Appunti dall’isola

Reportage narrativo dal camposanto

testo e foto di Germana Urbani

Capita. Vai formicolando il mondo vegetale e ti capita, stando in cima all’argine grosso del fiume, di scorgere un’emersione nella piattissima lontananza, un groppo di costruzioni basse e raccolte; lì vicino, magari, un viale di cipressi, ma non sempre, non più.

Mi dicono che non va più di moda tra gli architetti dei camposanti. Anche i cipressi richiedono manutenzione, le amministrazioni comunali vanno al risparmio, “per il bene dei vivi”, affermano, “i morti ormai non sanno più niente”.

Certo non si tratta qui di architettura magistrale, non è il cubo sacrario di Aldo Rossi a Modena: una delle foto di Ghirri più pagate tra quelle andate all’asta negli ultimi anni. Un’istantanea perfetta, probabilmente già sognata molto prima dello scatto.

Me lo vedo il maestro, quel giorno, aprire la finestra di prima mattina, accorgersi della nevicata, del cielo gonfio, arruffare borsa, obiettivi, pellicole e salire in auto veloce pensando “devo far presto prima che cambi la luce o piova”! Fotografando l’enorme cubo rosso del San Cataldo, geometricamente traforato alla perfezione e immerso nella neve, oltre a stampargli un cielo azzurro polvere dietro, cercò per la sua inquadratura anche un albero spoglio che fungesse da contraltare, capace di sostenerne il peso grafico e simbolico di quell’opera monumentale cui è impossibile ancor oggi farsi significato di ricordo o morte. Ghirri scelse un salice piangente, costruì lo scatto in modo che le lunghe fronde scure apparissero in foto appena sopra il cubo in lontananza, a regalargli un’ombra che nella foto non appare.

Il cubo, così come l’aveva pensato l’architetto Rossi, evidentemente non bastava all’artista Ghirri a dire l’altrove, e allora ecco lì: una salicacea, dormiente e viva.

Qui è un’altra cosa. Il piccolo cimitero di Ca’ Zulian è un grano pastello tra l’erba e le coltivazioni, niente intorno. Spicca talmente che pare illuminato, lui solo, da un faro assente.

Per moto continuo dello sguardo che tira in quella direzione, decidi di raggiungere quest’isola. E fin che vai, siccome ti porti dietro già Ghirri, ti segue anche quel racconto di Gianni Celati, quello in cui scrive di come le donne di qui andassero in cimitero quasi ogni giorno a parlare lungamente con i cari estinti, come avrebbero fatto a tavola, la sera, dopo il lavoro. Si dice anche che si portassero piccole sedie, per stare più comode nell’attesa di una risposta. E così ti viene l’idea per nuove foto, cerchi le prove: chissà se ci sono davvero delle sedute in questi luoghi.

Ti accoglie il viale di cipressi che c’è ma ha perduto ogni simmetria e dignità. Si stagliano nell’azzurro chiome color avio squadernate, aperte, rotte da venti che immagini pieni di furioso mare. Ti avvii tra tronchi mozzi, calvi, fuori asse: certamente sguainati per altre battaglie che verranno. Oltrepassando il cancello d’entrata, speri di non incontrare nessuno, ché tu sei qui per rubare ai morti.

Cosa cerchi varcando le ultime soglie? Cosa vai fotografando qui dentro? I presenti ti osservano vigili dalle loro lapidi di ringhiera, si lasciano leggere, si fanno indovinare.

Ti fermi davanti alla tomba di una bella ragazza in vespa, un bianco-nero scattato in una povera corte di reti e galline. Leggi il nome e cognome a voce alta, quasi a evocarla, e quella viene a dirti com’era spavalda a sedici anni, quanta vita aveva da correre. E noti come, pur tra tante tombe lasciate all’incuria, la sua lapide sia sana, i fiori presenti e vividi. Sicuramente sua madre, una vecchia, viene ancora per lei.

Sua madre che sta qui tra gli assenti, le porta i fiori che abbevera quotidianamente nell’orto di casa. Alleva quelli, dopo aver perso lei. A ottobre non dimentica mai, ginocchia a terra, di interrare i bulbi di gladioli e tulipani e narcisi e iris, che sono i primi a venire. Così già a fine marzo, la ragazza in vespa ha la tomba più bella e viva di tutte, due mazzi variopinti che la madre viene a cambiare non appena si sciupano un poco. Ad aprile interra le dalie e le zinnie in vista dell’estate; nel mentre sbocciano le calle, le guarda malinconica: sono candide com’era sua figlia. A giugno le porta i gigli di Sant’Antonio, ne ha di bianchi e di arancioni, le sue vicine di case glieli invidiano molto ma lei fatica a donarne, tutto ciò che cresce nel suo giardino è per la ragazza in vespa. Per la festa dei morti, poi, le fioriscono crisantemi bellissimi, quelle sono piante perenni e forti, danno così tanti fiori che arriva metà dicembre prima che lei porti i fiori finti sulla tomba.

Questa donna anziana fa un giro in bicicletta ogni giorno verso il camposanto. Lo racconta chiacchierando con un’altra sul portone del cimitero: “muovermi mi fa bene” dice “e poi controllo che ci sia acqua nei vasi, che il vento non abbia fatto disastri”.

Magari questa madre un appartamento di ringhiera qui dentro l’ha già comprato, anzi sicuramente, e l’ha scelto lì, accanto a quello della figlia morta più di quarant’anni fa. Gli assenti, specie se sono genitori, non smettono di desiderare l’incontro con chi se n’è andato prima di loro.

Così i coniugi, gli inseparabili, sono sepolti sempre uno accanto all’altro anche se morti a anni di distanza. Perché quando il primo dei due muore, quello che resta compera il calto accanto, rinnovando così, anche nella morte, una promessa di eternità che qualcun altro curerà, forse, con fiori artificiali lavabili. E non è sempre per amore che si fa la doppia lapide. É che nella morte, come nella vita, ci si puntella come si può.

Li trovi gli sgabelli, stanno lì, negli angoli accanto alle colonne. Ne fotografi alcuni che si mimetizzano con le scope e gli stracci con cui le donne puliscono i marmi. Altri sorreggono vasi di fiori, vengono camuffati, stanno in incognito, ché il vero motivo per cui sono lì non si dice, come l’aldilà.

L’aldiquà è fatto di barattoli variopinti svuotati in lavanderia e ammucchiati nei calti di nessuno, pronti ad essere riempiti d’acqua e a colmare i vasi di fiori. L’aldiquà sono vecchie lapidi di gente a cui è scaduto l’affitto e nessuno ha rinnovato il contratto perché di quel morto del secolo scorso si è persa ogni memoria, non si sa più di chi è parente, marito, figlio. E allora il comune fa dei gran mucchi di queste povere tombe e via, scompaiono. Poi parte la ristrutturazione dell’ala antica del cimitero. “Che i morti non sanno niente”, neanche di essere stati vivi, di avere avuto un volto stampato nella ceramica ovale che andrà in discarica con il resto del calcestruzzo che chiudeva la loro tomba.

I calti di ringhiera sono i più pericolosi in questo senso, hanno più mercato. Anche se ultimamente sta tornando di moda la tomba a terra, fa green, “polvere alla polvere” e costa meno, diciamolo. Certo, assicurano le donne chiacchierando in cimitero, la tomba a terra dà più da fare se vuoi che sia dignitosa. Crescono le erbacce, quando piove si sporca tutto, ogni stagione devi rinnovare le piantine.

Tra i tumuli a terra ne noti uno su cui è cresciuto un pioppo, è alto poco più di un metro. Mentre lo fotografi ammirandolo, così impavido spavaldo fuori luogo, pensi che sia meraviglioso, che le sue radici accarezzano i resti di qualcuno che non ha più nome o che forse si chiamava Olmo, chissà! E scattando senti che sarebbe bello che al posto dei marmi ci fossero alberi e alberi e alberi solo alberi.

Certo la manutenzione… Tu sogni troppo, invece occorre essere concreti e previdenti mentre si va verso la fine e focalizzarsi bene su un punto: dall’incuria e dalla discarica ti salvi solo se hai la casetta in cimitero. La gente comune le chiama così le tombe di famiglia. Anche tuo nonno ne voleva una, “per stare tutti insieme”, diceva. Un giorno tornò a casa con un progetto: ottanta milioni di vecchie lire, terra e marmi, quattro o cinque piani tutto compreso. Nessuno lo sostenne in questo suo desiderio di preparare un posto per sé, che sarebbe partito per primo, e per tutti coloro che amava, che sarebbero arrivati dopo di lui a stare con lui, insieme. Il pensiero di quanto lui vi voleva bene ti ferisce profondamente mentre vai fotografando le casette stemmate, piene di oggetti, quadri, piante, specchi. Una è piena di peluches, in un angolo c’è un grande uovo della kinder, lì, fermo, dalla scorsa Pasqua, un lego… Ti allontani in fretta e d’improvviso, in una casettina più antica delle altre con la porta aperta quel tanto da spiare dentro, eccola lì: una sedia impagliata con un rosario appeso alla spalliera, pronto all’uso. Ti fermi per la meraviglia, pare aspettasse te, quasi l’avessero messa apposta. Ti emozioni, entri, ma aspetti ad alzare la macchina, anche se “non sanno più niente” sono lì che ti fissano, ti inchiodano, gli occhi impressi nelle ceramiche lo strillano proprio: profano, vile, rinuncia all’ultimo segreto che ci resta.

Devi far presto, scatti veloce solo due volte, è già troppo, è già sporco bottino.

Ti avvii all’uscita lungo un vialetto secondario, malconcio. Tombe di ringhiera del secolo scorso anche qui. Lumini rotti, foto assenti, buchi pieni di muschio al posto di alcune lettere che componevano il nome del defunto. A che servono le luci ai morti? Tanto “non sanno più niente”.

“Mi raccomando, non dimenticarti di pagarmi la luce quando sarò in cimitero”. La preghiera di tuo nonno ti dondola in mente osservando le tombe di questi sconosciuti. Ti chiedi se la sua ansia di luce Enel fosse generata dalla paura del buio, del vuoto, di ciò che avrebbe potuto non incontrare nell’aldilà. “Vienimi a trovare qualche volta quando sarò qui”, diceva ancora, sicuro, probabilmente, che gli saresti mancato oppure, sperando, di mancarti.

Alcuni morti mancano ai vivi per sempre, non li lasciano più. E anche se la vita intorno a loro continua a crescere forte e, almeno in parte, li inghiotte li mette in ombra, quelli, i morti, resistono fragili e forti come piccoli angeli di gesso intaccati dai licheni, sovrastati, quasi inglobati da un cipresso che nessuno ha il coraggio di estirpare, che non fa male ad anima, né viva né morta.

1 commento

  1. Molto bello. Mi ha fatto pensare al cimitero in provincia dove sono sepolti i morti di parte materna. Lì è accentuata la divisione tra morti e tombe del secolo scorso ( che ogni anno riguardo è riguardo) e la parte nuova, quasi impersonale, ricca di marmi. Grazie

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davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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