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Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman

di Mariasole Ariot

In un oggi in cui l’oggetto scompare, un fotogramma ci riporta a un passato in cui la “cosa” non era ancora datificabile e invisibilizzata ma terrena, tattile, imbevuta di sensi: è lo sguardo di una giovane ragazza che, in uno stato di sospensione, è catapultata in una dimensione altra da un walkman, un istante in cui il sonoro proiettata (e forse “progetta”) un futuro a venire. È Il Tempo delle mele, lo stesso tempo in cui Stefano Solventi ne Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman(Jimenez Edizioni, 2024) ci spinge a indugiare.
La ragazza è ferma, alle spalle un amico posa sulle orecchie un oggetto che separa la dimensione sonora in cui si trovano da una seconda dimensione altra che solo lei, ora, può sentire. L’apparizione del walkman in un tempo in cui l’oggetto/dispositivo cominciava a farsi strada nelle strade: ragazzi “incuffiati”, come li chiama Solventi, che entrano in uno stato larvale, di bozzolo, lontani da ciò che prima era l’ascolto corale, dell’insieme comunitario, dove il suono si dilatava nell’attorno ed era (necessariamente) condiviso.

Il libro è un attraversamento di tempi, suoni, immagini, percorre il passaggio dagli anni Ottanta (con un’incursione nei Settanta) all’epoca attuale attraverso un oggetto familiare a chi l’ha usato ma che in fondo non è mai scomparso ma solo evoluto.
Un libro che si potrebbe immaginare come un racconto ad alta voce, che apre al ricordo con un breve accenno nostalgico e si insinua nelle pieghe e nelle piaghe del presente. Riflette. Confida. Accenna ad un futuro, ipotizza. Come scrive lo stesso Solventi: a tratti sovrainterpreta.
E in questo sovrainterpretare, come nei frequenti riferimenti ai film citati, l’analisi accurata e approfondita si muove nell’azzardo, ma un azzardo che fa abbracciare una prospettiva. Prospettiva come ipotesi, prospettiva come luogo da cui si osserva.
Camminando pagina a pagina dagli anni Ottanta in cui già si intravedevano i primi cambiamenti del futuro accelerato di cui oggi facciamo ogni giorno esperienza, Lo sguardo di Vic ci parla del ciò che era per affacciarsi al ciò che è e ciò che forse verrà – o che è possibile avvenga. Un libro, come scrive lo stesso autore, non ottimista ma nemmeno apocalittico.

“Un qualche futuro comunque ci aspetta, indipendentemente dai nostri timori e dai nostri entusiasmi. Ci toccherà bene o male affrontarlo, e forse sarà utile considerare l’ipotesi di essere entrati in una fase di ominiscenza, come teorizzato dall’epistemologo e filosofo Michel Serres già nel 2001, ovvero un processo di inevitabile e continuo ripensamento del ruolo e delle possibilità della nostra specie al tempo del web, del digitale, della proliferazione.
Il verbo “profilare” è interessante. Nel suo significato transitivo rimanda al disegnare, al tracciare un contorno, mentre con l’intransitivo intende il preannunciarsi di qualcosa, un accadimento. La profilazione degli utenti implica la produzione di un’identità – il disegno del suo contorno – attraverso la raccolta della scia di dati che l’utente stesso produce, però mi piace pensare anche alla sua declinazione transitiva, ovvero all’annuncio di un accadere. Il profilarsi all’orizzonte di qualcosa.”

Ma se il libro è anche un’analisi sociologica del passato e del presente, è prima di tutto un raccontare personale e appassionato dell’esperienza stessa dell’autore dall’arrivo dell’oggetto negli anni Ottanta ai mutamenti nella fruizione della musica che hanno attraversato i decenni, una dichiarazione d’amore: frammenti di biografia personale appaiono come piccole luci che ci riportano – a chi è della stessa generazione dell’autore o poco distante da quella – a qualcosa che “ci manca” come pure a qualcosa di cui non abbiamo più la percettibilità, per cui oggi è necessario sedersi e ascoltare per poter afferrare.

“Immaginatevi la scena: un mattino di febbraio del, diciamo, 1984, temperatura tendente al gelido e il cielo lassù grigio come la pancia di un topo, una testa zuppa di sonno e generica insofferenza, eccomi lì che scendo dal treno, aspiro l’aria ferrosa della stazione di Siena, mi guardo intorno e decido di farmela a piedi fino a scuola. […] Quindi, indossate le cuffie, inizio a camminare. […] E penso “io” e penso “voi”. Intensamente. Intendo dire che non si trattava semplicemente di una passeggiata mattutina per sfidare gli elementi ed evitare la minaccia del controllore sul bus: era un rituale di identificazione.”

La presenza del qui e dell’altrove, dell’io e del voi ricorre nelle pagine: e io stessa, nello stesso momento in cui sto leggendo, nello stesso momento in cui sto scrivendo, sono inserita all’interno di una dimensione alterata e alternata in una costante e persistente oscillazione. Leggo, appunto, ascolto.

Quell’essere qui e altrove in cui oggi ci ritroviamo tutti, iperconnessi in un fuori che è un dentro, nel dentro di un dispositivo che genera dati quando il fuori (dalla rete) evapora pur essendo ancora presente. Un presentimento.

I momenti, le pagine autobiografiche, il ricordo di Solventi sono anche il nostro ricordo – sia per chi c’era che per chi, arrivato dopo, ricorda i ricordi di chi è venuto prima. I ricordi dell’Altro, un libro che (ri)genera comunità. E lo fa a partire proprio dall’oggetto. Le non-cose, per citare Byung Chul Han, sono nude. L’oggetto – il walkman in questo caso – non è nudo: è un oggetto reale, concreto, che la mano muove, che la mano decide e sceglie.

È sì, il libro, un omaggio al walkman, un’affezione ad un oggetto transazionale, personale ma anche collettivo, un piccolo dispositivo che già nella sua comparsa mostrava i prodromi del futuro che abitiamo, ma non è solo questo: è la traccia di un momento orizzontalizzato, che si condensa in alcune pagine per liquefarsi in altre, quando la liquefazione lascia spazio al pensare.

Le ricorrenti citazioni (di sociologi, filosofi, psicoanalisti) non sono quindi mai lasciate sole, incastonate nella pagina, ma restano sempre in un dialogo assiduo con l’autore – e quindi con il lettore. Diventano presupposto per disporsi a una riflessione da cui spesso tendiamo a fuggire.

Il termine “larvale” torna più volte nel testo, e torna “l’incuffiamento” dell’altro che decide per noi (come accade a Vic), e “l’incuffiamento” deciso e attivo di una scelta voluta. La fruizione della musica si fa allora, attraverso l’utilizzo del walkman, una passeggiata solitaria che estranea dal fuori pur essendo nel fuori. Una posizione riflessiva, che nel suo estraniarsi si connette a una realtà che pur essendo la stessa muta però in consistenza, si liquefa, si dilata, si restringe, si amplifica, danza.

La passeggiata diventa allora metafora di un attraversamento anche sensoriale che è l’incedere stesso del libro. Un libro che mentre leggo “ascolto”. Perché è anche questa la cifra del libro di Solventi: farci ascoltare, farci pensare e pensarci in forma di suono.

“Se il walkman con il suo bozzolo sonoro mi aveva consentito di mettere a punto un equilibrio, di galleggiare in una bolla di possibilità “altre” rispetto al catalogo di percorsi offerto dalla mia situazione concreta (periferica e di ceto basso), il web atterrò nella mia vita di adulto squadernando le prospettive. Prospettive che erano “soltanto” relazionali e culturali, ma costituivano esattamente ciò di cui più avevo bisogno e, in definitiva, fame.”

E questa fame, per quanto in una certa misura inquietante per tutti noi che sappiamo il passato e conosciamo o disconosciamo in attimi e frammenti di sospensione il presente diventa anche straniamento, uno straniamento di cui a tratti non ci accorgiamo e a tratti, in un improvviso o nell’imprevisto, ci appare in tutta la sua potenza.

Perché anche oggi indossiamo le cuffie per ascoltare ed estraniarci dal fuori, ma nel farlo produciamo dati. (Dati, dati ovunque – s’intitola il penultimo capitolo)

Un libro che porta a ricordare sia ciò che abbiamo vissuto (per chi ha portato dentro la tasca di un cappotto un piccolo walkman e una cassetta, per chi l’ha arrotolata con una penna ascoltandone il suono ruvido e impreciso), e ricordare ciò che stiamo vivendo o che stiamo per vivere – dove il ricordare ha due accezioni: quella del tornare indietro e quella del renderci coscienti.
Non solo suono, non solo dati ma anche disegno, tracciato.
Un libro che si pone allora in forma di domanda, che apre alla criticizzazione non solo dell’adesso, ma anche di un allora in cui tutto il presente stava già al suo stato larvale. Ma nell’azzardo un’unica ipotetica risposta all’inquietudine che ci attanaglia a intermittenza di fronte all’altrove che abitiamo nell’oggi:

La nostra missione – scrive Solventi – sia allora: “diventare l’allucinazione della macchina.”

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1 commento

  1. Conosco Solventi come una delle migliori penne della critica musicale in Italia. Sono sicuro che anche nella sua versione saggistico-letteraria sia in grado di sedurre il lettore con la consueta maestria, con il suo stile raffinato e con la sua capacità di legare le opere di cui tratta (in questo caso un device che è comunque opera d’ingegno) al flusso dei mutamenti sociali e storici in cui si situano. Questa recensione mi spinge ancor di più ad acquistare e leggere il libro.. grazie

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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