Contro il Tempo. La tradizione di Zolla e l’enigma dei nostri giorni

di Ludovico Cantisani

I.

 

Thomas Alexander Harrison, Solitudine, 1893, olio su tela, cm 105×171, Musée d’Orsay, Parigi

Fuori dal Tempo. È a un appiglio che non esiste più che ancora cerchiamo di sollevare gli occhi – al cielo.

La grande battaglia che si sta combattendo è quella per soggiogare il Tempo. Combattono nella lotta tanto i filosofi quanto i fisici, chi costruisce friabili mondi virtuali non meno di chi canta stonate elegie per un mondo scomparso. Sullo stesso fronte, senza accorgersene, stanno millenaristi e transumanisti, apocalittici e integrati. Se c’è qualcosa che accomuna la maggioranza anonima che guida i nostri giorni e le sacche di resistenza che pure si sono generate – è più retorica che altro -, è questa comune lotta al Tempo, un attentato orfano di bersaglio. Fuochi sull’acqua vengono accesi, ma quelle fiamme non fanno in tempo neanche a diventare cenere, in un attimo nobile e sterile affogate, spente.

Ciò che è virtuale non è solo un sintomo, è l’ipnotica prova dell’irreversibilità di quanto successo. Un risultato per il quale hanno congiurato le correnti più diverse dei secoli passati, e postume hanno coagulato un presente da cui scappiamo prigionieri. La grande evasione è a sua volta una cella, quando non ci sono più gli antichi porti dove approdare. Il virtuale non è bene, non è male: sembra destinato a soppiantare quello che restava del nostro mondo concreto, ma anche questo risultato è di difficile collocazione morale. Esito, exitus, out. Il virtuale inghiotte, è un animale, e nessuno ha mai biasimato un animale per nutrirsi da sé – è un pozzo che mette in chiaro la candida direzione della storia verso il suo annullamento, come avevano sognato gli antichi.

Quello di realtà era un concetto che già nel Novecento non poteva essere scritto che fra virgolette. Adesso è il punto di fuga supremo. Il carattere inedito dei nostri tempi non è dato “soltanto” dall’assenza di un dio, e di qualsivoglia altro piano trascendente su cui proiettare l’oggi, l’io, la crisi, lo Stato, e qualunque altro gran concetto di questa risma. Gettati fuori senza un dentro, scopriamo che il nostro tempo è connotato da questo Autoespellersi. Calvario senza croce, croce senza sudario. Ci siamo tirati fuori, ci siamo cacciati fuori – l’autentico crollo a cui è andato incontro il concetto di responsabilità è solo un indizio, la premonizione di un sommovimento più grande. Ci siamo tagliati fuori – la vita, questo Qualcosa, va avanti, ma senza di noi — volontari prigionieri di uno strano Purgatorio, abbiamo scelto di guardare la vita, le sue testimonianze, soltanto nel riflesso di un riflesso, la ricondivisione di un video senza autore, o una specularità che inquadra noi stessi in fuga dal vuoto. Puro occhio, puro specchio, pura superficie – in un sol colpo che pure è durato decenni, l’uomo si è castrato dell’azione, della creazione, e dell’abisso, della dannazione.

È difficile essere eredi, scriveva Nietzsche sul finire di un altro secolo. Difficile perché pericoloso, difficile perché soffocante, difficile perché – ancora una volta – sterile. Adesso, il quadro è cambiato. Non è più difficile – è impossibile, ma in un altro senso, perché una genealogia si è spezzata. Eredità di chi, in un mondo tutto figli senza padri? Eredità di che cosa, adesso che il concreto ci sta sfuggendo di mano, l’economia segue percorsi propri, e di valori manco c’è bisogno di parlare? Adesso, è difficile Essere, anziché stare e basta. Alla fine, non si aspetterà più l’eterno ritorno, dell’uguale, ma il ritorno dell’eterno, in un mondo che fu ugualmente miope al cospetto del suo precedente farewell.

Se mai ci fu un ambiguo Eden prima della storia, adesso ci muoviamo in marcia verso l’irridente spiaggia del Dopostoria. Non è una crisi, è molto di più: l’ingresso in un Eone inaudito, inaudito perché silenzioso, chino ad occultare le tracce del suo scoccare, a disperdere le coscienze che potrebbero cogliere tale passaggio. Al netto di qualche bonaccia i rottami di un Passato sul bagnasciuga, di tanto in tanto, continueranno per sempre ad arrivare, ma saremo, come Robinson ungarettiani, allegri naufraghi, anzi, rinati. C’è un mondo da rifondare, uno specchio da lucidare, un proliferare di copie da rifinire, interi universi virtuali da popolare. E siamo solo all’alba di una strana aurora: le implicazioni di questa mutazione di cui ora si scorgono i primi segni intangibili sono ancora tutte da scoprire. Senza la morte, è rimasto l’aldilà – in mancanza di meglio, ecco il mistero buffo del nostro tempo. Di che sei fatto tu, di qual sostanza? Che milioni di strane ombre ti seguono?

 

 

II.

Arno Breker scolpisce un busto di Ezra Pound

La stella cometa della tradizione è caduta da qualche parte nel Novecento. La pregnante bellezza del suo ultimo volo non lasciava comunque sfuggire agli occhi quell’amara tonalità da canto del cigno che, di decennio in decennio, sempre più ha stretto la prosa degli ultimi indagatori del sacro. Heidegger, Benjamin, Eliade, Guénon, De Santillana, Jünger, Jung, Jaynes, Hillman, Zolla, Calasso, Battiato – una costellazione, parziale, di nomi, sbocciata poco dopo che Eliot, con il suo the nymphs are departed, inaugurasse nelle lettere l’inquietudine della secolarizzazione — una consapevolezza radicalmente diversa, eppure gemellare, all’estasi del vuoto scorto da Nietzsche.

“Ascendiamo il monte Ventoso della storia e guardiamo il disegno che si rivela da quella grande altezza; i particolari non si discernono più, vediamo alternarsi ciclicamente l’una all’altra civiltà basate sul commento d’un testo sacro tremendo e fascinoso, che non tanto è letto e giudicato quanto legge e giudica chi lo accosti, e civiltà prive d’un testo, apparentemente fondate sul culto della critica. I cicli sono millenari”. Così iniziava Che cos’è la tradizione. Un’idea decisiva nell’ampio mareggiare della storia umana, reazione allergica al sessantotto in forma di libro a firma di Elémire Zolla: un’opera che non attende un ritorno, ma che traccia cartografie generali dell’esperienza umana del sacro e della conoscenza. Diagnosi sibilline imputano all’assenza della tradizione la “perdita del fine”, la “tirannide delle parole”, ma anche “dei gruppi”, in un tentativo, orgoglioso e al tempo stesso conscio dei suoi limiti, di stare “al di sopra della mischia”, in un salto alla Cavalcanti delle gravità del presente, di quel presente – era il 1971 quando il libro uscì, e a quei tempi la Storia non era ancora data per morta, non da tutti almeno — il Secolo non si era ancora abbreviato a Berlino.

Via dal Novecento – lo sguardo di Zolla si ribalta all’indietro di millenni, e si sarebbe spostato anche in avanti di decenni, in quelle riflessioni sulla realtà virtuale che costellarono l’ultimo decennio della sua vita cosciente. “Ogni cosa”, leggiamo in Che cos’è la tradizione, “si spiega ritraendola alle sue origini, e all’inizio d’ogni opera umana scopriamo un rito, sicché l’esclamazione di Faust si salva purché completata: «All’inizio fu l’Azione – rituale»”. Riscoperta, la tradizione è un meccanismo ermeneutico, una machine à penser, un biglietto di sola andata verso l’Origine che smaschera l’entroterra sacrale da cui sorgano le più variegate manifestazioni della società di quegli anni, per la prima volta deliberata nel mettere il sacro alla porta.

È un perenne à rebours. “Ciò che oggi è macelleria fu immolazione ieratica, ci che è matrimonio fu ierogamia, ciò che è gara fu riesumazione religiosa della lotta perenne tra gli opposti, ciò che è guerra o azione in giudizio fu tenzone cerimoniale e ordalia, la ginnastica e gli esercizi acrobatici nei primordi espressero mimicamente il cammino e i risultati della contemplazione, il commercio nacque come cerimonia di donazioni contrapposte, il danaro come amuleto”, scrive Zolla in un elenco infinitibile. Tutto è Rito: persino il freudismo più spiccio potrebbe trovare qui insospettato compimento, e scoprire, nella convergenza tra rito e coito, rimanenze misteriche esperibili ancora oggi – ma andando ben al di là, e ben più a fondo, di ciò per cui oggi è scambiata la sessualità.

Tutto è rito anzi tutto fu rito, e adesso che i riti tradizionali impallidiscono in un progresso che non perdona quello che un tempo chiamavamo sacro ritorna in forme sclerotizzate ma pur sempre rituali. Proprio gli studi di Freud sui tic, le piccole manie, certe superstizioni che, etimologicamente, ancora sopravvivono, possono essere letti come le dimostrazioni che lungo un albero creduto morto qualcosa resta ancora – qualcosa di difficile definizione, per non parlare di circoscrizione. Ma a questo punto non si può peccare di ingenuità né di idealismo – tra i pochi peccati rimasti, dopo l’estinzione dei carnali: bisogna spezzare l’antico nesso tra sacro e buono, come la stessa fiaba oscura che chiude il saggio di Zolla insegna.

“Accetta tutto con socialità, senza rinchiuderti nel tuo individualismo sterile. Dobbiamo costantemente progredire verso nuove forme. Non ti va la parola progresso? Diciamo sviluppo. Vedi che ti vengo incontro. Il corpo come l’hai conosciuto finora non può continuare a esistere. La stella a cui guardiamo, l’utopia e la speranza ci sollecitano a un’invenzione costante di nuovi valori, a una scelta inquieta e sofferta di sensazioni e di possibilità nuove”. Che cos’è la tradizione termina con una fiaba amara, La casina nel bosco, la storia di un Ognuno che, smarritosi nel fitto di una foresta durante un temporale, pensa di trovare rifugio in una casetta dove scopre un vecchio intento a torturare “un uomo simile a lui” tenuto in catene. Il sermone del vegliardo pare scimmiottare discorsi ripetuti senza fine nei peggiori gulag e in tutti i regimi ideologici, ma in tale enfasi di predicazione cieca non si può non scorgere, andando indietro nei secoli, torture analoghe inflitte dai predicatori religiosi agli eretici, e, tornando a prima ancora e cambiando un po’ il linguaggio, quello che subirono i martiri cristiani dai persecutori romani. La granitica difesa della tradizione portata avanti da Zolla per tutto il libro scricchiola, un’intuizione ancora più profonda si fa strada in questo epilogo narrativo: è la vittoria della verità della parabola sulla forma-saggio, e la problematizzazione del sacro colto nella sua facie efferata.

 

III.

Immagine realizzata con dall-e mini

Nudi, di fronte a un insistente mistero. Incolumi, di fronte a un’apocalisse che non ha cancellato la vita dell’uomo, ma il precedente senso del suo stare al mondo. C’è, ci può essere un senso della vita oltre il sacro, eppure non è questo ciò che il Contemporaneo ricerca. Il Contemporaneo cerca un nuovo spazio sociale, composto da reti più che da azioni, il Contemporaneo vuole un ininterrotto presente, quell’attimo faustiano prorogato sine die in un piacere che non è un godere, il Contemporaneo cerca una sterminata domenica, priva di responsabilità, di simboli – forse anche di conseguenze, di azioni. Festa senza malinconia, corrida senza trofeo, sogno senza risveglio – mondo a una dimensione, la quarta, che risucchia via le prime tre — cancella anche i criteri di valutazione per questa metamorfosi, va oltre la decadenza, oltre la rivoluzione, oltre ogni banalizzazione che se ne potrebbe trarre, oltre le parole e le diagnosi stesse.

Il Contemporaneo cerca e vuole e ottiene la sua stessa cancellazione, il salto carpiato dalla realtà, l’assorbirsi del mondo tangibile in un nuovo mondo, un oltremondo. Le Immagini tornano a fluire, momentaneamente incapsulate in dispositivi che ancora le intrappolano, presto pronte anzi già accingentisi ad apparire come evocazioni, ologrammi, nuovi spettri amletici. Tentacolare tecnologia che illumina la notte oscurando le stelle, non c’è più spazio né per pensare né per agire, una sradicatezza che distoglie l’uomo dalla terra proiettandolo verso un nuovo mare, più colorato di quello omerico. Se questa è una fine resta pur sempre un’eutanasia. Si è perduto anche il senso della nostalgia. Proust è inerme – resta soltanto una nostalgia della nostalgia.

Tra le pagine più estreme di Che cos’è la tradizione spicca il capitolo Che cos’è il satanismo, dove Zolla racconta di un “Satana che “agisce nel tempo, ma come chi stia all’orlo d’un fiume e ne lambisca le acque”. Se ci si vuole addentrare come i cantori antichi delle saghe omeriche o del Beowulf “nell’essenza del male” l’unica via è quella che si trova passando il bosco, “uscendo fuori dal tempo” – ma “come riferirne a chi non abbia abbandonato lo spazio quotidiano” per “far sì che sospenda per un momento la forza narcotica della vita comune?”.

Adesso non c’è più la vita comune – c’è al limite una vita omogeneizzata, i grandi momenti collettivi, a parte i concerti di qualche pop star che pure deve a quella dimensione il perdurare della sua allure, sono tutti filtrati attraverso il grande medium digitale, che si appresta al salto definitivo nel virtuale. Il virtuale non è il satanico, che Zolla individuava in chi canta l’innovazione a tutti i costi, l’eversione delle forme, la “canzone della Grande Attesa” secondo cui “si sarebbe alla viglia di un mutamento radicale” – se mai, su questa falsariga, il satanico starebbe in certi interpreti e propugnatori dei nuovi media, non nel virtuale come nuova dimensione esistenziale.

Se mai e ancora una volta, è nel digitale e ancor più nel virtuale che si può arrivare a scorgere il paradosso della secolarizzazione, dacché è in questo nuovo mondo sviluppato dall’uomo ma già sfuggito al suo controllo come in una cosmogonia gnostica che si possono scorgere i confini di un nuovo iperuranio, il divinizzarsi di personalità intangibili invocate da milioni di ammiratori e seguaci, la versione pallida e despiritualizzata di quei futuri titani che Jünger scorgeva nel tempo ultimo della vecchiaia, l’eterno e subdolo ritorno degli archetipi anche millenni dopo che quegli dèi in cui a un primo sguardo si incarnarono erano stati decretati vuoti simulacri. “Conoscenza tradizionale è quella che rifiuta di lasciarsi chiudere nella prigione della storia e della società”, scriveva Zolla – quella che in una perenne metamorfosi scorre di secolo in secolo, si incarna, nascosta, in stemmi poesie quadri chiese film statue sotto gli occhi di tutti, quel ghigno esoterico che avvolge l’Occidente andando ben al di là di occultismi e complottismi, e che in Zolla ha trovato uno dei suoi interpreti terminali.

All’origine il rito, alla fine – all’esito? al compimento? all’outcome? – il virtuale: non sarà mai che le religioni, scomparendo, ci hanno lasciato eredi di un figlio ribelle?

***

Il saggio di Elémire Zolla Che cos’è la tradizione. Un’idea decisiva nell’ampio mareggiare della storia umana, edito originariamente da Bompiani nel 1971 e passato anche per le edizioni Adelphi, è stato recentemente ripubblicato dalla Marsilio, nell’ambito dell’edizione definitiva dell’opera omnia di Zolla curata da Grazia Marchianò

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1 commento

  1. Colgo sempre, in questo genere di riflessione apocalittica e integrata sulla fine della storia, della tradizione, della memoria, dello sviluppo verso qualcosa piuttosto che verso un Nulla mistico per posa più che per sostanza, un di troppo eurocentrico, biancocentrico, giovanilisticamentecentrico. E’ un pensiero affascinante e molto mainstream, come si dice, che vede l’uomo animale inferiore agli altri animali, più cattivo del lupo cattivo. Si respira un’aurea auratica di animabellettrismo che mi irrita vieppiù, perché posa, comoda per chi può permettersi di godersi il presente nel nostro hit et nunc virtuale quando fa comodo, reale quando fa più comodo. Si legge si scrive si mangia e si beve, di continuo, come se fosse tutto parte del Benessere del nostro Nosocomio elitario, dove troppi vecchi rimbecilliti e violenti e pochi giovani splendidamente viziati dalle troppe mamme zie nonne e babbinigeppetti pensano e scrivono filosofando cioè generalizzando (mentre il proletariato e il sottoproletariato, muto, degrada verso il nulla della descolarizzazione). Invece la storia c’è eccome: le donne afghane non sono nel nostro vizioso vuoto di storia, così come è storia, hitlerianissima, il genocidio di Israele ai danni dei palestinesi, così come è storia la ormai pluridecennale migrazione di massa dall’Africa resa invivibile dal clima che cambia ma soprattutto dalla storia dello sfruttamento coloniale, altro genocidio. Genocidi un po’ dappertutto di cui qui, semplicemente, dopo uno sgurado al virtuale, realmente ce ne freghiamo (termine fascista attualissimo). Gioverebbe ai giovani pensatori, artisti, baby maitre a penser, un po’ di sana prospettiva globale. E molto meno autocompiacimento nel deliberare la fine di tuttto quello che di cattivo, ma anche di buono, la cultura occidentale ha fatto, con o senza Dio. E lottare perché il buono continui anche in continuyità con storia, memoriua, tradizione ecc.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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