Carmen Gallo. Stanze per una fuga
di Davide Toffoli

A proposito di questo volume, che contiene tre libri di poesia, pubblicati dall’autrice tra il 2014 e il 2020 e qui presentati intrigantemente in ordine cronologico inverso, Tommaso Di Dio, ideatore della pubblicazione, ci parla di “un tragitto di poesia, tanto coeso quanto aperto, che fa del paradossale contrasto fra immobilità e movimento, fra paura e desiderio il suo principio di sviluppo” e soprattutto di “una protagonista plurale e anonima che sembra fatta della stessa materia del linguaggio”.
Con STANZE PER UNA FUGA siamo di fronte ad un’opera che riemerge da dieci anni di scritture e pubblicazioni ormai quasi introvabili e che, quindi, presenta il fascino intenso che riescono ad avere scoperte o ritrovamenti capaci di aggiungere preziosi alla nostra conoscenza. Una rassegna di strategie di sopravvivenza, dalla fuga al multi morfismo, dall’impersonalità al nascondimento. Un’indagine dell’intimo, del protetto, del delimitato allo scopo principale di “uscirne vivi”, provando a riconoscersi negli altri, ridendo e commuovendosi di tutte queste piccole e mirate strategie. Un ritorno a casa, in quello spazio-tempo che come noi contiene infiniti altri spazi e tempi, e che sarà sempre alieno e familiare, il più sicuro e il più pericoloso.
L’esergo (con dedica a Ciro e Angela) è da L’innominabile di Samuel Beckett: “Now am fixed, lost for tininess, or straining against the walls, with my head, my hands, my feet, my back, and ever murmuring my old stories, my old story, as if it were the first time.” e chiama in causa sia il tema del limite sia quello del tempo, di fatto centralissimi in tutta l’opera di Carmen Gallo.
Si parte con Le fuggitive, introdotta dalla doppia citazione da Proust e da Nietzsche e dalla teca del museo di Taranto con due figure eternate nel gesto dell’Ephedrismos, antico gioco che consisteva nel tirare una pietra-bersaglio in prossimità del limite. Chi perdeva doveva poi cercarla bendato portando l’altro sulla propria schiena. Un’immagine simbolica che porta con sé la centralità della vista e della necessaria con-fusione con l’altro. Ci muoviamo nell’intimità di una casa, al tempo stesso vuota e popolata di fantasmi, in una suggestiva alternanza di versi e di prose poetiche. “L’avresti detto morto. / E invece respirava e chiedeva qualcosa. / Aveva paura. Ho trovato lo slancio / per rialzarmi e ho cominciato a correre. / Siamo andate lontano, fino a dove c’era fiato”, ovvero fuga come istituto di sopravvivenza, come modo di rispondere ad una paura, come nascondimento (“‹‹Troveremo un altro posto dove nasconderci. / Cominciamo subito. Spegni la luce››”). Un piccolo capolavoro, poi, il testo che chiude la sezione La corsa, che potrebbe somigliare tanto ad una vera dichiarazione di poetica: “Ricostruire l’animale / dalle promesse che è stato / capace di fare. E dimenticare. / Non dalle ossa abbandonate, / ma dalle impronte che si allontanano. / Dalla corsa. Forma semplice. / La storia interna e la storia esterna. / Chi corre ha perso. Chi corre scompare / ma si porta dietro tutto. Chi resta / impara a nascondersi. A non essere niente. / Fingere le ipotesi. Le cose non accadono / a quelli che spariscono”. Del resto cercarsi è nascondersi (“La paura costringe a forme di vita / innaturali, costringe a stare / nella durata di un altro”) e, nella fuga, portarsi dietro ogni cosa (“E’ novembre. Ho trentasei anni. / Mi porto dietro tutti i mei luoghi. / Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno”). Seguono, a chiudere la più recente raccolta, le 22 prose poetiche di Uscirne vivi, chiuse da Superposition, dedicata all’esperimento del 1935 del gatto di Schrödinger, “contemporaneamente sia vivo sia morto” fino a quando non c’è un osservatore che apre la scatola. “Credo di dire ma non accade. Non è reale. / Resto a fissare quei corpi capaci di restare / nel movimento dell’aria e della forza. / Alcuni ridono o piangono, ma nessuno / ha davvero paura”.
Una citazione da Emily Dickinson ci introduce nelle scene oniriche e infestate di Appartamenti o stanze: “ONE need to be a chamber to be haunted, / one need not be a house; / the brain has corridors surpassing / material place”. E difatti tutto si gioca nei “corridoi” creati dalla mente per andare oltre i luoghi materiali. Tra sceneggiatura e racconto impersonale le presenze sono quasi fantasmi, personaggi che devono prendere corpo per uscire dal progetto, dall’idea che li ha creati. “Nei primi componimenti siamo noi a descrivere i personaggi. Noi siamo la terza persona. Quando non riusciamo più a vedere cosa succede, diventiamo una prima persona plurale, ma dura poco. Nell’ultimo componimento c’è una donna che parla in prima persona, e prova a rivolgersi a un tu. L’ultima voce è la sua”. Non ci sono nomi, solo uomini e donne che potrebbero essere tutti o nessuno. Soprattutto sensazioni e sollecitazioni con figure sfuggenti ed enigmatiche che si muovono entro perimetri prevalentemente visivi (“Ogni tanto qualcuna è stanca, / si forma e fuma, seduta sul guardrail. / Noi ci mettiamo in fila / con gli occhi degli altri a guardare”). Anche qui si avverte la presenza di una strategia di fuga, spesso nel nascondimento (“La donna ogni tanto chiama il nostro nome. / Noi accendiamo il televisore / e giochiamo a nascondino / e non ci facciamo trovare mai”). Torna anche la suggestione delle riuscitissime prose poetiche di Noi siamo qui, che preparano all’approdo a La caduta più del salto (“Ho provato a raccontarlo il lancio la caduta / ma poi lui è caduto e cade ancora / ed è caduto lontano e io non l’ho visto”), concentrandosi sul momento (“il momento preciso in cui non importa più se sono io / nella caduta siamo tutti uguali possiamo / non mangiare possiamo non toccare / salvarci la pelle letteralmente”).
Il viaggio si spalanca poi in Paura degli occhi, introdotta da una citazione da Paul Celan, e prende forma nell’apnea dei verbi all’infinito. Una scelta decisa dell’indefinito e dell’impersonale, di una dimensione di possibilità assolute e di una totale potenzialità creativa. Lo sguardo è una vera e propria soglia, una porta che si apre verso la cosa, verso la conoscenza, verso la possibilità di tracciare un limite in qualche modo rassicurante. Non guardare significa scegliere di consegnarci ad una dimensione in cui percezione e realtà arrivano a fondersi, aprendo lo spazio del nostro essere a riflessi, a fantasmi, ad ombre. Lo spazio è molte cose e molti luoghi. La vera costante è il limite (mura, pareti, stanze, finestre). Si cerca di “Misurare il vuoto”, come se fosse parte integrante degli stessi soggetti. Come suggerisce la Dickinson “non devi essere una stanza per essere infestata dai fantasmi, non devi essere una casa”. Ogni spazio è fortemente instabile e quindi sempre sul punto di deflagrare da un momento all’altro. “Nello stretto delle cose / solo gli occhi si danno il cambio / nel buio che non torna / nella voce che non ci dorme accanto / prima degli occhi, al posto degli occhi” e torna quindi centrale la dimensione dello sguardo fino a “ritrovare / negli occhi allineati / una città intera di sassi da scagliare / nel tempo senza ora / l’ordine del giorno /resta quello di guardare”. I tre testi conclusivi sono una sorta di accendersi, spegnersi per poi riaccendersi, quasi a sottolineare il definitivo passaggio dalla dimensione immaginifica del sogno alla realtà ordinaria dove “tutto è in piena luce”. “Come svegliarsi nella luce estrema”, per poi “Nella gravità delle cose / che non cadono // sostenere lo sguardo / del disastro”, e comprendere infine che sarà “Come svegliarsi nella luce intera”.
Per quanto giochi con la forma drammatica, strizzando l’occhio al cinema e alla coreografia, il tentativo di questo libro resta quello di reagire alla paura, intesa principalmente come meccanismo di sopravvivenza: un modo, una strategia per riconoscere pericoli e minacce e per provare ad evitarli, valutando bene di volta in volta se affrontarli o cercare una fuga, un nascondimento. Ogni paura è una forma privilegiata di conoscenza, un rito iniziatico, che costringe ad elaborare una concreta situazione. Una concreta sopravvivenza all’immobilismo o alla paralisi. Scrive saggiamente Andrea Cortellessa che la dimensione del rito e l’ossessione visiva connotano tutta la poesia di Carmen Gallo. E proprio in questa dimensione e in questa ossessione possiamo riconoscere le preziose prospettive di sopravvivenza, che prendono forma e corpo nel linguaggio, in un labirinto di stanze, di prospettive, di immagini e ritmi. In un’esperienza poetica toccante e meta-fisica, che ci accompagna nel cuore della speranza di spingerci sempre più lontano, per lo meno fino a dove ci sostiene il fiato, Carmen Gallo ci mette a disposizione una proposta di sopravvivenza, come detto tra fuga e nascondimento, ben consapevoli che “non tutti i nascondimenti sono felici: alcuni rischiano di essere definitivi e non è ciò che vogliamo”.
Nel suo recente Tecniche di nascondimento per adulti (Italo Svevo Edizioni, 2024), che insiste in fondo su tematiche simili, possiamo leggere che “Anche da adulti la regola del nascondino non cambia. Si conta e ci si nasconde, ma a un certo punto il gioco finisce e si esce tutti fuori”. Forse per farci fuga, per trasformarci in bersaglio sempre in costante e imprevedibile movimento. O forse, semplicemente, per scoprirci ed accettarci vivi.
