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L

di Francesca Del Moro

È di altri la vita che ci resta.
È per proteggerli.
Lieve cura dire noi.

Noi superstiti.

 

 

Camminando
come con la febbre alta
ogni parola
mi spacca le labbra.

Penso come
la sua vita
si è versata.

Come mi è caduta
la sua vita
fra le mani.

 

 

Non rientro più in casa
ripetevo, mentre prendevano
il polso a mia madre.
Accanto a me, pallidissimo
le labbra dischiuse
era seduto mio padre.
La sua storia felice
la sua vita normale
gli erano scivolate
via dal viso
come il sangue.

 

 

Il suo sparire.

Dallo stato di famiglia
le detrazioni in busta paga
la dichiarazione dei redditi
il conto in banca
il sito dell’università
la rubrica del telefono.

Io che ratifico
firmo, confermo.

Il suo sparire.

 

 

Se davvero fossimo tutti
pensieri che qualcuno pensa
sogni che qualcuno sogna
come scrive il poeta
dell’inquietudine
allora lui vivrebbe ancora
sognato da me ogni notte
amato dell’amore più forte
pensato in ogni mio pensiero.

 

 

Mi riconosce, la commessa della Pam
mi dice non ti vedo da un pezzo
ribatto no son venuta spesso
lei insiste io svicolo e mi affretto.
“Hai figli?” mi chiede. “Prego?”
non capisco. Lo ha chiesto davvero?
“Hai figli?” ripete. “Non più.”
“Come?” è sorpresa. “Non più.”
Ha negli occhi lo spavento.
“Mi dispiace” balbetta.
“Mi dispiace, non sapevo.”
Le ho passato un po’
del mio terrore, lo faccio
sempre volentieri, ne passo
un pochino a tutti, giusto
un pezzetto, che nessuno
se lo merita intero.

 

 

Fosse fatta con le dita
l’arma che si è puntato contro.

L’avessi presa al volo
voltata verso l’alto.

 

 

Non compro più le candeline
nessuna torta dal disegno buffo
gli porto un mazzo di margherite.

Gli anni passano ma lui
ne ha ancora ventuno.

 

 

Mi pungono gli occhi
i loro cinque visi
anche loro conoscono
la lingua dell’indicibile.
C’è chi ci crede forti
chi ci tiene a distanza
chi ci chiede di far finta
che vada tutto bene.
Siamo esseri spezzati
– non abbiamo più l’anima
come qualcuno dice –
tenuti insieme alla meglio
da rimedi chimici.

 

 

Vorrei vederti
gli occhi da vicino
mi ha detto.
Gli occhi
sono lo specchio
dell’anima, si sa.
E lei vuole vedere
se l’anima l’ho ancora.

 

 

Mi piaci
dice lei generosa
sei più dolce, il dolore
ti ha forse cresciuta.
Io so di avere
gli occhi calmi di chi
ha deposto le armi
e non teme più nulla
si rincuora al sapere
che la guerra è finita
anche se l’ha persa.

 

 

Lui mi parla
con una tenerezza
che non gli conoscevo.
Forse la voglia
di un lieto fine dopo
la tragedia, forse i segni
di un amore postumo.
La morte a volte
cambia una vita intera
a qualcuno inventa
dei ricordi buoni
a qualcun altro
glieli toglie tutti.

 

 

Tra tutti noi ha fatto
il percorso più lungo.
Non piange, ha una luce
leggera nel viso
lo sguardo perso
verso l’infinito
sorride quando
parla di suo figlio
dice di aspettare
dalla morte la pace.

 

 

Quando è diventato
un angelo tuo figlio?
Mi chiede, straziante
tenerezza condivisa.
È già passato
un po’ di tempo
ma la parola precisa
insieme al loro nome
fa ancora spavento.

 

 

La signora
che qui fa le pulizie
mi guarda
in cima alla scala
e mi sorride.
Non so perché
ma oggi mi commuovo.
Ricordo
quando sono tornata in ufficio
con lo spavento
di essere ancora al mondo
nessuno al piano di sotto
mi è venuto vicino
a parte un uomo buono
che come me
aveva perso un figlio
e lei.

 

 

Il gruppo è vita.
Due volte al mese
sbendiamo la ferita.
La facciamo respirare
la guardiamo
mentre duole e sanguina
e impercettibilmente
si rimargina.

___________

I testi sono tratti da L di Francesca Del Moro (Gattomerlino, Roma, 2024)

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