Su un vuoto, dove Ramy è stato
di Daniele Muriano

Guardo fuori dal finestrino, verso i nuovissimi edifici che ospiteranno gli atleti delle Olimpiadi invernali del prossimo anno, un complesso ormai quasi completato e di rara bruttezza, dove nessun atleta vorrebbe forse soggiornare, se gli fosse consentito scegliere, prigioniero di quelle linee che ricordano una geometria totalitaria della vita e un grigiore di tipo ideologico ma tardivo che stride persino con l’apericena, e l’Aperitutto milanese con le fettine di ananas nel piattino e quelle di lime sul bordo del bicchiere, in compagnia del salame, del tonno, del formaggio e delle crocchette per il gatto spacciate per cibo vegan, e ogni manifestazione di sincretismo alimentare che noi di Milano tanto apprezziamo purché sia ben colorata, varia, incoerente e, insomma, allegra…: dicono pure che la zona “si riqualificherà” in virtù delle Olimpiadi invernali, dove ciò significa che i prezzi delle case saliranno e ci sarà più fatica per le strade, ma le persone saranno più composte, suderanno di meno con questo caldo, cammineranno in modo forse più dignitoso, e i bar avranno nomi più fantasiosi per i soliti cocktail, perché questo è il progresso che cova la città, e io mi sento su una locomotiva, il corusco e fumido mostriciattolo del Carducci, mica il tram Ventiquattro dove il conducente viene protetto da una gabbia d’acciaio nel caso in cui le furie dei passeggeri si facciano pericolose, quando ad esempio – come è successo ieri – un arabo male in arnese rimane con la mano chiusa tra le porte, lui dentro e lei fuori, la mano, per quasi una fermata di tram, senza peraltro protestare neanche di un soffio, ma al posto suo lo hanno fatto i passeggeri, colti da un’improvvisa solidarietà o dalla voglia di menare le mani e le lingue: sono volati insulti verso il conducente in almeno due lingue, vale a dire verso la porta semiblindata oltre la quale il conducente ha fatto finta di non sentire, nonostante abbia aperto le porte liberando la mano dell’arabo male in arnese, che si è seduto pensando ai fatti suoi, cosa che non è piaciuta ai suoi estemporanei avvocati (avrebbe dovuto forse gridare anche lui qualcosa, contro la gabbia del conducente, vale a dire contro l’uomo in gabbia, se non altro per ricambiare l’entusiasmo loro, e anche perché – a ben guardare – l’errore doveva essere parte di un piano più vasto, di amputazione collettiva, forse, o almeno di amputazione degli arti superiori dei milanesi tutti, e se l’arabo non viene considerato di prammatica un milanese vero e allegro al cento per cento, si trattava allora di un piano di amputazione della gente perbene, ammesso che l’arabo sia considerato in automatico un esponente di questa nostra gente perbene, e comunque sia bisogna essere solidali, bisogna avere un’idea politica che copra uno spazio più grande e profondo della pattumiera del sé), e con questi sentimenti, non so quali siano ma questi sentimenti, sono sceso dal Ventiquattro all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, verso sera, nel calore stagnante che riveste l’asfalto butterato di queste parti, e mi sono incamminato verso il locker Amazon, sotto il quale intorno alle nove serali spuntano gli scarafaggi, molto grassi e veloci, neri di un nero simile a quello dell’asfalto nei punti martoriati: ho preso quella strada per non passare davanti all’Altare di Ramy Elgaml, o io almeno lo chiamo così, ma è una semplice ammucchiata di fiori finti – e veri, in un certo senso, perché depositati lì con tristezza, e con verecondia civile e poi, sì, con rabbia, dagli amici e dagli sconosciuti che hanno pianto questo ragazzo, diciannove anni e chissà quanti da vivere, che braccato da una volante mentre scappava in sella a uno scooter impazzito è morto lì, proprio su quel palo, che io ho cercato di aggirare perché fa male vedere i fiori rossi e gialli e finti, e veri, e verosimili anche, mi fa male in modo sbagliato, forse, in un modo che non ci sarebbe se io non avessi abitato a pochi passi, se non mi fossi trovato a una distanza utile per sentire lo schianto, le sirene e quasi per vedere l’anima di questo ragazzo nel freddo e nel vento di quel 24 novembre, mentre dormivo, con le finestre chiuse, protetto dalla mia casa di proprietà imbiancata di fresco, e non ho veramente visto nulla, non ho veramente sentito nulla, se non poi, a pensarci, quando il 25 novembre una notizia di cronaca si è trasformata in una cosa privata, e la cosa privata era evidentemente il palo, quello schifo di palo che ho toccato anch’io con la camicia molte volte essendo un po’ distratto quando attraverso, e che ho visto un’infinità di volte appunto attraversando quella strada, che è anche mia, e mi è sembrato tutto così irreale, incredibile, perché vicino. Ma poi, mentre sono di fianco al locker Amazon e contemplo un pingue scarrafone che ha diritto anche lui di vivere, torno indietro e do un’occhiata, nel tramonto di oggi, 15 giugno 2025, nel giallo denso di speranze forse incivili, all’Altare di Ramy, e rivedo il motorino che ho visto mille volte nei filmati, con alla guida quel pazzo del suo amico, e lo immagino qui, tra i fiori, come parte di un angolo di cimitero. Sì, vorrei prendere a calci quelle lamiere, io che non so nulla di Ramy, e che tuttavia non riesco a passare senza colpa davanti al suo Altare, vengo chiamato a voce forte, adescato a pensare in grande, e poi in piccolo, e poi ancora in grande, finché non mi ricordo di un certo venditore di panini: ma come si chiamava? A… Se pure lo ricordassi, non sarebbe il caso di scriverlo, perché è collegato ai fatti brutali di quella notte, in un modo per me inverificabile (e forse romanzesco, e forse non è il caso di preoccuparsene). Un tizio qualunque ma molto gentile, che non era proprio un tizio qualunque, direi quasi un’Istituzione come può esserlo un venditore di panini il cui chiosco apre alle nove della sera, animando una strada che sarebbe altrimenti (e di fatto lo è, adesso) una linea di scorrimento fredda e impersonale, in un intreccio freddo e impersonale di linee, come diventa la nostra Milano, se vista da un balcone, nello strano svolgimento della sua oscurità. In quel punto c’era lui, il venditore, un uomo veramente simpatico e strapieno di rabbia, un uomo arrabbiato quanto un venditore di panini che, nel buio della notte, vede succedere di tutto: accoltellamenti, risse tra bande di ubriachi, incidenti di macchine ma anche prostitute iridescenti e parecchio tristi che amano raccontarsi all’infinito, e poi fatti come quello brutale del 24 novembre, quando il motorino su cui sedevano Ramy e il suo pazzo amico si è schiantato a quattro, forse cinque metri da lui. Prima dello schianto, prima del 24 novembre, quante volte mi ha raccontato di quanto odiava i neri, gli immigrati, i bastardi che fanno casino per le strade (categorie abbastanza coincidenti per lui) e di come, sicuramente, la pena di morte sarebbe necessaria qui da noi, magari anche per chi ha un certo colore della pelle, o viene da alcuni posti strani e densi di leggende occidentaliste, bisogna farli fuori tutti, diceva lui, mentre io tornavo a casa dal supermercato con le buste della spesa che gridavano vendetta per quanto denaro erano costate, ma la vendetta era lì, in un certo senso, quando questo tizio, gentile e arrabbiatissimo, mi intratteneva ed era calmo, era gentile, ma nelle grinze della pelle e negli occhi azzurri non era calmo e non era gentile, no; sarà che non mi piace fissare la gente negli occhi quando parla, io non me ne curavo più di tanto. Eravamo lì, davanti al suo chiosco, al tramonto se era d’estate o nella media oscurità se era in altre stagioni, con il puzzo della carne che saliva dalle griglie e si spandeva intorno al palo che avrebbe ucciso un giorno Ramy Elgaml, e quest’uomo mi parlava come un fascista, accarezzava il mio cane se ero in giro con il cane, faceva i complimenti alla fidanzata se ero a spasso con lei, sempre dando voce a quella rabbia che serpeggia per la strada, una rabbia impersonale e tuttavia impersonata. Da lui? Ma esisterà davvero quella rabbia… Stranamente l’ho rivista poco dopo la morte di Ramy, nei cittadini che manifestavano vicino al suo Altare, gridando e agitando braccia al cielo, all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti. Era la medesima rabbia del venditore di panini, quella stessa intensità. Eppure la gente che manifestava era proprio l’obiettivo della rabbia del mio venditore di panini: erano tutti arabi, o amici degli arabi, per così dire, gente dei centri sociali (altro bersaglio dei suoi punitivi discorsi), e mi sembrava tuttavia che l’impronta emotiva e forse persino ideologica della rabbia fosse sempre la stessa. Tra chi dice che la rabbia non esiste in sé, e chi dice sia una verità popolare a cui bisogna dare ascolto come se fosse la Bibbia, ci sono loro, gli arrabbiati. Loro sono sempre in mezzo a questi due gruppi che si fanno la guerra di parole. E ora è quasi estate, e fa caldo e non vorrei ricordare la notte di novembre, anche se l’Altare me lo chiede. Quella notte Ramy ha quasi sfiorato il chiosco del mio venditore. Non so se era rabbia o disperazione il carburante che bruciava nel loro motorino, o cosa ha spinto il ragazzo alla guida (l’amico di Ramy Elgaml, che si è salvato dal botto) verso quella follia mortale. So che il venditore di panini ha visto avvicinarsi a velocità folle qualcosa che temeva, proprio nel colore della pelle che temeva (anche se a quella velocità non avrà avuto tempo per riflettere). Lo so, perché nei filmati diffusi dalla Procura, girati dalle telecamere di sorveglianza sopra l’incrocio, si intravede il chiosco. È un bagliore che viene quasi sfiorato prima dal motorino e poi dalla volante dei carabinieri. Si vede distintamente. Lui era là, non ha subito alcun danno. E ora è scomparso.
L’ho cercato, dopo quel giorno. Per anni è stato lì, a quell’incrocio. Ora è scomparso. Ha visto morire Ramy, e dunque è scomparso. Ogni volta che passo davanti all’Altare, mi torna in mente Ramy e così il mio venditore di panini. Ogni tanto mi dico: questa volta scenderò dal Ventiquattro, attraverserò l’incrocio e, accanto al locker di Amazon, vicino all’Altare, ritroverò il chiosco, che per anni è stato l’Istituzione di quartiere (e quel bagliore, e quel profumo che rendeva la strada più sicura in orari universalmente poco sicuri). E invece nessun chiosco, nessuno a parlarmi di faccende un po’ fasciste ma con calore e gentilezza, cosa che mi rendeva difficile opporre una resistenza che non fosse la presa in giro, bonaria, di chi non crede che l’interlocutore stia parlando sul serio. Ma cosa ha visto? Perché è sparito? Me lo sono domandato più volte. Sia leggendo la perizia della Procura, che descrive l’incidente discolpando in ogni modo i carabinieri, sia leggendo la perizia di parte Elgaml, che racconta una diversa verità. Me lo chiedo soprattutto pensando alle chiacchiere del venditore di panini, quando mi risuonano alle orecchie perché sto attraversando lo spazio che il suo chiosco ha occupato per anni: sono chiacchiere innocue, ingenue e minacciose, sicuramente fascistoidi, tutte queste cose insieme. È come se le chiacchiere fossero rimaste lì, accanto al palo che ha ucciso Ramy Elgaml. Palo che in realtà fu sostituito: l’originale, per così dire, è sparito stranamente a poche ore dal disastro, è stato smaltito in gran fretta, malgrado fosse un reperto utile per determinare in sede legale e scientifica le responsabilità dell’incidente; sparito proprio come il piumino che indossava Ramy Eldaml quella notte, anch’esso utile per confrontare le piume che conteneva con alcune delle piume trovate sul parafango dell’auto dei carabinieri, secondo gli avvocati. Ma io non sono avvocato, né un esperto di legge, sono uno che, all’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, sente un vuoto: mancano le chiacchiere, manca il venditore di panini, e ovviamente manca quel ragazzo, e tutto questo accade vergognosamente per prossimità: se lo schianto fosse accaduto altrove, sarebbe un’immagine ora un po’ diversa, e il vuoto avrebbe una forma sicuramente più razionale. Sarebbe un mezzopieno. Non riesco molto a dare dei contorni misteriosi ora a questo vuoto, lo registro e basta, non so se utilmente, rientrando a casa verso il tramonto.

Il racconto tratteggia molto bene vari aspetti significativi delle situazioni che si possono incontrare per le strade di Milano. Non riesco a mettere “Mi piace” per problemi informatici. Proverò a condividere su FB, dove i testi sembrano più visionati, commentati e addirittura letti. Questi sono i tempora e mores.
Mi fa piacere se in questo piccolo testo si intravede la città reale, grazie per la consonanza e per la condivisione su Facebook