loro ha i suoi specifici problemi e le sue relazioni, e i suoi particolari sentimenti. Ma sono loro che noi possiamo percepire da dentro, con cui possiamo vivere quella loro esistenza che ricorda la nostra, eppure le è al tempo stesso differente, estranea. Gli uomini sono altra cosa: sono quelli che collaborano, che agiscono, che subiscono, che devono crescere. Ed è proprio la sensazione di essere a contatto diretto con queste vite sensibili che parlano da dentro, che parlano nell’emozione e nella quotidianità, a caricare di fascino il discorso.
Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro. Forse c’è stata una catastrofe, in passato, a marcare la cesura, come suggerisce Alessandra Pigliaru nelle sue note ai diversi volumi, o forse no. Di fatto ogni tanto si accenna ad automobili, al bus, allo schermo, elementi tipici della nostra quotidianità; ma non sembrano realtà centrali o importanti. Magari i Tolki sono solo una comunità un po’ isolata; magari il loro isolamento è solo psicologico. Eppure sembrano vivere una dimensione un po’ primitiva; o magari forse è solo che ciò che è più moderno fatica a entrare nei discorsi delle donne che si esprimono pagina dopo pagina. Ci sono i campi, l’insalata, l’asino, il bambino, la neve, la terra, il casolare, la campana, il vento, la farina, il lupo… Un mondo di campagna, insomma.
Però c’è comunque qualcosa che non quadra. Attraversa tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono. Questo grande non detto che traluce attraverso i discorsi del quotidiano è alla fine più forte di loro, e finisce per essere il tono complessivo, il mood attraverso cui il lettore percepisce ogni cosa.
I Tolki sono stati battezzati così perché sono esseri fatti di sola parola: they talk, insomma. Ma la parola, in generale, non consiste solo di quello che essa dice; è fatta anche di silenzi, di omissioni, di ripetizioni. E questo basterebbe per caratterizzarla in questo contesto. Se poi, però, abbiamo avuto la ventura di ascoltare anche il suono della voce dell’autrice quando recita i propri versi, ecco che la parola acquisisce pure una dimensione di fiato, di vento, di lontananza. Queste poesie sono piene di interlocuzioni: è come se ci fosse sempre qualcuno che si sta rivolgendo a qualcuno lì presente. Questo crea una fortissima sensazione di immediatezza, di essere lì, che tutto stia succedendo ora. La parola, quella che caratterizza i Tolki, quella che li fa essere, secondo la intrigante espressione lacaniana, dei parlêtre, non è la parola della poesia, e nemmeno quella della letteratura in genere: è scritta, ma suona come parlata; è pensata, ma suona come spontanea, presente, non meditata; sulla pagina è muta, ma ha ugualmente tono, suono, intonazione.
È per questo che questi versi si possono permettere di usare parole ormai difficilissime in poesia: luna, vento, cuore, fiore… Parole il cui abuso ha in generale reso banali, inutilizzabili. Gettate nel tempo presente di queste enunciazioni, pronunciate da persone che non sembrano poter avere nessuna consapevolezza di nessuna letteratura, straniate attraverso una sonorità diversa da quella che normalmente le accompagna, queste parole proibite riprendono vita, riprendono senso, trovano colore: insomma possono nuovamente essere dette, e le si dice senza nessun pudore, e senza aver ragione di preoccuparsene.
Questo è – io trovo – una delle prove della qualità della scrittura di Ida Travi: ridare alla poesia la possibilità di nominare i sentimenti, ridonando peso a parole che l’avrebbero perso – e che continuano altrove a essere deleterie, esteticamente devastanti, quando utilizzate senza le necessarie precauzioni.
Sicuramente, anche la natura incerta di questo mondo contribuisce a costruire il quadro di riferimento in cui queste parole riprendono la loro forza primitiva. Ho provato talvolta, leggendo i cinque libri della saga, la sensazione di essere una sorta di antropologo intento a studiare, magari a spiare, la vita delle persone che la abitano. Questi discorsi immediati, emotivi, profondi senza la volontà di esserlo, non si rivolgono a noi, ma a qualcun altro dello stesso mondo, a volte esplicitamente nominato: Olin, Zet, Katrin, Kiv. Per questo è come se li sentissimo un po’ per caso, come quando in treno o sull’autobus ci arriva all’orecchio una conversazione tra sconosciuti: il più delle volte essa è fatta di dettagli irrilevanti per noi; e invece di quando in quando ecco che qualcosa ci cattura: non conosciamo niente delle persone e delle situazioni cui si fa riferimento, ma c’è quel dettaglio di umanità comune che nella sua diversità ci tiene lì, ci interessa.
Se invece di essere una sola conversazione a catturarci, ve ne fosse un’intera serie, e collegate tra loro, ecco che finiremmo per cercare di ricostruire una rete di rapporti, di vite vissute, di modalità di relazione. Ci ritroveremmo insomma a tentare una sorta di ingenua antropologia. Che è proprio quella in cui, inevitabilmente, ci immergiamo leggendo questi libri. Chi sono i Tolki? Che relazione intrattengono con noi, con la nostra società? Indubbiamente essi ci sono simili; sembrano provenire, per certi versi, da qualche piega del nostro passato antropologico. Per altri versi tuttavia essi ci sono troppo simili per arrivare così da lontano. Siamo noi, insomma; o quasi-noi. Di nuovo: c’è davvero stata una catastrofe tra loro e noi? Stiamo davvero leggendo una sorte di Cronache del dopobomba? Probabilmente sì. Altrettanto probabilmente no. Forse è solo la tensione costante che pervade la voce che dice io a produrre la sensazione di un pericolo incombente, di una difficoltà costante.
Ma è così, ugualmente, che queste piccole vicende, nella loro banalità, diventano il tono della nostra stessa inquietudine, della nostra stessa quotidiana incertezza. Ed ecco che io posso essere Dora, Inna, Katrin… Posso sentire la bellezza delle piccole cose che colpiscono la loro attenzione, aver paura per il bambino, desiderare Usov, vivere insomma quelle vite un po’ come se fossero la mia.
Proprio in questo modo la saga dei Tolki finisce per assumere l’aspetto di un’epica. Non un’epica eroica e gloriosa, certo – ma qualcosa di glorioso comunque emerge in questa quotidiana resistenza vitale, in questo perseguire gli affetti, i piccoli doveri, le relazioni con il mondo circostante. Cinque volumi per esplorare il mondo dei Tolki possono apparire tanti, ma se ci si rende conto che si tratta di un’epica si capirà anche quanto sia necessaria un’immersione, una presa prolungata di respiro per riuscire a vibrare davvero con quella frequenza. Non l’eroismo vittorioso, ma l’inquieta persistenza è forse l’unico motore possibile di un’epica del presente, di un’epica in cui noi cioè ci possiamo veramente riconoscere, senza che qualcosa appaia falso, posticcio, eccessivo.
Per otto anni i Tolki hanno respirato e sussurrato con continuità nel presente della loro autrice, uscendo uno dopo l’altro alla luce del discorso, o rientrando per un po’ nell’ombra o nel silenzio della memoria. Adesso che l’autrice è forse uscita da questa fertile ossessione, potrebbe valere la pena ripartire noi da capo, rileggerci tutta la saga, riviverla da dentro nel suo respiro, nelle sue voci, nelle sue voci.

 

*In occasione dell’uscita de I Tolki, di Ida Travi, che raccoglie in un solo tomo di oltre 450 pagine gli otto volumi della saga omonima, ho pensato di riproporre qui la postfazione che avevo scritto, su invito dell’autrice, al quinto volume, Tasàr, che all’epoca sembrava dover essere l’ultimo. In seguito, inaspettatamente, ne sono usciti altri tre. Ma la mia postfazione alla saga, a parte qualche dettaglio cronologico, continua a esprimere quello che questo lavoro evoca in me. Gli anni non sono più otto, bensì quattordici, i volumi non più cinque, bensì otto, ma la sostanza evocativa non è cambiata, e i volumi successivi sono stati una sorta di naturale espansione dei precedenti.
Ora c’è il tomo complessivo pubblicato da Il Saggiatore. L’occasione per un’immersione totale, avvolgente, una discesa prolungata (o ricorrente) nell’oceano del mito, della parola dentro il mito.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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