Il violinista Igor Brodskij
(il 15 marzo, per i tipi della nuova, piccola e agguerrita Qed, è uscito “Il violinista Igor Brodskij”, il nuovo libro di Romano Augusto Fiocchi, nostro amico e collaboratore. Ve ne anticipiamo l’incipit, sperando di incuriosirvi. G.B.)
di Romano A. Fiocchi
Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece silenzio. Poi vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio: a loro furono date sette trombe Conn, le migliori. Ma a un altro angelo, merda, fu dato un violino invisibile. Il nome di quell’angelo era Igor Brodskij.
Giovanni, Apocalisse (trad. Max Bignami)
È stato qualche inverno fa, tanto per cominciare, uno dei mesi più freddi. Igor Brodskij arrivava in via Dante non più tardi delle otto. Cuffia di lana sopra i capelli grigi, sciarpa al collo, giacca con bavero alzato, scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Igor Brodskij aveva il viso tondo e gli occhi rassegnati da ex sovietico. Schiariva la voce e mormorava in una preghiera l’unica cosa che sapeva dire: «Non parlo italiano».
Si fregava le mani, apriva il seggiolino pieghevole, si sedeva e appoggiava sulle ginocchia la custodia del suo violino. Si guardava attorno. I primi passanti infreddoliti gli lanciavano un’occhiata. Era il posto giusto. Da un lato le spalle intabarrate di un vecchio poeta, immobile su un piedistallo, dall’altro un condottiero a cavallo che dominava il fondo della via, tutta pedonale. Lui, allora, accarezzava la custodia con mani da prestigiatore. L’apriva, estraeva un violino inesistente e iniziava ad accordarlo. Girava i bischeri fatti d’aria, pizzicava corde invisibili, muoveva l’archetto nel nulla. La gente continuava a passare e a lanciare sguardi fugaci. L’aria di via Dante si faceva cristallina, l’umidità della notte milanese si stava alzando.
All’improvviso partiva la musica. Era un suono straordinario, che veniva dall’altro mondo. Via Dante era attraversata da cerchi concentrici di note. Non era musica classica, non era jazz, non era rock. Era la musica di Igor Brodskij, il più grande violinista del ventunesimo secolo
La gente sentiva il suono dal fondo della via, si avvicinava, si fermava. Restava incantata dalla musica. Non le importava di dove uscisse. Le dita di Igor Brodskij si disarticolavano alla velocità della luce, nell’aria, nient’altro che nell’aria, su un violino invisibile agli occhi ma vero. Vero perché il suono che emanava era divino.
I passanti erano così affascinati dalla musica di Igor Brodskij che restavano lì imbambolati e a volte si dimenticavano di fare l’elemosina. L’avvocato Biancardi si fermò anche lui e pensò che il violino fosse fatto di vetro. Don Agostino, il parroco del Carmine, ipotizzò che Igor Brodskij avesse venduto il suo strumento e suonasse sul suo fantasma. In fondo, come e su cosa suonasse aveva poca importanza. Contava la musica che riempiva via Dante, una musica densa da tagliare con il coltello.
«Musica solida».
«Musica che racconta, vi dico».
«Musica che galleggia nell’aria».
«Musica che ci puoi camminare sopra».
«Musica mai sentita».
«Ma chi è?»
«Si chiama Igor Brodskij».
A un tratto, quando la gente cominciava ad affollare la via, e la custodia aperta davanti ai piedi conteneva una decina di euro, le dita del violinista si fermavano. Igor Brodskij raccoglieva le monete e al loro posto riponeva lo strumento inesistente. Chiudeva con cura la custodia, ripiegava il seggiolino e se ne andava, non si sa dove.
«A cambiare l’acqua», diceva con la sua pronuncia cinese l’edicolante Wu Ming. «Per forza, è lì da prima delle otto».
Ma più nessuno vedeva Igor Brodskij sino al giorno successivo.
L’esibizione straordinaria si ripeté regolarmente per alcune settimane, mentre la morsa del gelo invernale non accennava a diminuire. Neppure il freddo riusciva a fermare le dita di Igor Brodskij che vibravano nel vuoto. Per molti era diventato un appuntamento fisso e stavano lì ad ascoltarlo tutti i giorni prima di recarsi al lavoro. Si perdevano nella sua musica. Finché cominciò a circolare la notizia che in via Dante c’era un violinista che ti suonava l’anima.
Fu un mattino. Lo videro arrivare come di consueto, guardarsi attorno, schiarire la voce, mormorare tra sé «Non parlo italiano», aprire il seggiolino, accarezzare con mani da prestigiatore la custodia e sottoporre il violino alle consuetudini preliminari. La musica di Igor Brodskij invase la via, si propagò nelle fogne attraverso i tombini, si arrampicò sui tetti, si infilò dentro i bar, dentro le case.
Un uomo l’osservava. Era piccolo, pelato, con le mani in tasca.
«Merda», esclamò.
Si avvicinò a Igor Brodskij e gli disse che avrebbe dovuto incidere un disco. Era Max Bignami della Marvels Music Italia. Igor Brodskij si fermò. Max Bignami ripeté le parole scandendole lentamente: «Incidere un disco, mi capisci?»
Con il suo accento slavo Igor Brodskij rispose: «Non parlo italiano».
Max Bignami non volle arrendersi. Tirò fuori le mani dalle tasche, una pacca sulla spalla, lo aiutò a raccogliere custodia e seggiolino e lo prese sottobraccio. Svanita la musica, la gente si era allontanata. Igor Brodskij senza musica era un passante come tanti. Max Bignami lo fece entrare in un bar e lo riempì di vodka. La vodka permetteva di superare ogni ostacolo linguistico. Gli illustrò il progetto discografico e gli fece firmare un contratto lì su due piedi.
«Sei contento?», gli chiese.
«Non parlo italiano», rispose Igor Brodskij.
Il mattino seguente, il violinista si ripresentò in via Dante. Si guardò attorno, si sedette, aprì la custodia, alzò gli occhi rassegnati da ex sovietico e si fermò. Di fronte a lui c’era il cranio pelato e il sorriso d’entusiasmo di Max Bignami.
«Merda», esclamò. «Raccogli le tue cose che andiamo in sala di incisione».
Lo fece salire sull’auto parcheggiata poco distante. Igor Brodskij attraversò strade piene di traffico, piazze congestionate, miraggi metropolitani, finché raggiunse la periferia. Il centro di produzione era un gigantesco parallelepipedo di vetro alto dieci piani. Vetri su vetri che si arrampicavano nel cielo grigio. Quando Igor Brodskij entrò in sala di registrazione, la voce della sua presenza negli studi si era già sparsa tra i tecnici. Tutti erano fermi lì davanti per ascoltarlo. Persino il custode Mario Porcu aveva abbandonato la portineria e la bottiglia di vermut bianco per assistere alla registrazione. Igor Brodskij tolse la cuffia di lana e si infilò quella per l’ascolto, allentò la sciarpa, si guardò le scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Aprì la custodia del violino, prese archetto e strumento invisibili, aggiustò l’accordatura e, in piedi, iniziò a suonare. Era la musica più straordinaria che si fosse mai udita nel centro di produzione. I tecnici del suono erano paralizzati, gli occhi fissi sulle dita rapidissime, sui movimenti nervosi del braccio con l’archetto inesistente, sul nulla assoluto che avvolgeva Igor Brodskij e che permetteva il dilatarsi della sua musica.
«Venderemo milioni di copie», gli disse Max Bignami una volta finita l’esecuzione. «Domani vado giù a Roma e ti organizzo un concerto all’Auditorium».
Igor Brodskij lo guardò con gli occhi rassegnati da ex sovietico.
«Non parlo italiano», rispose.
Max Bignami andò a Roma ma al suo ritorno Igor Brodskij era introvabile. Don Agostino disse di averlo visto in un’altra via. L’avvocato Biancardi disse di averlo incrociato in piazza San Carlo, a Torino. Arrivato agli studi di registrazione, Max Bignami ebbe l’amara sorpresa: le tracce erano state cancellate.
«Merda», esclamò.
[…]
Romano Augusto Fiocchi, Il violinista Igor Brodskij, 144 pagine, Qed, 2025.