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La corriera

Il testo che segue è uno dei capitoli, intitolato “La corriera”, del romanzo di Graziella Belli “I campi di patate fanno le onde”, recentemente pubblicato da Fusta Editore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Graziella Belli

Giugno 1942

Era il primo giorno di vacanza, Giusto era uscito di casa di buon’ora e portava nella destra una valigia e nell’altra una grossa gabbia. Teneva la gabbia un po’ per la maniglia e un po’ come un pacco sottobraccio. All’interno della gabbia stava bella comoda una gallina di color marrone, beata, gli occhietti sonnolenti ogni tanto guardavano di brutto il suo portatore come a chiedergli di non farla più sobbalzare. Giusto capiva il desiderio della gallina e cercava di ubbidire, perché era stato anche l’ordine di sua madre: e mi raccomando, prova a non sbatterla tanto, Gistin. Ma non era mica facile, e sì che la madre gli aveva agevolato il cammino, aprendogli la porta di casa e accompagnandolo giù per le scale, ma lui le avrebbe voluto chiedere: «Ma siamo sicuri, mamma, devo proprio fare il viaggio con gallina e gabbia?».
Poi non aveva detto nulla perché gliel’aveva già chiesto in casa e la madre era stata chiara: «L’ho comprata da Palombo e pagata anche bene, e cerca di farla arrivare a salvamento», chiudendo ogni discorso con «e poi non fare più domande.».
Giusto risalì i vicoli cercando di non farsi vedere. Che vergogna andare in giro con una gallina in gabbia! Sarebbe stato meglio passare attraverso le chintōgne[1] tra le case di via del Molino e via delle Alpi e poi fino alla chiesetta della Madonna degli Angeli, ma era vestito troppo bene e rischiava di rovinare la giacca. Oltre all’incolumità della gallina, la madre non gli aveva raccomandato altro che quella della giacca: «Era di tuo fratello, lui l’ha portata per quattro anni, vediamo te».
Come se non bastasse, davanti al cortile di Romeo s’imbatté in Osvaldo il postino.
«Giusto, porti la gallina a vilegioa
Giusto rispose senza fermarsi: «Ma no, che villeggiare, vado ara Ciève[2] dalla nonna».

Arrivò in piazza tutto trafelato, si avvicinò a un gruppo di persone e come loro guardò in fondo alla strada. Teneva la gamba contro la valigia di cartone marrone, chiusa da una corda di iuta.
«Non la devi lasciare per nessun motivo.» La madre le cose le ripeteva alla nausea, e se n’era voluta accertare anche mentre l’accompagnava giù per le scale: «E la valigia, Giusto?».
E Giusto: «Non la mollo un attimo».
E adesso se ne stava lì, la gamba rigida a contatto con il cartone, lo sguardo che non perdeva di vista valigia e gabbia, un colpo d’occhio ogni tanto al punto in cui sarebbe apparsa la corriera. Il caldo sembrava aver atteso il primo giorno di vacanza e saliva anche dal Tanaro e dai campi di patate. La piazza era quella dell’Olmo, dove si fermava la corriera due volte al giorno, sia verso il Piemonte che diretta in Liguria, e caricava di tutto: contadini che portavano merci a Pieve di Teco, turisti arrivati a Ormea con il treno che procedevano per Imperia, galline mezze rassegnate e dirette anch’esse a cambiar aria in Liguria.
Dietro il Monte della Guardia si era alzato da poco il sole, e la gente diceva che faceva caldo fin dal mattino presto. Giusto si passava la mano sul collo, sudava sotto quella giacca più da primavera che da estate, i pantaloni alla zuava, le calze di lana. Avesse almeno avuto il fez sulla testa. Non gli piaceva il fez, faceva pizzicare la testa, ma dal sole riparava.
Un uomo, piazzato davanti a lui, cominciò ad agitarsi, a dire «Arriva».
Un altro: «Macché, cos’hai visto, bolgnu c’me ina topunōira[3] Non ci siamo ancora.»
Giusto si sporse in avanti, il piede rigorosamente contro la valigia, e anche la gallina guardò se arrivava o no. Poi, più che alzare la polvere della strada e farsi vedere da lontano, la corriera si fece sentire. Quando si arrestò davanti ai passeggeri e ne scese l’autista, fermandosi davanti alla scaletta a fare i biglietti, l’aria si riempì di tutti i cattivi odori possibili, tra cui quello della benzina. Uno dopo l’altro i passeggeri salirono e presero posto. Giusto e la gallina si misero in fondo, sul sedile vicino al finestrino. Gli piaceva guardare fuori e poi poteva controllare meglio la valigia. Forse guardare oltre il vetro divertiva anche la gallina, così se la mise sulle ginocchia.
Passato l’elegante palazzo, adibito a inizio secolo, dicevano, a casinò, il percorso fece qualche curva; una dopo l’altra le case si rimpicciolivano alle loro spalle e al loro posto i boschi iniziarono a stringere la strada.
La testa appoggiata al finestrino, Giusto osservava la compagna di viaggio. Anche lei doveva essersi stancata di guardar fuori.
«Ti è venuta la nausea?» le chiese sottovoce. «A me sì, non c’è cosa che mi fa venire la nausea come le curve e l’odore di benzina, ma fra poco scendiamo.»
Gli venne in mente che la madre gli aveva consigliato di mettersi davanti, che si pativa meno, e se non per sé si rimproverò di non averlo fatto per la gallina.
Come poteva chiamarla?
«Te lo trovo un nome prima o poi, promesso.»
Ferma in gabbia e sulle sue ginocchia, la gallinella inclinò la testa.
«Speriamo non ti venga in mente di pisciare» le disse sottovoce.
Per fortuna quel mattino Lorenzo non c’era per strada, altrimenti lo avrebbe preso in giro per un anno. Gli spiaceva, però, non averlo salutato.

Finita la seconda di avviamento professionale, Lorenzo era andato a lavorare in fabbrica e da allora si frequentavano di meno: il pomeriggio arrivava tardi, stanco, e aveva poco tempo per i divertimenti. E, del resto, Lorenzo si sentiva un giovanotto, aveva altri amici, più grandi, e guardava le ragazze. E questo un po’ spiaceva a Giusto, perché avrebbe voluto avere il coraggio anche lui di guardare dritto negli occhi le ragazzine, e farlo senza ridere.
Però la sera prima, che si erano incontrati alla fontana per caso, erano andati al campo in Borganza a tirare due calci al pallone. Era un pallone tutto sformato che qualcuno aveva perduto e che Lorenzo aveva trovato di là degli archi della ferrovia, un mattino che andava al lavoro. Poi, tutti sudati erano tornati nella piazzetta del gōlbu e si erano seduti sui gradini della casa di Giusto, come avevano sempre fatto quando andavano alle elementari assieme. Era dunque già il tempo delle nostalgie: sui gradini Lorenzo aveva parlato di quando fregavano le uova a Palombo, di Pina dalle gambe storte – era un po’ che non andavano da lei a fare razzia di ciliegie – e allora Giusto disse che il giorno dopo sarebbe andato a Pieve di Teco e per tutta l’estate non si sarebbero visti. L’aveva detto così, tanto per dire qualcosa, ma a quel punto avevano smesso di ridere. Solo un attimo, perché quando aveva ammesso quella cosa del viaggio con la gallina, pregando Lorenzo di non dirla a nessuno, non l’avevano più finita di riderci sopra. Poi, non si sa chi aveva attaccato per primo, avevano cantato a squarciagola: «È arrivata la bufera, è arrivato il temporale…».
Guardò la gallina e posò la mano sulle sbarrette della gabbia, come per accarezzarle la testolina. La gallina rispose con un verso da uovo.
Ogni tanto, a uno scossone della corriera, Giusto sbatteva la tempia contro il vetro del finestrino. Stanco di tenere la gabbia sulle ginocchia la mise per terra, accanto alla valigia. Ma la gallina per terra non ci voleva stare, faceva versi da uovo e starnazzava, la gente rideva, e Giusto si rimise la gabbia sulle ginocchia.
Prima del colle di Nava era salita una signora molto robusta, si era seduta al fondo, accanto a lui. La donna strabordava, la coscia premeva contro il ginocchio magro di Giusto e la gallina si agitava.  Al giro di Cosio la signora scese, salì altra gente e al posto della signora robusta venne a sedersi un uomo diretto, pareva, alla fiera di Pieve. Era un ometto arzillo e non la finiva più di parlare da solo e, se gli davano corda, con gli altri passeggeri. La gallina gli dava corda con versi che assomigliavano a quelli di un merlo stonato. Nel frattempo la corriera s’era riempita, e c’era chi imbracciava canestri di funghi e uova, altri che portavano forme di formaggio. I posti erano tutti occupati, anche il corridoio tra i sedili era a tappo. Giusto pensò che se non avesse avuto valigia e gallina avrebbe dato il posto a qualche anziano, perché era un’altra delle cose che la madre gli raccomandava sempre, anche se alla fine di corriere ne prendeva solo un paio all’anno. Ora, tuttavia, Giusto era preoccupato: nel suo dialetto di  Cosio,  l’ometto, sballottato anche lui dalle curve, si era lamentato di un fatto: «Belin, basta che con l’agitazione non vada di corpo…»
«Perché dite così?»
«Belin, perché l’agitazione è un veleno per le galline, le fa andare di corpo, non lo sapevi?»
Giusto ci pensò, disse: «Non ci va» e chiuse lì la faccenda.
L’ometto ribatté nel suo dialetto e la gente, seduta e aggrappata alle maniglie, dondolò dalle risate. Il ragazzo non aveva capito, l’ometto non tradusse e mostrò un pugno alla gallina. Giusto spostò la gabbia. La gallina non s’era accorta di nulla.
La corriera si fermò davanti alla chiesa di Acquetico e salirono ancora due persone. Dapprima l’autista disse che non ci stavano, ma i due di Acquetico si infilarono lo stesso. L’autista disse che non partiva e incrociò le braccia, spense. Siccome parlava in italiano, uno di quelli di Acquetico gli chiese da dove veniva. L’autista disse che era sardo, ma cosa c’entrava da dove veniva? Quello di Acquetico non replicò ma dopo un po’, come se avesse ben pensato alla risposta cercando le parole giuste in italiano, gli raccontò una cosa: «Sa, autista, caso vuole che in Sardegna ci ho fatto il militare, è stato nel ‘25, e se sapevo che dalla Sardegna uscivano degli autisti come lei davo un colpo di tacco sull’isola che la facevo affondare ».
La gente tacque, intimorita, si sentì appena un belin, ma bisbigliato, l’autista capì solo in parte, ma accese e la corriera ripartì, sbuffando.
A Pieve di Teco la corriera si fermò e fece uno strano cigolio come se si fosse spenta per sempre.
I passeggeri scesero. La gabbia sotto il braccio, con la gallina contenta di scendere, la valigia nell’altra, Giusto alzava lo sguardo sulla testa pelata dell’uomo di Acquetico. Non gli sembrava in grado di affondare la Sardegna con un solo colpo di tacco, ma l’uomo incrociò il suo sguardo e annuì. Giusto e la gallina sbarrarono gli occhi.

[1] Chintōgne, cunicoli posti dietro le case che servivano da intercapedine e per la raccolta degli scolatizi, ma anche per collegare i vicoli.

[2] Ara Ciève, a Pieve di Teco.

[3] Bolgnu c’me ina topunōira, orbo come una talpa.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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