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instamatic

di Mia Lecomte

Hay un tigre en la casa
que desgarra por dentro al que lo mira

(Eduardo Lizalde)

Numero nascosto, privato. Ma si può fare? Lo sapevo appannaggio di certe istituzioni. Un lusso del potere, insomma, qualcuno se lo può permettere. L’hanno fatto, ora. Ma chi, e perché?

Cerco con angoscia la risposta sulla faccia di questi due. Un uomo e una donna, a una prima occhiata totalmente sconosciuti. Me l’avranno mandata personalmente, la fotografia? Insieme, o uno solo di loro? Il fatto di non riconoscerli subito mi inquieta. Ma il peggio sta alle loro spalle: posano davanti alla casa dove sono nata e ho trascorso parte dell’infanzia. Casa mia, la prima. Da molti anni non sono più passata di lì, mi sono trasferita altrove. Ormai esiste solo nella distorsione del ricordo e in sogni ricorrenti, con orchi e assassini ad attendermi negli angoli più bui e la tavola da pranzo sempre apparecchiata.

Solo una fotografia, senza commenti, una firma. Tramite cellulare, messaggio con numero criptato. Una fotografia con due estranei mano nella mano, gli occhi fissi all’obbiettivo, l’espressione provocatoriamente neutra. E sullo sfondo, quella mia prima casa. Un piccolo condominio da cui il mattino uscivo assonnata nella nebbia: le scarpette tra le foglie sfatte, il montgomery aperto sul grembiulino bianco, l’incarto traslucido della focaccia nella tasca esterna della cartella. La casa dei primi Natali e del barboncino nero.

E questi due piazzati proprio fuori dal portone, nel mezzo. Piuttosto bassi, entrambi, la mezza età superata da poco.  Aspetto e abiti anonimi. Mi guardano insistentemente, mano nella mano, e non riesco a ricordare chi siano. Cosa stanno cercando di dirmi, cosa vogliono da me? Avverto solo la violenza del loro stare lì, insieme, la minaccia.

Uscendo dal cinema mi annodo la sciarpa e mi incammino verso la stazione della metropolitana più vicina. Infilo la mano in borsa per cercare il portamonete e un foglietto cade in terra. Mi piego a raccoglierlo.

Eccoli lì, ancora. Mi sollevo piano, con la fotografia tra il pollice e l’indice, la mano che mi trema. Sempre loro, vestiti allo stesso modo. Stavolta lui la tiene per la vita, lei gli poggia un braccio sulla spalla. Entrambi insistono a fissarmi.

La casa alle loro spalle però non è più la stessa. Non più la mia prima casa, stavolta hanno scelto quella dei miei nonni materni, in campagna. La casa dei raduni di famiglia e delle vacanze. C’è il piazzale con la ghiaia, tigli e castagni attorno, lo scalone che sale all’entrata principale. Loro due siedono in cima, su uno degli ultimi gradini. La stessa vacua intensità dello sguardo. Qualcuno mi deve avere infilato la fotografia in borsa durante la proiezione, oppure mentre entravo o uscivo dalla sala. Mi avvicino a una vetrina illuminata per osservare meglio i dettagli. Appoggiato accanto all’ingresso, c’è perfino il bastone che imbracciavo per andare a funghi con mia nonna. Chissà se lo sanno, questi due, che la nonna la mattina mi portava con sé a cercare funghi nel bosco. Se sanno delle partite a carte, delle canzoni e del minestrone.

Imperscrutabili, due sconosciuti, a quanto pare, tenacemente avvinti da un gioco che mi sfugge. Più mi guardano, più mi sento in pericolo. La mano di lui poggiata sul gradino di pietra è piccola, delicata. Al polso langue un vecchio orologio con il cinturino troppo largo, inabile al tempo. Lei è magrissima, il braccio sollevato evidenzia la gabbia friabile del petto, l’uccellino impagliato che vi è rinchiuso.

Non mi ero mai sentita realmente a mio agio in quel suo appartamento da scapolo seriale, la tela di un ragno bulimico intrappolato assieme alle sue vittime. Tutto pretendeva di essere lì in mio onore: il nudo a carboncino che lui diceva di aver comprato pensando a me, i fiori sulla cassettiera in camera, l’amaca nella terrazza. Ma c’era soprattutto la sua solitudine, palpabile, ad aspettarmi, e ugualmente, ovunque la mia assoluta estraneità. Come se fossi capitata sul set cinematografico sbagliato: Pinocchio tra i dinosauri di Jurassic Park, o viceversa un tirannosauro nel paese dei balocchi.

Chissà perché questi due ora hanno scelto proprio di piazzarsi nell’atrio di quella mia telenovela datata, accanto alla guardiola inutilizzata del custode, la porticina sghemba e polverosa.

Mi raggiungono dal volantino agganciato al tergicristallo della macchina che ho appena posteggiato fuori dalla farmacia. Di colpo sento freddo, salgo in macchina e richiudo la portiera. Appiano sul cruscotto il volantino recuperato, passo e ripasso il palmo della mano destra.

Se ne stanno lì in piedi, sempre nel mezzo, abbracciati, la faccia rivolta verso di me. Anonimi e solidali: l’accoppiata in vetta alla torta nuziale, vorticante nello scrigno carillon. Gli occhi a me, sempre a me.

Ho molto amato l’uomo che viveva nell’edificio in cui si sono introdotti, malgrado tutto, ancora mi capita di piangerlo. Qual è il legame con questi due, supposto che ce ne debba essere uno? Con che criterio scelgono i luoghi da cui affrontarmi? Ricordassi almeno qualche cosa di loro.  Ma forse quel che più conta qui è la parte, il ruolo a cui, come coppia, sembrano condannati: prigionieri dello zucchero glassato, nel loop del carillon. Con quello sguardo così osceno. E insieme straziante, il guaito di due cani tutt’occhi. Come posso placare il loro desiderio, alleviare tutta questa pena? Cosa posso, così spaventata che sono, se continuano a spaventarmi? Mi guardano, mi guardano. Mi gridano senza pace, all’unisono, dell’intimità violata. La mia e la loro.

Quando anni fa mi sono trasferita all’estero, avrebbe dovuto essere per qualche mese soltanto. Come spesso accade, non sono più rientrata. Nel frattempo, là da dove venivo è cambiata ogni cosa, la morte ha fatto visita a tutti quelli che più soffrivano la mia mancanza. Mi ha preceduta, come il lupo nel letto della nonna di Cappuccetto, e ora ad attendermi rimane solo un vuoto troppo grande – che orecchie, che occhi, che bocca… – malamente camuffato. Qui, intanto, mi sono fatta una vita. Si dice proprio così, come se ci fosse concesso fare altro.

Sul lungofiume, rientrando a casa, mi ritrovo a contare i corvi e i gabbiani fermi sulla spalletta. Ogni tanto mi fermo per approfondire la conoscenza di qualcuno meno pauroso. Inclina la testina, le penne in un’armatura vibrante, volta di scatto il becco verso il vento, l’acqua increspata dalla corrente. Gli alberi sono ormai quasi completamente spogli, posso seguire il corso del fiume fino al ponte di ferro all’orizzonte. Passato il mio portone, la luce gialla delle ultime foglie d’autunno è risucchiata dall’ombra. Un attimo di nero abbaglio e mi dirigo alla cassetta della posta. È un rito che ripeto ossessivamente ogni volta che rientro a casa, più volte al giorno, domeniche comprese. Ormai per posta ricevo solo quello che io stessa ordino in rete, pubblicità, qualche conto, ma mi è rimasta l’abitudine di quando, perennemente in attesa, correvo giorno e notte a controllare se il miracolo fosse avvenuto.

La chiavetta della posta per qualche motivo non funziona, gira a vuoto. Dallo spiraglio della buca intravedo qualcosa, cerco di arrivarci con la punta dei polpastrelli. Insisto, spingo, schiaccio le dita, incurante del dolore provo a distenderle, a fare presa con le unghie. Riesco ad agganciarlo. Esce strappato, un’orecchia piegata. A rovescio, l’immagine sull’altro lato del foglio. Lo giro con un gesto brusco, di scatto, per abbreviare il batticuore sfidando con finta sicurezza l’esito annunciato.

E subito confermato. Mi guardano. Nella mia cucina attuale, qui al terzo piano. Lei siede al mio posto, capotavola, di spalle alla finestra. Lui è in piedi accanto alla macchina del caffè, due tazzine pronte. Mi guardano. La luce dalla finestra si riversa sul tavolo bianco, le sedie di vimini, il pavimento a scacchiera. Irraggia i capelli di lei in un’aureola ambrata e riverbera sul vetro dell’orologio di lui, sui due cucchiaini argentati, il mestolo appeso al gancio, la maniglia del frigorifero. Un ordinario quadretto coniugale, cui la luce regala una pace pittorica.

Non so cosa fare. Se salire, rischiando di incontrarli. Oppure aspettare. O andarmene. Intanto, entro nel cortile e provo a sbirciare la mia finestra. Nessuna sagoma dietro il vetro, non giunge suono. Ma ora potrebbero essere passati in un’altra stanza. In bagno, una volta bevuto il caffè, o in camera da letto: fanno la doccia, si lavano i denti, si infilano sotto le coperte, spengono l’abat-jour, nel buio si girano, sbadigliano.  A me gli occhi, gli occhi sempre e comunque a me.

Cosa succederebbe se salissi e ci ritrovassimo realmente insieme? Aggiungerebbero una tazzina del caffè? Schiacceremmo a turno il tubetto del dentifricio, ci passeremmo il sapone? Mi sdraierei nel letto, tra loro, giusto il tempo di riaccendere qualcosa di perduto, per poi sporgermi a contemplare il fiume dalla finestra aperta del salotto, lontana dai sospiri?

Tutto è possibile. Molto più tragico, o molto meno. Anche niente. In ogni caso, sosterrebbero lo sguardo, se veramente ci guardassimo, se li potessi guardare davvero anch’io?

D’un tratto qualcuno dell’appartamento al primo piano apre la finestra per bagnare le piante. L’acqua comincia a sgocciolarmi sulla testa e mi sposto di nuovo nell’androne. Prima di rimettere il foglio al suo posto, rinfilarlo nella cassetta dove l’ho trovato, gli do un’ultima occhiata.

La coppia occupa la mia cucina di luce come una roccaforte, le quattro manine all’erta, pronte a difenderla senza alcuna pietà. Ma io non sono all’altezza di queste sfide, non lo sono mai stata. Sono solo capace di partire. Ripercorro in una carezza lenta la radio sul carrello turchese, accanto al quadernino delle ricette di famiglia, copiate da mia madre lungo gli anni. Il tostapane, e il bollitore, e la piantina di basilico. Lascio tutto quello che potrei ancora credere mio, compreso questi due.

Il portone si chiude, scatta alle mie spalle senza che l’immagine abbia il tempo di fissarsi in alcunché.

*

Mia Lecomte è autrice di poesia e narrativa, traduttrice e saggista. Nata a Milano da padre francese e madre italiana, ha trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza in Svizzera. Si occupa di letteratura transnazionale italofona, in particolare di poesia, alla quale ha dedicato il volume Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona, 1960-2016 (Cesati 2018). Tra i volumi in versi ricordiamo Lettere da dove (Interno poesia 2022), con una nota di Ugo Fracassa, e Al museo delle relazioni interrotte (LietoColle 2016), con una postfazione di Carlo Bordini. Tra le sue traduzioni verso l’italiano: Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio (Interno Poesia 2021). Il racconto “instamatic” fa parte di una raccolta inedita intitolata Diario sentimentale di una bambola gonfiabile e altri racconti. 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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