Marciando, marcendo

di Angelo Di Fonzo

Da quando il villaggio era stato inghiottito dalla nebbia, Viviana rimaneva ore a guardare il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo. C’era qualcosa in quell’uomo che la ammaliava. Forse il sorriso che regalava a ogni cliente; poteva sentirne il calore da lì. Poi la bocca incurvata quando non c’era nessuno, una malinconia che la contagiava e la costringeva a smettere di guardare fino all’arrivo del cliente successivo.

Aveva sempre sostenuto che le persone totalmente buone o cattive erano idiote, vittime della loro ascendenza di bene o di male. Riteneva invece davvero degne di nota quelle confuse, incapaci di scegliere da che parte stare, di definire chi sono in maniera netta. È troppo facile, pensava, scegliere una casacca e onorarla per tutta la vita senza neanche il tempo di un dubbio. Per questo cercava in quell’uomo dall’apparenza mite e gentile tutti i segni del male; nelle crepe, nei dettagli.

Non poteva fare molto altro.

La nebbia si era presa tutto: aveva fagocitato il mare, le colline, i sentieri e le cittadine limitrofe. Non c’era modo di avanzare in quella nube eterea. Viviana faceva delle lunghe e ripetitive passeggiate per quelle strade di case cadenti e vedeva sempre le stesse palazzine fotocopiate, la stessa chiesa in rovina, le stesse macchine parcheggiate immobili.

Sapeva che Lui stava arrivando ormai, ma non poteva più sfuggirgli come aveva fatto in modi diversi per tutta la vita. Marciando, marcendo. Lo sentiva alle calcagna, in costante agguato. Marciando, marcendo. Di notte, da sveglia; sempre. Marciando, marcendo. Lui l’aveva costretta per anni a combattere, in trincea, per avanzare da un avamposto all’altro dell’esistenza. Marciando, marcendo. E lei l’aveva assecondato, aveva fatto di tutto per paura che Lui la raggiungesse. Marciando, marcendo. Aveva corso chilometri e chilometri infiniti, a perdifiato. Marciando, marcendo. Senza sosta. Marciando, marcendo.

Quando non ne poteva più di passeggiare, si sedeva nell’unico bar del paese, dove la stessa TV locale andava in onda giorno e notte per stornare il silenzio a suon di televendite. Beveva un caffè, a volte più di uno, e guardava il vuoto, come gli altri avventori. Non c’era nient’altro da fare che lasciarsi vivere, o morire, in attesa che la nebbia sparisse. Ma la nebbia non spariva e diventava sempre più densa, quasi solida; una muraglia. Viviana non aveva mai parlato con nessuno di loro, nemmeno con il barista perché si limitava a indicare il caffè sul menu plastificato incollato al bancone e a pagare con la carta quando l’importo compariva sul pad. La foto della moglie del proprietario troneggiava sul muro del bar, una gigantografia agiografica, incastrata tra due date di tempo trascorso e mai attuale; anche se in fondo sembrava più in vita del vedovo: lei in foto sorrideva al massimo della forma, lui dal vivo pareva tumulato in piedi, in attesa di ulteriore sepoltura.

Quel giorno però, una signora anziana con un cappello di feltro verde le chiese se poteva sedersi al suo tavolo. Lei si guardò attorno e infastidita notò quanti tavoli erano ancora liberi, ma annuì, perché dire di no sarebbe stato più complicato. La signora prese posto vicino a lei e iniziò a sfogliare il giornale mentre le lanciava sguardi esplorativi, di nascosto. Dopo aver chiuso e ripiegato il giornale, la signora si girò verso di lei.

«Signorina, sembra stanca. Ha il viso stanco».

Viviana continuò a palleggiare nel vuoto, con i pensieri e le idee a fare canestri. Annuì senza fiatare.

«Da quanto è in viaggio?».

Disegnò il simbolo dell’infinito sullo strato di polvere del portatovaglioli. La signora sorrise, intenerita.

«Si vede, signorina, si vede. Per questo è così stanca».

Viviana continuò a bere il suo caffè a rallenti, con la lentezza immobile di un quadro che si scioglie dalla paralisi dell’arte per farsi vita pulsante. O forse al contrario era la paralisi del vivere che si trasformava in arte viva, che s’infinitava in quell’istante interminabile.

«Eppure adesso è ferma e le sembra ancora di correre, non è così?».

Viviana non rispose, spossata da quella conversazione, posò la tazzina e tornò al vuoto, spiritata. Non le riusciva bene parlare con le persone, preferiva guardarle da lontano, alla distanza giusta per studiarle. Come oggetti. Preferiva trattarle proprio come oggetti che come persone con una volontà propria. Le sembravano troppo complesse altrimenti, troppo difficili da afferrare nel loro dinamismo, nella loro imprevedibilità. Da lontano era tutto più semplice, come con il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo, che si limitava a farsi osservare senza accorgersene. Se proprio doveva avere a che fare con le persone, preferiva quelle che si raccontavano senza chiedere nulla in cambio perché poteva risucchiare la loro linfa vitale, in forma di storie, al prezzo di qualche cenno del capo.

Gli altri clienti del bar non sembravano preoccupati da quella stasi forzata, nemmeno la signora con il cappello di feltro verde; chissà da quanto erano già fermi. Forse non si erano mai mossi, oppure non erano nemmeno in grado di concepire il movimento. Magari avanzavano da fermi, forse era quello il loro viaggio.

Ormai gli occhi di Viviana cominciavano ad abituarsi a quella nebbia, gli si rifletteva nella vista a ogni sguardo. La muraglia separava il villaggio dal resto del mondo, ma talvolta si ricreava dentro di lei come una talea, separandola a sua volta dagli oggetti, dalle persone, fino a isolarla nella sua bolla di nebbia; ogni volta più stretta. Succedeva di rado prima, ormai sempre più di frequente. La nebbia che aveva negli occhi ritagliava con le forbici i contorni grigiastri delle cose restringendo il campo sempre di più. Ma poi tornava tutto come prima, i confini ripristinati all’interno della muraglia, che però ogni volta diventava più densa e scura. Ci aveva fatto caso dopo le prime volte, aveva visto i confini irrobustirsi e lei diventare più anemica, allo specchio, col viso di un pallore candido. La signora con il cappello di feltro verde non smetteva di guardarla, in modo tanto compassionevole quanto sfrontato e invadente, e Viviana le cercava addosso ogni forma di male possibile, potenziale; nascosto in superficie: il suo gioco preferito. Era difficile in partenza, eppure così facile in fin dei conti che ci avrebbe scommesso tutto quello che possedeva. Avrebbe giurato sul suo male, professato la sua oscurità al tribunale delle stelle senza esitare.

Sentì un improvviso mal di testa, epicentro nel cranio, e capì che Lui era lì. Marciando, marcendo. Aveva smesso di correre, cosa si aspettava? Marciando, marcendo. Ma non poteva più correre, non questa volta, non più: mai più. Marciando, marcendo.

Gli occhi le si riempirono di nebbia e tutto attorno ne appariva annullato; riusciva a vedere a malapena il suo corpo, che pure andava consumandosi, corroso in quella cancrena di purezza. La sua mano destra bramava il vuoto e una mano rugosa comparve a stringerla per tirarla fuori, ma la presa non aveva forza, non abbastanza, e quel vortice di consunzione la assorbì e la divorò come non fosse mai venuta al mondo.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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