Sotto la terra

di Claudia De Angelis
Racconto vincitore del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
San Pietro Infine, lungo la linea Gustav, inverno 1943
Da bambina Lucia viveva in città, è andata a scuola e ricorda. La maestra diceva che nelle grotte vivono: orsi, ragni, spurtiglioni, grilli e vermi pelosi, talvolta i lupi ci riposano le ossa. Ma a quel bestiario ingiallito dagli anni va aggiunta una pagina, accanto alla sezione di un coleottero ecco strisciare le incisioni tremule di un’acquaforte, ritraggono una schiera di volti tetri e sfiniti, una righina striminzita racconta: nelle grotte ora vivono anche gli abitanti di San Pietro Infine. E poi tutte le cose che vive non sono ma pare: il buio, l’umido, la polvere, la brina, gli spifferi, certi fiati della terra profonda che li senti pure col naso turato. E Lucia.
Non c’è da farsi ingannare dai piccoli respiri che le tremano in petto, dal tamburo del cuore, dagli occhi sgranati e fondi che schizzano a ogni cambio di luce, non badate al bambino che le si attacca al seno e cresce. Lucia appare donna viva ma è un guscio, un contorno. Se il freddo e le circostanze concedessero ai paesani di potersi spogliare e lavare, in mezzo alle scapole nude di Lucia tutti vedrebbero pelle nera stracciata, il foro di un proiettile tedesco paro paro a quello che ha ammazzato Adelchi suo, oramai due mesi che sembrano duecent’anni fa.
Era uscito di casa dicendo: mi mandano a lavorare in Germania. In Germania ma dove? E quando torni? Statti tranquilla, amore mio. Insieme a lui altri sette paesani, il più piccolo di neanche quindici anni. Non ci sta da avere paura. La Germania è una fossa comune al limitare del castagneto. Morti col sole in faccia, con la testa alta, ma morti sparati.
Quel giorno Lucia è morta pure lei, o almeno così le pare. Il venerdì dopo, dalla finestra della cucina guardava sfilare le vedove e i vecchi e le figlie di San Pietro Infine. Abbandonavano il paese e lei con le pupille opache a dare la tetta al bambino, sarebbe rimasta là, una statua, una morta travestita da viva, e invece Antonietta – cugina di Adelchi, madre di due femmine appena donne, che nascondeva in soffitta a ogni visita del leutnant – l’ha tirata via per le orecchie.
Con un fagotto di cibo e coperte, col bambino al collo, Lucia si è messa in coda alla processione. Oggi non ha ricordi della camminata. Un minuto prima era al tavolo della cucina, quel tavolo che per quanto Adelchi suo cercasse di pareggiarlo era sempre sbilenco; un minuto dopo eccola davanti alle fauci della montagna che sola poteva salvarli. Il suo primo pensiero, il primo di numero in questa sua morte-che-pare-vita, era stato che sicuramente l’avrebbero rimandata indietro. Dieci anni in paese e ancora mi chiamano forestiera, pensava la viva già morta, si terranno il cibo e il bambino che ha il sangue loro e io torno a valle, se la montagna ha pietà di me scivolo e mi spacco la testa su un sasso e sennò starò in mano ai crucchi, va bene, tanto viva non sono, tenetevi il pane e pure il bambino che io devo compiere questa mia fine, non caccerò un fiato, giurosuddio, ma la fotografia di Adelchi mio, solo questa mi resta, solo questa lasciatemela, sul mio corpo il suo viso, come dev’essere.
E invece Antonietta ancora la piglia per il braccio e la tira sotto la terra e la fa sedere in fondo in fondo, appresso alle galline, dove il bambino può stare più riparato. La morta Lucia si accuccia, zitta, buona, forestiera ma madre di un paesano che ha bisogno di lei, e quindi: che viva. Fai latte, bella, non pensare a nient’altro, fai latte. Lucia ingoia grida e pianto, il latte viene come la neve, dapprima leggero e poi tutto insieme. I paesani le mettono in mano i pezzi di formaggio con meno crosta e le fette di pane più spesse. Lo sanno tutti che a quelli di Ponte li hanno trovati perché una piccolina piangeva di fame. Fai latte, bella, vedi che sei brava.
Il bambino ha un nome che Lucia non ricorda. A tre giorni di vita l’hanno portato dal prete, Adelchi suo, un gigante radioso come il sole, sorreggeva la moglie e il figlio insieme, e davanti a Dio al bambino hanno dato un nome che però sotto la terra non li ha seguiti, impaurito dal buio. Il bambino ha un nome che sua madre respinge, non serve, Lucia il bambino lo conosce solo attraverso il dolore e tanto le basta: e la gravidanza che rimpasta le interiora e poi le doglie e il parto e il corpo che si strappa, e poi quando va a riallacciarsi non ricorda più com’era prima, com’è stato per ventun anni, e deve inventare nodi e bottoni e asole nuove, e ogni cosa tira, e proprio quando ti sei abituata ecco le ragadi ai seni perché il bambino poppa in continuazione. No, non servono nomi. L’unico che importa è diventato inutile, lo chiami e nessuno risponde. Lucia comunque lo accarezza a ogni battito d’occhi, Adelchi mio tu non mi dovevi lasciare, no, sarò forte, tanto presto ti raggiungiamo tutti.
*
Sotto la terra si rivela l’esistenza di un tempo che è vuoto. Le giornate, derubate di bestie campi castagneti biancheria pavimenti stoviglie ramazze e pialle e segatura e mattoni, trascorrono lunghe e pigre con le orecchie appizzate a sentire se dal bosco risale qualcuno. Sotto la terra, a parte il freddo e l’umidità e la paura di essere trovati e ammazzati come bestie non c’è altro che tempo, una melma fredda di minuti e ore e giorni che s’incrosta sotto le unghie: tempo, tempo, tempo da far passare pensando ai morti, seminati nei campi intorno al paese; ai vivi, lontani giù a valle o in città, chissà se c’è ancora una città. Tempo da pregare che la primavera ritorni, o la pace: sogni lontani entrambe, parole proibite, si gonfia la lingua di chi prova a sospirarle.
La grotta è paese in miniatura. I vecchi si giocano ciottoli a carte e accendono il fuoco litigando sul dove e quando e come cacciare il fumo di fuori. Le vedove amministrano il cibo: non saranno i soldati ad ammazzarle e non sarà nemmeno la fame. Le vedove ricordano la guerra. Vegliano il pane come il santo sepolcro, quel che indurisce lo ammollano nell’acqua piovana assieme ai ceci e ai piselli dell’anno scorso; razionano il formaggio, quel poco di salsiccia è divisa equamente fra tutti (tranne Lucia, a Lucia un dito intero); la vedova Giordani, che da ragazza era sarta, ha salvato da casa due ferri e qualche gomitolo e tra le sue dita svelte si allunga un corredo per il bambino. Le ragazze guardano di fuori e sospirano la libertà. L’angoscia del presente annega nel ricordo amaro di una promessa strappata alla festa della vendemmia. E allora sono le ragazze ad avventurarsi fuori dalla grotta, sotto la luna raccolgono la pietà del bosco: bracciate di legna, grossi sassi che tengono il caldo, castagne da succhiare con pazienza, e una sera fortunata i due conigli del prete, già mezzi morti di paura per i bombardamenti.
Sotto la terra, ognuno ha il suo ruolo. Lucia sta seduta e fa latte.
La seconda figlia di Antonietta ha preso a incidere croci sulla roccia, una per ogni tramonto: prima due, poi sono sette, poi undici, poi s’incrociano gli occhi sopra il fuoco minuscolo che solo di giorno trovano il coraggio di accendere e d’improvviso le croci sono già venti, non è possibile, qualcuno ha fatto lo spiritoso e le ha aggiunte mentre non si guardava. Le croci saltellano danzano si scambiano di posto scappano tornano il doppio. Forse è Natale e forse non è passato neanche Ognissanti.
Quel calendario bugiardo e meschino, la morta Lucia non ha bisogno di guardarlo. Che il tempo passa glielo dice il bambino. Quando sono arrivati alla grotta a malapena apriva gli occhi e invece adesso dopo ogni poppata il suo viso sporco di polvere e terra si allarga in un sorriso tutto gengive e adorazione. Apre e chiude le manine sul seno di Lucia, abbozza carezze goffe, scalcia contro le fasce che lo avvolgono tutto. Quando azzardano qualche passo di fuori, sul terreno che gracchia sotto i piedi, il bambino è curioso di ogni suono, come un fiore rivolge la testolina soffice verso il sole. Ridacchia piano, contento. Strofina il nasino sul collo di Lucia. Se il castagneto d’improvviso trema per l’eco dei mortai, se di notte lampeggiano fuochi a valle, il bambino non se ne cura. La più piccola carezza invece lo fa fremere tutto, un bacio leggerissimo sulla fronte e lui sgrana gli occhi emozionato, il suo mondo sta tutto là dentro. Rimbomba la guerra? Che importa. Sotto la terra il bambino sospira soddisfatto tra le braccia della mamma.
La morta Lucia lo guarda e le pare di sentire un sussulto lontanissimo in petto.
*
Schiara mattina. Il bambino mangia con gli occhi chiusi, le manine lente, il corpo sciolto nell’abbraccio della madre un ritratto di pace. Lucia, seduta, lo guarda. I paesani si strappano dal sonno con forza. È caldo, nei sogni, e nella grotta c’è freddo.
Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata. Sotto la terra un silenzio che fa più paura della morte imminente.
I paesani si appiattiscono contro le rocce, chi sarà il primo a crepare? I cuori martellano, il bambino è infastidito dai tonfi dissonanti. Lucia lo stringe più forte e guarda l’imboccatura della grotta. Il cielo bianco, carico di neve, la acceca. Si aspettano tutti la fine e invece si affaccia una ragazzina con la faccia di topo. Dodici anni. Le mancano i canini di sopra, i capelli biondi sono impastati di fango. Dice: Erminia, e poi non dice più niente.
Le danno acqua e pane e due uova. Antonietta la riconosce, è la figlia del fornaio di Galluccio. No, la vedova Giordani ricorda perfettamente che il fornaio di Galluccio ha fatto solo maschi, questa appartiene ai casari di Sessa. Erminia non dice, nemmeno le guarda. Si siede troppo vicina al fuoco e attraverso le fiamme fissa il bambino. Antonietta vigila preoccupata da quegli occhi di vetro a suo dire cattivi, ma Lucia si sente tranquilla. Il suo lutto riconosce il lutto di Erminia. Hanno in petto lo stesso squarcio.
Quella notte, Lucia le fa cenno di avvicinarsi. Il bambino dorme attorcigliato nella culla delle sue gambe incrociate, sulle sue caviglie c’è posto per la testa di Erminia.
*
Il bambino pasce come un re. Erminia ha deposto la gelosia e si è eletta sua custode. Ogni giorno, di fuori la guerra avanza e invece la morte di Lucia arretra. Il bambino grugnisce, stringe i piccoli pugni, e Lucia sa che bisogna rigirarlo sull’altro fianco o fargli il solletico sotto al mento ciccioso. Lui deliziato si afferra i piedini, schiocca le labbra, guarda stralunato Erminia che gli fa le boccacce.
Una sera, il bambino si irrigidisce tutto, sbarra gli occhi in faccia alla mamma, mulina le braccia, caccia un rutto così forte che la grotta gli fa eco. Silenzio. Erminia si copre la bocca ma la sua risata la intuiscono tutti, e tutti contagia, non si rideva così dall’estate.
Lucia riesce a fare solo un sorriso annacquato. Sta covando la febbre.
Per tre giorni e tre notti si contorce sul pavimento della grotta, fradicia di sudore, trema eppure avvampa e rigira gli occhi nel cranio. Il mondo è tutto fatto di mani: mani che afferrano le sue freddissime, mani che le buttano addosso coperte, mani che toccano la fronte e le guance, mani che portano acqua, che portano Dio, che portano odore di terra, mani che le mettono al seno il bambino e mani che lo staccano quando lei lo vorrebbe a sé, il suo amore piccolo.
Si squarcia il tempo. Il suo corpo inarcato in una pozza di sudore resta indietro. Lucia vede la montagna dall’alto, un tappeto di bombe precipita sul paese ma prima che tocchino terra tramutano in castagne, piovono sul tetto di lamiera della veranda di casa e Adelchi sussulta e poi ride, promette per la centesima volta che darà una sistemata a quell’albero. Lucia sbircia da una fessura tra le tendine a fiori della cucina: la stanza è illuminata d’oro, come la grotta del presepe che faceva da bambina. Lei ha il pancione e monda i fagiolini e Adelchi suo la trascina in una piroetta che diventa un abbraccio che diventa in bacio e Lucia distoglie lo sguardo, lo volge in su. Dalla strada che dal paese porta in montagna vede scendere il bambino ormai ragazzo, su una bicicletta verde sgangherata alza i piedi dai pedali e caracolla in discesa con la stessa risata del padre. Quindi rimarremo in paese, pensa Lucia, e per la prima volta il pensiero non la riempie d’angoscia.
È il futuro che le si srotola davanti agli occhi, oppure un sogno? Lucia segue il bambino-ragazzo, la piazza del paese si gonfia, i palazzi si allungano, il lastricato diventa asfalto, spuntano macchine da tutte le parti: la città è tutta un movimento, tutta un rumore, se pure la guerra è passata su queste strade l’hanno cancellata a secchiate di calce. Il bambino-ragazzo ha dei libri sotto il braccio, frequenta il liceo. Quando ride getta indietro la testa e sul collo si vede uno sbaffo nero: la polvere, la terra della grotta di cui preghiamo che non abbia ricordo. Lucia allunga un dito umido di saliva per pulirlo ma la sua mano attraversa il bambino-ragazzo che è fatto di luce.
Adelchi la chiama. Quanto sei bella, dice, e Lucia gli corre incontro. Portami via, non ho già fatto abbastanza?
Due mani le prendono il viso, non sono di Adelchi, non saranno mai più le mani di Adelchi. La febbre recede (e anche i tedeschi). Lucia abbandona il passato e il futuro e torna al suo corpo: una virgola attorno al bambino. Sente in bocca il sapore ferroso del vinaccio della sagrestia. Antonietta le strizza l’occhio velato di lacrime.
Ci hai fatto morire di paura, dice, e Lucia le stringe forte la mano. Erminia dove sta? I paesani s’adombrano. Dice che a Mignano il farmacista c’è ancora. Erminia è scappata da due giorni e non torna. Hanno sentito sparare. Lucia tace per un momento, poi è travolta da una speranza tiepida che di certo appartiene al bambino. Embé, e quando mai non si sente sparare? Antonietta si asciuga le lacrime.
Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata.
Stavolta sono tanti, ecco: ci hanno trovati.
Prima che Lucia abbia il tempo di avere davvero paura, Erminia da fuori urla di uscire, sono arrivati i mmericani, c’è pane e cioccolata e medicine e salvezza e libertà. Le vedove non si fidano, i vecchi neppure, ma Lucia di Erminia sì, e allora esce.
Strizza gli occhi contro la sberla del sole. Il bambino ride eccitato dall’improvviso tepore. Erminia si butta ad abbracciarle le gambe, Lucia le carezza la testa.
Nessuno le spara, anche se qualche fucile sobbalza. Paiono mostri, le creature affamate e diffidenti che emergono dalla grotta, e invece sono i paesani. Cadaveri vivi, le facce smunte nere di sporco, i corpi ammaccati e ricurvi, i polmoni carichi di catarro, i muscoli accartocciati, i capelli e le barbe nidi di rondini, Antonietta con una gallina sottobraccio.
I mmericani si guardano, incerti davanti a tanta miseria. Il primo che s’avvicina è l’unico senza divisa e senz’armi, imbraccia una macchina fotografica dalla forma strana, che emette un fruscio continuo di torrente in piena. L’imbarazzo è rotto. Pane e cioccolata passano di mano in mano, i soldati annunciano che il fascismo è finito andato kaputt, ma i paesani vogliono sapere di questo cugino e di quella zia, e casa mia ha resistito sotto le bombe? Bada che l’ha costruita mio nonno. E mica hanno bruciato i castagni?
Il soldato che non è un soldato si avvicina a Lucia, inquadra il bambino. Bello piccolo, dice, come lo chiamo?
Lucia guarda a valle. Il paese è polvere, la sua casa calcinacci. Si vede varcarne la soglia sventrata, scalciare cocci, vetri, i pezzi dello specchio della bisnonna – sette anni di sventura, siamo pronti? – i rimasugli dell’infanzia di suo marito e della loro vita insieme fanno un mucchietto triste sotto il lavandino sbeccato. In mezzo a quei resti riarsi, sopra la cenere, Lucia accenna un passo di danza e restituisce al bambino il suo nome.
Nota cinefila
La vicenda di San Pietro Infine è protagonista del documentario “The Battle of San Pietro” girato dal regista John Huston, al seguito degli Alleati.
Claudia De Angelis (1992) è nata e cresciuta a Caserta. Vive a Roma, dove lavora come traduttrice e autrice per il cinema e la televisione. Ha vinto il Premio Solinas ed è stata selezionata a Biennale College Cinema.