La staffetta

di Federica Grasso

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

C’erano poche certezze nella vita della piccola Lidia, ma di una cosa era sicura: sua sorella era diventata antipatica. Non giocava più con lei e non le raccontava più alcuna storia.

Nives aveva ben dodici anni più di lei ed era molto coraggiosa. Quando i loro genitori litigavano e la faccia di suo papà diventava tutta rossa e gonfia, Lidia correva sempre da sua sorella. Nives le raccontava una storia, per farle smettere di pensare alle vene del collo del papà, che vibravano tanto da sembrare sul punto di esplodere. Lei non si spaventava mai quando i loro genitori urlavano, diceva di essersi abituata. Lidia, invece, credeva che non sarebbe mai stata in grado di farlo. 

Non si dovette abituare, però, perché suo papà fu chiamato in servizio e non torno più a casa. Sua mamma ora era molto più severa e sgridava lei e Nives per tutte le piccole cose, soprattutto quando non si rifacevano il letto la mattina. Nives si svegliava sempre tardi ed usciva di fretta, lasciando tutte le coperte intrecciate tra loro. A volte era Lidia stessa che le sistemava come poteva, perché non voleva che la mamma si arrabbiasse. Quando Nives tornava a casa e trovava il letto in ordine, l’abbracciava stretta e le diceva che era la sorella migliore del mondo. 

Tuttavia, la vita per Lidia era diventata ormai noiosa. Non aveva più il permesso di fare nulla e le regole da rispettare sembravano aumentare di giorno in giorno. Era assolutamente vietato parlare con le persone che non si conoscevano, soprattutto con i soldati. Non poteva mai camminare per strada da sola senza tenere la mano della mamma o di Nives e, ancora peggio, non le era più permesso giocare con Anna, la sua vicina di casa. La mamma diceva che i suoi genitori erano cattivi, perché stavano dalla parte sbagliata, e che era pericoloso farsi vedere insieme a loro. Nives discuteva spesso con la mamma per questo, le diceva che non capiva niente di cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, ma Lidia non voleva essere sgridata e mandata a letto senza cena, perciò obbediva senza fare obiezioni.

Pochi mesi prima, Lidia, dopo aver passato tutto il pomeriggio a giocare con Marta, la sua bambola di pezza, era andata in cucina per chiedere alla mamma se c’era qualcosa da mangiare. Aveva trovato Nives che l’abbracciava stretta, accarezzandole la schiena. In mano stringeva una lettera.

Nives la guardò appena quando le disse che suo fratello non sarebbe più tornato, mentre gli occhi di sua mamma sembravano un ruscello. 

Per essere del tutto onesti, Lidia non è che si ricordasse bene suo fratello. Nella sua memoria era solo un gigante che le rubava il cibo dal piatto. Non lo vedeva da quando era partito per il fronte. Non sapeva bene dove fosse questo fronte, perché la mamma e Nives erano sempre molto vaghe quando lei glielo domandava. Però se suo fratello aveva deciso di rimanerci doveva essere un bel posto e quasi lo invidiava. Anche lei se ne sarebbe andata volentieri di lì, da quando non poteva giocare più con Anna si annoiava a morte. 

Quella sera, mentre mangiavano la misera cena, sua mamma disse che almeno suo fratello se ne era andato con onore, combattendo per una buona causa. Quella fu la prima volta che Lidia vide Nives arrabbiarsi sul serio, come un’adulta. Aveva stretto con forza il cucchiaio che aveva in mano e il suo volto si era oscurato. “Non riesco a credere che dopo tutto ciò ho ancora una madre fascista” aveva detto, fissando la mamma dritta negli occhi.

Lidia pensò che così seria faceva paura. Dopo quell’episodio, Nives e sua madre non si parlarono per giorni. 

Nives aveva smesso di giocare con Lidia e di essere allegra. Ora si svegliava prima la mattina e passava tanto tempo seduta alla scrivania. Apriva un libro pieno di parole che Lidia non era ancora in grado di leggere e stava ferma lì, muovendo solo di tanto in tanto la penna su dei fogli che aveva accanto. Aveva sempre il volto imbronciato, con la fronte piena di rughe per la concentrazione. 

In passato, Nives aveva cercato di insegnarle a leggere. Diceva che le sarebbe servito di allenamento per quando avrebbe cominciato a lavorare come maestra, una volta finita la scuola. Lidia fingeva di annoiarsi, ma in realtà si divertiva a recitare la parte della cattiva scolara. 

“Mi insegni a leggere?” chiese alla sorella, porgendole un foglio e sperando che Nives ci scrivesse sopra qualcosa, come soleva fare. 

“Ho da fare, Lilly, gioca un po’ con Marta” le rispose, senza nemmeno guardarla. 

“Marta non ha più un occhio” borbottò Lidia, tornando a sedersi sul suo letto. La bambola di pezza giaceva accanto al letto, con la testa rivolta verso il pavimento. Da quando le si era staccato il bottone nero che aveva al posto dell’occhio, Lidia non si divertiva più a giocare con lei. Aveva già chiesto sia alla mamma che a Nives di riparargliela, ma loro si dimenticavano sempre. 

Un pomeriggio, Nives entrò in camera con un odore diverso addosso. Era sgradevole, pizzicava la punta del naso di Lidia e le entrava in gola. Aveva le trecce scomposte e le guance rosse.

“Che puzza” commentò, avvicinandosi alla sorella per annusarla.

Nives le rivolse uno sguardo che Lidia non seppe interpretare. Si tolse in fretta i vestiti, rimanendo con solo la sottoveste indosso. Li annusò, poi le disse con voce tirata: “Ma no, hanno il loro solito odore”. 

A cena, sua madre chiese a Nives perché aveva lavato di nuovo i suoi vestiti. Si erano finiti di asciugare appena il giorno prima. 

“Tornando da scuola sono inciampata e mi si sono sporcati di terra” rispose Nives, senza alzare la testa dal piatto. Lidia non ricordava la presenza di alcuna macchia, ma non disse niente. 

Quel mercoledì, come ogni settimana, Lidia accompagnò sua madre a casa della signora con i bei vestiti. Era una signora ricca, che viveva in una delle case più grandi della città e che indossava sempre abiti eleganti dai colori accesi. Quel giorno ne indossava uno di un viola vibrante. 

La mamma andava da quella signora a ritirare dei panni da lavare e da stirare e riconsegnava quelli della settimana precedente. La signora in cambio le dava dei soldi. La mamma diceva sempre che era una tirchia e che per tutto il lavoro che faceva avrebbe dovuto ricevere qualche soldo in più, però ogni settimana si presentava puntuale alla porta della signora ben vestita. Era l’unica signora rimasta che aveva ancora panni da stirare. 

Al ritorno, la mamma si fermò alla Basilica di Santa Maria Assunta per fare una preghiera. Lidia odiava pregare, le faceva male alle ginocchia ed era noioso. La mamma sembrava diventare una statua, con gli occhi chiusi e le mani congiunte, non cambiava posizione finché non aveva finito. Pregava Dio che lei e Nives rimanessero sempre in buona salute e che la guerra finisse presto. Lidia, invece, aveva chiesto a Dio solo che sua sorella ricominciasse a giocare con lei.

Quando uscirono dalla Basilica il sole stava cominciando a tramontare. Le giornate di fine maggio erano più lunghe e stava cominciando ad essere di nuovo piacevole stare all’aria aperta. A Lidia sarebbe piaciuto poter fare una corsa, ma la mamma le teneva stretta la mano.

Su delle panchine lì di fronte erano seduti quattro vecchi, che discutevano con foga. Uno di loro indossava degli occhiali e aveva un giornale in mano. “Smettetela di parlare, ignoranti che non siete altro, non riesco a concentrarmi” disse, mettendo a tacere gli altri tre. “E tu smettila di fumarmi in faccia, mi stai affumicando” aggiunse, rivolgendosi al vecchio con una sigaretta in mano.

Quello alzò gli occhi al cielo, ma volse il volto dall’altro lato. “Pensa a leggere, che se continuiamo così per quando farà buio non avremo ascoltato nemmeno la prima pagina. Voglio sapere che cosa è successo a Forni di Sotto[1], ho sentito che hanno fatto saltare una mina”.

Passandogli accanto, a Lidia sembrò di riconoscere quella puzza. Era la stessa che aveva impregnato i vestiti di Nives. 

Lidia sentì bussare con forza alla porta di casa e vide Nives affrettarsi alla porta d’ingresso. Lidia la seguì, fermandosi in corridoio, seminascosta nell’ombra.

“Hanno bombardato Grado[2]” disse la ragazza minuta a cui Nives aveva aperto la porta. Aveva il viso pallido, ricoperto di lentiggini, e capelli chiari raccolti in una crocchia. “Pare che molti superstiti verranno accolti qui. Alcuni dovrebbero arrivare già in serata”.

Nives annuì. “Cercherò di esserci” le disse. “Non ti prometto niente per stasera, ho un messaggio da consegnare, ma domani non mancherò”. Si scambiarono un abbraccio veloce e la ragazza minuta se ne andò. Lidia tornò nella sua stanza prima che sua sorella la notasse. Se l’avesse vista si sarebbe sicuramente arrabbiata.

A cena, sua mamma aveva il volto corrucciato e con le dita sottili arricciava un fazzoletto.

“Si può sapere dove sei stata tutto il giorno? E dove vai tutti i pomeriggi in cui sparisci?”

La voce della mamma tremolava, mentre Nives non aveva l’aria di essere turbata. “Studio con le amiche”.

“Non dire bugie. Mi hanno detto che ieri sei stata dagli sfollati”.

“Ho dato solo una mano” rispose Nives. Il tono era più duro, sulla difensiva. “Quelle persone hanno bisogno di aiuto. I prossimi potremmo essere noi”.

La mamma scosse la testa. “Non ti rendi conto a che rischi vai incontro?”.

“Faccio solo quello che è necessario”.

“Mi hanno detto anche che ti hanno visto andare in giro in bicicletta da sola per i campi. Che ci facevi lì?”

“Che fai, mi spii?” rispose Nives, di ghiaccio.

“Rispondi alla mia domanda”. La mamma era seria, sembrava molto arrabbiata.

“Stavo solo facendo un giro”.

“Non mi sembra il caso di fare giri. Non con tutti gli attacchi di quei balordi che ci sono di questi tempi. Non voglio più scoprire che vai in giro per i campi.”

“Quei balordi stanno solo tentando di salvarci la pelle” rispose Nives, alzandosi da tavola, senza lasciare a sua mamma la possibilità di dirle più niente.

“Cosa vuoi?” le chiese Nives, senza alzare lo sguardo dalla sua bicicletta. Stava controllando una ruota che si era sgonfiata. 

“Ti va di giocare?” 

“Non ho tempo, sto lavorando”. 

“Dopo che hai finito”. 

“Dopo ho da fare”.

“Che devi fare?”

“Niente”.

“Allora puoi giocare con me”. 

Nives sbuffò. “Niente che ti riguardi”, aggiunse. 

Lidia si accovacciò sulle ginocchia, fissando anche lei il buco sulla ruota della bicicletta. Più che un buco era uno squarcio. Stette in silenzio per un po’, osservando la sorella. Pensò che era diventata proprio antipatica. Aveva sempre da fare, ma non le diceva mai cosa. 

“Questa non la posso riparare da sola” borbottò Nives tra sé e sé. Aveva il volto corrucciato. “Vai da mamma” disse poi a Lidia, cominciando a spingere la bicicletta verso la via che portava alla strada principale. 

“Mamma non c’è” rispose Lidia con un ghigno contento. Si alzò e corse accanto alla sorella, che alzò gli occhi al cielo. “Cerca di stare al passo”.

Lidia annuì e cominciò a trotterellare al fianco di Nives. Non imboccarono il bivio verso il centro della città, ma presero una strada che andava verso le campagne. Bastarono pochi metri perché Lidia si pentisse di aver pensato che sarebbe stato divertente. La strada divenne in salita e faticosa da percorrere. Le facevano male le gambe, ma non disse niente. Sua sorella aveva il fiatone e la fronte gocciolante per il sudore. La ruota a terra rendeva la bicicletta più pesante. 

Lidia per passare il tempo si mise a contare ad alta voce. Ogni tanto dimenticava qualche numero, ma Nives glielo suggeriva. Altre volte faceva finta di dimenticarseli solo perché la sorella scuotesse la testa e con un sorriso, tra uno sbuffo e un altro di fatica, le dicesse quello giusto, come in quelle mattine lontane in cui giocavano alla scuola.

Erano quasi arrivate al numero cento quando Nives si fermò di fronte ad una casetta che nel giardino aveva un piccolo orto. C’era un gatto tigrato di fronte alla soglia e Lidia si accucciò per accarezzarlo. Avvicinò la manina e aspettò che il gatto la annusasse, così come le aveva insegnato la mamma. 

Nives bussò alla porta. 

“Chi è?” chiese una voce di ragazza. 

“Circe” rispose Nives. 

La ragazza aprì in fretta la porta. “Che ci fai qui a quest’ora?” le chiese. 

Nives le indicò la bicicletta. “Ho bisogno che sia riparata entro domani mattina. Io ci ho provato ma il buco è troppo grande”. 

Lidia distolse l’attenzione dal gatto ed osservò la ragazza. Era la stessa ragazza minuta che aveva bussato alla loro porta. Stava analizzando la ruota posteriore della bicicletta, scuotendo la testa più e più volte. 

“Ma come hai fatto a ridurla così?” 

Nives alzò le spalle. “A saperlo. Penso per un sasso”. 

“Mio fratello torna a casa tra qualche ora, ma sarà già buio. Non sono sicura che riuscirò a fartela avere per domani mattina”. 

Nives aveva l’aria molto preoccupata. “Questo è un problema”.

“E se invece andassi io dai ragazzi?” 

Nives le lanciò un’occhiataccia, facendo cenno appena percettibile verso Lidia. “No, è più sicuro che vada io. L’ho già fatto”. 

“Ti do la mia bici” disse allora la ragazza. Sparì sul retro della casa e tornò con una bicicletta tutta arrugginita. “Cercherò di farti avere la tua per domani mattina, ma se non dovessimo fare in tempo usa questa”. 

Nives annuì, prendendo la bici che la ragazza le offriva. “Grazie Aquila, ti sono debitrice” le disse, prima di far salire Lidia sul portapacchi della bicicletta e pedalare via. Lidia era un po’ perplessa. Aquila era proprio un nome strano per una ragazza. 

Il sole era appena sorto e Nives camminava avanti ed indietro per la stanza, lanciando costantemente occhiate verso la finestra. Poi verso l’orologio. Poi di nuovo verso la finestra. Lidia stava seduta nel suo lettino, ancora sotto le coperte, e sistemava il vestito di Marta. Sua mamma, dopo tante preghiere, l’aveva riparata. Ora aveva due bottoni di colori diversi al posto degli occhi, uno nero ed uno marrone, ma Lidia la trovava ugualmente carina.

Nives si sciolse i capelli e cominciò di nuovo a legarli in due trecce. Si allisciò la gonna e sistemò la camicetta, senza perdere mai di vista la finestra.

“Aspetti la bici?” le chiese Lidia. 

Nives si volse verso di lei con occhi sbarrati. “Come dici?” 

“La bicicletta” ripeté Lidia. “Quella di ieri”. 

Nives scosse la testa, con un sorriso tirato. “Ma no, non sto aspettando lei, sono solo preoccupata per la scuola”. 

Guardò di nuovo l’orologio e si decise ad uscire. Quando Lidia non poté più sentire i passi della sorella nel corridoio, prese la sedia della scrivania e la trascinò fin sotto la finestra che sua sorella fissava tanto. Si affacciava sul retro della casa, dove Nives lasciava la sua bici. 

La vide trafficare con la vecchia bicicletta della sua amica. Non era una bella, era sporca di terra, piena di ruggine e il sellino era spellato. Incuriosita, decise di raggiungere la sorella. Si avvicinò in silenzio, guardandola perplessa. Nives aveva parzialmente svitato il manubrio e con un movimento veloce aveva fatto passare un foglio di carta dalla tasca alla canna della bicicletta. Poi inserì di nuovo il manubrio e lo riavvitò in fretta, controllando che fosse ben fissato. 

“Che fai?” chiese Lidia. 

Nives sobbalzò, facendosi scappare un gemito dalle labbra. “Che ci fai qui?” chiese a Lidia, scurendosi in volto. 

“Ti guardavo”. 

Il sangue sembrò defluire dalle guance di Nives. “Torna in camera” le disse. “La mamma si arrabbierà se scopre che stai fuori a piedi scalzi. Io sono in ritardo per la scuola”.

A Lidia sembrò che fosse molto presto per la scuola, ma d’altronde lei non lo poteva sapere, perché a scuola non ci andava. Però Nives aveva ragione, la mamma si sarebbe arrabbiata se l’avesse scoperta a stare fuori senza scarpe. Aveva l’orlo della vestaglia da notte bagnato per la rugiada mattutina, proprio come i suoi piedi nudi. Aveva anche un po’ freddo, così decise di obbedire e di tornare in casa. 

“Lidia” la chiamò Nives, già in sella. “Ti voglio bene” le disse, prima di pedalare via. 

Era ormai sera tardi, ma Nives non era ancora tornata a casa. “Ma dove si sarà mai cacciata?” ripeteva la mamma, torcendosi le mani. Era passata ormai da tempo l’ora di cena e Nives non era mai rimasta fuori fino a tardi senza avvertire prima. Non era da lei. “Vai a dormire” le disse la mamma, facendole cenno verso la sua stanza. “Vado a cercarla”.

Lidia obbedì senza obiettare e con le sue gambette corte corse in camera. Si infilò la veste da notte, ma, invece di andare a letto, si affacciò alla finestra. Vide sua mamma scomparire nel buio, camminando a passi piccoli e veloci. Era una notte senza luna e senza stelle. 

Lidia si strinse Marta al petto, accarezzandole i capelli di lana. Si infilò sotto le coperte canticchiando una canzoncina che le soleva cantare Nives quando era più piccola, per riempire lo spaventoso silenzio della casa vuota. Non era mai stata a casa da sola prima di quel momento. Era abituata a sentire il respiro di Nives provenire dal letto accanto al suo. Ogni tanto russava anche. Lidia lo aveva sempre trovato fastidioso, ma ora si rendeva conto che tutto quel russare scacciava gli incubi. 

Infilò la testa sotto le coperte, facendo ben attenzione che non fosse lasciato nemmeno uno spiffero che potesse permettere l’accesso ai mostri della notte. 

Chiuse gli occhi e cantò più forte. 

Za jo viôt lis lagrimutis
di chel agnul a spontâ
e, bussànt lis sôs manutis
jo ‘i dîs: “mi tocje lâ”[3].

Lidia si svegliò che il sole era già alto. Era domenica e non doveva andare a scuola. Guardò verso il letto di Nives, intatto. Sua madre di tanto in tanto gli cambiava ancora le lenzuola, perché fossero sempre fresche. Lo faceva anche con il letto di suo fratello, nell’altra stanza. 

Ormai erano solo loro due in casa. Lidia cercava di non pensarci troppo, perché ora che andava a scuola aveva tante nuove amiche, ma non era bello stare in casa solo con la mamma. Non sorrideva mai e sembrava molto vecchia e stanca. Ora camminava sempre con le spalle curve e metteva solo vestiti dai colori molto scuri. A volte di notte, quando non riusciva a dormire, poteva sentire dei singhiozzi provenire dalla sua stanza. In quelle occasioni andava in camera sua e si metteva nel suo letto e la mamma non piangeva più, ma la stringeva forte. 

“Sei pronta?” le chiese la mamma entrando in camera. 

Era il 5 maggio e quel giorno avrebbe dovuto essere il diciannovesimo compleanno di Nives. 

Lidia si finì di preparare in fretta e la mamma le legò i capelli in due trecce. Aveva gli occhi lucidi. “Sei proprio uguale a lei” disse, posandole un bacio sulla fronte. 

Camminarono in silenzio verso il cimitero. Faceva caldo e in cielo non c’era traccia di una singola nuvola. Lidia odiava dover essere triste in giornate così belle. 

La lapide di Nives si trovava sotto l’ombra di un cipresso. Era accanto a quella del papà e del fratello. Sua mamma fece scorrere la mano su ognuna delle tre tombe, come faceva con lei quando le accarezzava il viso. Lasciò un fiore bianco per ognuno e si inginocchiò per pregare. Lidia si inginocchiò accanto a lei, ma non riuscì a tenere gli occhi chiusi tutto il tempo. Ogni tanto sbirciava le persone che arrivavano e che portavano i fiori alle tombe vicine. Le era parso di riconoscere un viso già visto prima, una ragazza pallida che guardava nella sua direzione, ma che rimaneva in disparte. Non riusciva a ricordare chi fosse.

Sua mamma si rivolse poi alla tomba di Nives. Rimase in silenzio a lungo ad osservare le lettere incise sulla pietra. Poi si baciò i polpastrelli e li poggiò un’ultima volta sul nome della figlia. “Buon compleanno” sussurrò, guardando il cielo. 

Si asciugò in fretta gli occhi e porse una mano a Lidia, avviandosi verso casa. Lidia la seguì, camminando lenta e voltandosi in continuazione. Vide la ragazza minuta avvicinarsi alla tomba di Nives e posarci qualcosa sopra, mentre si asciugava il viso con un fazzoletto bianco. Incuriosita, Lidia lasciò la mano della mamma e fece una breve corsa verso la lapide.

Accanto ai fiori che aveva lasciato la mamma, c’era anche un papavero rosso. 

[1] Associazione Nazionale Partigiani D’Italia – Comitato Provinciale di Udine, 28 maggio 1944.
[2] Ivi, 26 giugno 1944.
[3]Già io vedo le lacrimucce/di quell’angelo spuntare/e, baciando le sue manine/ io le dico: “devo andare”. L’emigrant, testo e musica di Arturo Zardini, 1911.

Federica Grasso è nata a Roma nel maggio del 2000 e ha sempre coltivato la passione per la lettura e per la scrittura. Ha frequentato l’università La Sapienza di Roma e si è laureata in Lettere Moderne nel 2022, con la tesi “Fenoglio: Uomo, Natura e Sconfitta”, e in Filologia Moderna nel 2024, con la tesi “Il femminile, il maschile e le dinamiche famigliari nei ‘Cinque romanzi brevi’ di Natalia Ginzburg”. Presto si trasferirà per sei mesi in Australia, a Melbourne, per insegnare lingua italiana in una scuola

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