La libertà dell’animo tradita: un dialogo con Schiller

di Lorenzo Graziani

 

Molti filosofi contemporanei si sono interrogati sulle ragioni del nostro strano comportamento nei confronti delle opere d’arte che suscitano emozioni negative come tristezza, rabbia o paura. Se nella vita quotidiana tendiamo a evitare queste emozioni, perché invece le cerchiamo nell’arte?[1] Questa apparente contraddizione è stata chiamata paradosso della tragedia – una formula che dice molto più sulla nostra difficoltà a capire il tragico che sul tragico stesso. Forse è davvero arduo spiegare il fascino di opere soltanto tristi o spaventose senza invocare una presunta attrazione per il negativo.[2] Ma nel caso della tragedia – almeno un tempo – il fascino nasceva altrove. Perché un’opera sia davvero tragica, infatti, non basta che rappresenti un’umanità sofferente: deve anche offrire un guadagno cognitivo sul dolore.

Questo processo, probabilmente, era piuttosto evidente per i Greci, tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni. La nozione stessa di catarsi pone ancora oggi non pochi problemi interpretativi, forse proprio perché Aristotele le dedica solo poche e rapide parole, dando evidentemente per scontata una dinamica che per lui e i suoi contemporanei doveva risultare immediata. Iniziava a non essere più così evidente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, periodo in cui gli scritti di Hölderlin e Schiller tornano più volte proprio su questo tema. Ma quella fu anche l’ultima stagione in cui quello che sarà poi chiamato paradosso della tragedia è stato affrontato in termini propriamente tragici.

 

Tragico è l’uomo libero

È proprio Schiller, in due brevi ma densissimi testi – Sul patetico e Sul sublime – a offrirci forse la riflessione più lucida su questo tema. L’artista tragico utilizza il pathos per suscitare nel pubblico un sentimento sublime, una “sintesi tra un senso di pena […] e un senso di letizia”.[3] Poiché un medesimo oggetto non può provocare emozioni opposte, Schiller interpreta questa ambivalenza come la prova dell’esistenza, in noi, di due nature distinte: una sensibile e una razionale. La prima è legata all’istinto e alla “necessità fisica”, mentre la seconda ci distingue dagli animali e mostra la nostra capacità di elevarci al di sopra del piano sensibile. Quando tutto scorre serenamente e il mondo ci premia con il benessere, la componente razionale rimane invisibile. È solo nella sofferenza, quando la parte sensibile vacilla, che la parte razionale può emergere in tutta la sua forza. Così, nel sentimento sublime che nasce dal patetico, è la nostra natura sensibile a provare un senso di pena, mentre quella razionale sperimenta un senso di letizia, perché si riconosce capace di dominare l’istinto e di non lasciarsene sopraffare.

L’eroe tragico, infatti, non è colui che si lascia travolgere dagli eventi, ma colui che accoglie il proprio destino con dignità. Se, al culmine del dolore, resta fedele a ciò in cui crede, la sua condotta diventa prova concreta dell’indipendenza dell’essere umano dalla necessità materiale: il fatto che la natura colpisca i nostri corpi non ci costringe ad abdicare ai nostri principi. Ecco, dunque, la radice della nostra ambivalenza emotiva di fronte alla tragedia: essa rappresenta un’umanità ferita, ma attraversata da una forza che ne rivela la libertà – una libertà che nasce dal fatto che l’uomo, pur essendo parte della natura, non è interamente determinato dalle sue leggi.

Questo, tuttavia, non significa che l’eroe tragico debba essere considerato una figura “buona” nel senso comune del termine. La sua grandezza non sta nella bontà morale delle sue azioni, ma nel fatto che, opponendosi agli impulsi e alle leggi della natura sensibile, egli dimostra la libertà dell’essere umano. In tal senso, il pathos tragico non è morale in sé, ma è ciò che permette all’essere umano di riconoscere dentro di sé la possibilità di agire seguendo una legge interiore, diversa da quella imposta dall’esterno o dall’istinto. Medea, per esempio, compie un atto terribile uccidendo i suoi figli per vendicarsi di Giasone. Tuttavia, proprio perché sacrifica la propria natura di madre, la sua azione assume una forma di grandezza tragica. Non conta tanto che l’azione sia giusta o sbagliata, ma che attraverso il dolore l’essere umano riesca a staccarsi dalla sua parte sensibile, per lasciare emergere una volontà indipendente. In questo modo, la sofferenza tragica diventa la condizione per la nascita di una vera moralità.

La funzione educativa dell’arte tragica – su cui insiste Schiller – non risiede dunque nel proporci il buon esempio, ma nel renderci sensibili alla possibilità che il buon esempio esista: possibilità fondata, come egli scrive, “sull’interesse della fantasia che un’azione giusta sia possibile, vale a dire che nessuna sensazione, per quanto possente, soffochi la libertà dell’animo”.[4] Ed è proprio a questo che serve il patetico: a far emergere, attraverso la sofferenza provocata da una sventura immaginaria, la natura razionale dell’essere umano. A differenza del dolore reale, che spesso ci coglie impreparati e ci annienta, la “sventura artificiale” della tragedia ci trova vigili, nella pienezza delle nostre facoltà interiori. Grazie a questa finzione, il nostro spirito può esercitare la propria autonomia, reagendo non con disperazione, ma con forza, per affermare la sua piena indipendenza. L’arte tragica, dunque, attraverso una simbolica “inoculazione del destino inevitabile”,[5] ci addestra a fronteggiarlo e prepara l’animo a resistere anche quando la sofferenza sarà autentica. Il patetico, dunque, non è un cedimento all’emozione, ma un allenamento dell’anima alla libertà.

Attraverso il dolore, nella tragedia, si apre uno spazio di consapevolezza che nutre il senso di ciò che l’essere umano può diventare. Ma questa consapevolezza non si raggiunge opponendosi realisticamente alla natura, cioè cercando di dominarla con la forza, bensì idealisticamente. Questo accade – secondo Schiller – quando l’essere umano “si separa dalla natura”,[6] annullando da un punto di vista concettuale la violenza che essa può recargli: la accetta, senza che per questo la sua parte razionale venga piegata.

 

Il mondo calcola, l’uomo sparisce

Forse, sebbene immersi in tempi tragici (i sintomi ci sono tutti: dalla ricerca spasmodica di un capro espiatorio allo spirito profetico diffuso), non sappiamo più pensare tragicamente perché abbiamo rinunciato alla possibilità di annullare concettualmente la violenza della natura. Al suo posto abbiamo scelto la via della reazione concreta, un realismo che non cerca catarsi ma controllo, che riconosce come unici strumenti di salvezza la scienza e la tecnica.

Mi viene in mente Leibniz. Era convinto che Dio, nella sua infinita bontà, avesse creato il mondo calcolando la miglior combinazione possibile, e che molte delle contese umane derivassero solo dalla nostra incapacità di cogliere il piano matematico divino. Non c’è bisogno di ammazzarsi: il mondo è matematica, basta sedersi a un tavolo e “calcolare”. Ma l’arretratezza delle tecnologie e l’ottusità dei suoi contemporanei gli impedivano di dimostrarlo. Sognava il giorno in cui l’umanità avrebbe compreso che bastava calcolare per far regnare l’armonia.[7]

La sua sfortuna? Avere avuto ragione sul mondo, ma torto su Dio. Perché oggi viviamo davvero in un mondo immerso nel calcolo. Solo che Dio è morto. E così abbiamo un mondo che ci promette immortalità sintetiche, visto che le azioni di quelle autentiche sono in ribasso da un pezzo. Un mondo in cui chi svolge “attività tecnicamente inutili” viene – come già scriveva Jaspers quasi ottant’anni fa – “annientato senza pietà”.[8]

La meccanizzazione dell’esistenza, con la crescente pervasività della tecnica, ci ha aperto possibilità incalcolabili. Ci ha fatto sentire più forti, offrendo strumenti sempre più efficaci contro la violenza della natura. Ma non nel senso tragico, idealistico, di chi si eleva sopra la propria natura sensibile – bensì come organismi integrati nel e potenziati dal mondo stesso. È così andata perduta quella che potremmo chiamare la gratuità inesorabile con cui, nella tragedia, il destino colpisce l’eroe: una forza cieca e impersonale che si abbatte su di lui senza offrire alcuna spiegazione, sfuggendo a ogni pretesa di giustizia umana. Una realtà che si impone com’è, che va accettata con dignità, ma senza consolazioni. Al posto di questa visione tragica, nella modernità la vita si è trasformata in un’attesa continua, quasi burocratica, che il senso – anche se momentaneamente assente – debba prima o poi manifestarsi: come se ogni dolore, ogni perdita, fossero in debito di giustificazione o di riscatto.

Questa rimozione del tragico ha coinciso con una crescente intolleranza verso ogni valore che non si traduca in utilità pratica. Viviamo in un’epoca che ha fatto del progresso l’unico orizzonte possibile e che relega la finitezza umana a un fastidioso inciampo da superare. In questo contesto, il limite – ciò che nella tragedia imponeva misura e destino – viene percepito non come una realtà da comprendere, ma come un ostacolo da rimuovere. È su questo sfondo che si è radicato il mito di un progresso senza limiti, alimentato dallo sviluppo tecnologico e intrecciato con i grandi processi di quello che qualcuno ha chiamato Antropocene: dalla conquista dello spazio alla globalizzazione, dalla democrazia di massa alla digitalizzazione. In un mondo dove tutto appare migliorabile, ottimizzabile, potenzialmente eterno, la morte stessa assume i tratti di un’anomalia assurda e la coscienza moderna smarrisce progressivamente la percezione del limite. E quando il limite scompare, si diffonde l’illusione che ogni domanda sia destinata ad avere prima o poi una risposta.

Che cosa si è perso lungo il cammino? Si è dimenticato che un approccio puramente tecnico-scientifico – tutto rivolto a opporre una contro-forza alla natura – non basta. Non basta a rivelare all’uomo ciò che lo rende davvero umano. Perché l’uomo è sì un essere naturale, ma non del tutto determinato dalla natura. Aspira alla libertà, una libertà che nessuna legge fisica può spiegare. Schiacciami, natura – ma non sarò mai tuo.

Questa libertà non è data una volta per tutte. È un ideale, qualcosa a cui si tende ogni volta che ci si oppone a ciò che ci inchioda alla necessità: l’istinto, la funzione, il calcolo. L’eroe tragico – lo abbiamo detto – non è buono: è libero. È grande non perché fa il bene, ma perché si stacca dalla sua natura sensibile e, affrontando il dolore, dispiega la sua volontà che lo solleva dalle ristrettezze del normale senso del sé. La sua libertà si rivela proprio là dove non c’è alcun vantaggio, alcuna utilità. Ciò che è davvero libero, infatti, non è utile, né produttivo, né funzionale. E proprio per questo è libero. Non risponde a un comando. Non serve a nulla e non serve nessuno. È fine a sé stesso, eccedenza pura, gesto che non ha bisogno di giustificazione. Vive nel gioco, nell’ozio, nell’arte – in quelle attività che non sono obbligate e che, proprio per questo, ci rivelano che cosa può un essere umano quando non è ridotto a pura funzione.

L’uomo reale, però, non è mai completamente libero. Come scrive nelle lettere sull’Educazione estetica dell’uomo, la libertà è una “consegna della ragione”:[9] un orizzonte verso cui tendere per realizzare pienamente la propria umanità. Nella realtà, l’essere umano è vincolato a un sostrato materiale e solo entro quei limiti può esercitare la propria autonomia, cercando in essi quella forma di eccedenza che resiste alla riduzione all’utile. Là dove, invece, si illude di raggiungere la libertà soltanto attraverso i mezzi della tecnica, si condanna. Perché la tecnica non conosce l’inutile. Respinge ciò che non produce effetti misurabili e non contempla che una sconfitta materiale possa rivelare una superiorità interiore. Ma senza l’inutile – senza quella distanza da sé che solo la sofferenza tragica può aprire – l’uomo smette di essere fine a sé stesso. Diventa funzione. L’illusione di emanciparsi dalla natura con la potenza della tecnica finisce allora per renderci suoi schiavi. Ciò che doveva liberarci ci piega, ci assorbe, ci svuota. Per dirlo ancora con le parole di Schiller:

Una durata sconfinata dell’esistenza e del benessere, solo per amore dell’esistenza e del benessere, è puramente un ideale del desiderio, quindi un’esigenza che può essere posta soltanto da un’animalità che tende all’assoluto. Senza guadagnar nulla alla propria umanità […] perde la felice limitatezza dell’animale, di fronte al quale vanta ora soltanto il poco invidiabile privilegio di sprecare, per l’aspirazione a ciò che è lontano, il possesso del presente, pur senza mai cercare in tutta l’immensa lontananza nient’altro che il presente.[10]

La scienza e la tecnica, insomma, possono colmare il vuoto interstellare, ma non quello esistenziale. Come ci ricorda lo storico francese Pierre Legendre, tutto parte da una domanda fondamentale: “perché vivere?”.[11] Una domanda che tutti gli uomini si pongono – e hanno il diritto di porsi – nel momento in cui entrano nell’esistenza. Le risposte razionali che proviamo a dare a questa domanda, per quanto necessarie, non riescono mai davvero a chiuderla del tutto. Rimane un resto ineliminabile. E se questo resto non trovasse uno sbocco nei sogni, nelle immagini, nelle opere d’arte, rischierebbe di travolgere l’intera esperienza umana.

Se l’unico modo per opporsi alla violenza della natura è contrapporle una forza altrettanto reale, allora tutto viene riportato sullo stesso piano: anche il male finisce per essere spiegato, giustificato, dominato. Se ogni cosa, in linea di principio, può essere ricondotta a una spiegazione naturalistica, allora il mistero svanisce. E senza mistero – afferma Legendre – “la tragedia è liquidata”.[12] La modernità ha prodotto un’umanità che, in un mondo dove l’Altrove è stato sostituito dalla tecnica e dalla “ragion di mercatura”, pretende risposte sempre più chiare, rapide, rassicuranti, per spiegare ciò che non comprende. Ma l’attesa di una risposta che non arriva genera frustrazione. E una volta rimossa, poiché inaccettabile, la gratuità inesorabile dell’accadere, resta solo l’aggressività.

Ecco perché le narrazioni cospirative hanno così successo oggi. Queste storie mettono in scena conflitti che sembrano tragici, ma che sono privi di autentica complessità. Il male, in questo contesto, non è qualcosa da interrogare, ma solo da smascherare: sempre spiegabile, sempre localizzabile, sempre attribuito a un colpevole.

L’Abisso viene negato. E, negandolo, gli apriamo la porta. Così, nel mondo occidentalizzato e ottimizzato, la vittima sacrificale non è più il capro espiatorio. È l’umanità stessa.

*

NOTE

[1] L’inizio del dibattito contemporaneo sull’argomento può essere fatto risalire all’articolo di Susan Feagin, The Pleasure of Tragedy, in “American Philosophical Quarterly”, 20, 1983, pp. 95-105.

[2] Daniel Fessler e colleghi definiscono così il “bias di negatività” riscontrato nella psicologia umana: “rispetto agli eventi positivi, gli eventi negativi catturano più prontamente l’attenzione, sono immagazzinati più facilmente nella memoria […] e producono maggiore slancio motivazionale” (Daniel Fessler et al., Negatively-Biased Credulity and the Cultural Evolution of Beliefs, in “Plos One”, 9, 2014. doi.org/10.1371/journal.pone.0095167).

[3] Friedrich Schiller, Sul sublime, in Del sublime, a cura di Luigi Reitani, Abscondita, Milano 2017, p. 71.

[4] Id., Sul patetico, in Del sublime, cit., p. 62.

[5] Id., Sul sublime, cit., p. 80.

[6] Ivi, p. 68.

[7] Si veda Gottfried Wilhelm Leibniz, Dissertatio de arte combinatoria (1666).

[8] Karl Jaspers, Origine e senso della storia, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 137.

[9] Friedrich Schiller, L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere, a cura di Guido Boffi, Bompiani, Milano 2021, p. 185.

[10] Ivi, pp. 261-3.

[11] Pierre Legendre, La fabbrica dell’uomo occidentale seguito da l’uomo come assassino, a cura di Massimo Rizzante, Mimesis, Milano-Udine 2025, p. 27.

[12] Ivi, p. 51.

6 Commenti

  1. Grandissimo intervento, e centrale. Ogni volta che si legge qualcosa di grande e bello si rischia davvero di diventare migliori e porre i semi per una libertà che non sia solo quella individuale. Schiller e Goethe rappresentano due fari dell’umanità e andrebbero sempre riletti! Complimenti.

  2. Caro Lorenzo:

    aderisco in toto a questa tua riflessione sulla “rimozione del tragico” nell’epoca contemporanea e del nesso che questa rimozione ha con la fede nella soluzione “tecnica” di tutti i problemi umani. E trovo che tu esprima chiaramente un punto, che penso malgrado tutto risulti oggi assi oscuro (almeno nel discorso pubblico). Cito uno dei passaggi centrali del tuo intervento:
    “È così andata perduta quella che potremmo chiamare la gratuità inesorabile con cui, nella tragedia, il destino colpisce l’eroe: una forza cieca e impersonale che si abbatte su di lui senza offrire alcuna spiegazione, sfuggendo a ogni pretesa di giustizia umana. Una realtà che si impone com’è, che va accettata con dignità, ma senza consolazioni. Al posto di questa visione tragica, nella modernità la vita si è trasformata in un’attesa continua, quasi burocratica, che il senso – anche se momentaneamente assente – debba prima o poi manifestarsi: come se ogni dolore, ogni perdita, fossero in debito di giustificazione o di riscatto.”
    Questo è un punto spaventoso, ed è anche il tema di un magnifico saggio di Huxley del 1931 “On grace”: https://hackneybooks.co.uk/books/364/1120/OnGrace.html
    E’ un punto spaventoso non solo per l’uomo capitalista e tecnologico, ma anche per l’uomo democratico. E’ il punto in cui lo sforzo collettivo per limitare le ineguglianze tocca un limite invalicabile. Anche i marxisti più lucidi sono ovviamente consapevoli di questo aspetto, come Fortini (si rilegga in proposito la voce: “comunismo”, da lui redatta).
    Ho solo due punti da sollevare.
    Il primo riguarda la “democrazia di massa” che tu inserisci in fenomeni come la digitalizzazione o la globalizzazione. Mi sembra che se si è democratici, e consapevoli del limite tragico che minaccia anche ogni più assiduo progetto democratico, non si puo’ che esserlo per “tutti”. In altre parole, la democrazia di massa non mi sembra una sorta di degenrazione della democrazia. Semmai oggi vediamo che essa è sopratutto una promessa non mantenuta.
    L’altro punto è forse più difficile da articolare per me. L’antinomia sensi (natura)-ragione (libertà) di matrice kantiana che sostiene il discorso di Schiller presume che la dimensione tragica sia un tratto di cio’ che è umano rispetto a cio’ che è animale. E’ l’uomo che fa l’esperienza tragica, non l’animale. Ecco, sento che questa necessità di “definire” che cosa sia “propriamente umano” è oggi problematica. E scorrendo la storia della filosofia (o anche solo delle idee) sembra che sia una vera ossessione quella nostra, di esseri umani, per trovare il tratto distintivo dal resto del mondo vivente. Non so. Credo che dovremmo provare a pensare il concetto di umano e umanità in maniera un po’ diversa da chi ci ha preceduto.

    • Caro Andrea,

      intanto grazie per il testo di Huxley, che non conoscevo.

      Quanto alle tue “obiezioni” (se posso chiamarle così), ti direi questo: non penso che la democrazia di massa sia una degenerazione della democrazia, però è evidente che porta con sé dei problemi, che si amplificano nel clima di disinteresse generale in cui viviamo. Nel mio testo, almeno nelle intenzioni, non la tratto in termini (unicamente) negativi: la metto accanto ad altri processi (tipo la conquista dello spazio) che sono stati traguardi umani importanti, ma che si rivelano anche problematici se li guardiamo da un certo angolo.
      Sul secondo punto che sollevi, non so bene come risponderti, ma ci provo. Se il senso della tua obiezione è “perché solo l’uomo e non anche l’animale può fare esperienza tragica?”, ecco… io non so davvero cosa passi per la mente di gatti, capre e conigli, ma mi pare rischioso attribuire loro i nostri stessi dilemmi. Alla fine, anche questo, in un certo senso, rischia di essere un modo sottile di rimanere antropocentrici.
      Detto questo, condivido la tua idea che bisognerebbe imparare a “essere umani” in modo diverso da come lo siamo stati finora. Ma non ho nessuna voglia di smettere di essere umano e retrocedere ad animale solo per un senso di colpa (generazionale?). Sarò pure sordo alle sirene post-umaniste, ma continuo a credere che tra essere umano e animale (e, già che ci siamo, tra essere umano e IA) esista una differenza sostanziale. Solo quantitativa? Forse. Ma allora, come diceva quello, a un certo punto la quantità diventa qualità.

  3. Grazie Lorenzo delle risposte. E mi hai permesso di riformulare più chiaramente la mia seconda perplessità. Nessun post-umanismo, da parte mia. E neppure una sortia di equivalenza umano=animale, dal momento che l’umano è anche animale, ma è senza dubbio un animale molto particolare. Il punto che volevo sottolineare non è: “perché solo l’uomo e non anche l’animale puo’ fare esperienza tragica”, ma: “come la mettiamo con tutti gli esseri umani che NON fanno esperienza tragica, che sono nella rimozione di questa esperienza?” Dobbiamo allora dire che non sono umani, che non sono abbastanza umani, che sono disumani, ecc.? Dico questo pensando anche ad altre cose; ho l’impressione che le nostre definizioni dell’umano siano più normative che fattuali. Vorremmo che l’umano facesse esperienza del tragico. Ma, allora, significa che non vi è nessun tratto ontologico, incistato nell’essere dell’uomo, che implica questa esperienza del tragico. E’ solo un nostro modo (nostro ma anche di altri popoli, e di altri tempi) di concepire l’umano in questa maniera. Questo cambia un po’ le cose allora: non ci sono barriere ontologiche che impediscono all’uomo di fare certe cose. Io vorrei dire: non ci sono limiti al divenire inumano dell’uomo (ovviamente in un’ottica normativa). L’uomo inumano o disumano è perfettamente umano come, eventualmente, le sue vittime, altrettanto umane. Spero di essermi spiegato meglio.

    • Grazie a te per i preziosi spunti di riflessione. Ora ho compreso meglio ciò che intendi: più che una breve risposta, il punto che sollevi richiederebbe un nuovo saggio (e probabilmente rimarrebbe comunque inesaurito). Come osservi giustamente, coinvolge infatti molte “altre cose”. Perciò, quello che segue non è tanto una risposta definitiva, quanto un tentativo di abbozzare un commento.
      Hai ragione nel dire che il concetto di umanità a cui mi riferisco è più normativo che descrittivo: sì, lo è. Ma, in fondo, non conosco una definizione “umanista” che non lo sia, almeno in parte. È forse un limite, ma anche un merito: l’idea che essere umani non sia un dato biologico acquisito alla nascita, bensì qualcosa che va continuamente conquistato. Non credo che questo vada inteso come: “solo chi si guadagna il titolo di essere umano ha diritti, gli altri no”. Piuttosto, come un’esortazione a sviluppare quelle qualità che ci fanno davvero degni di quel titolo. Non parlerei necessariamente di qualità “morali” (la parola è scivolosa), perché penso che esista anche una dimensione pre-morale o extra-morale dell’essere umano.
      Schiller, d’altronde, era pienamente consapevole del carattere normativo del suo concetto di umanità: altrimenti non avrebbe scritto le “Lettere sull’educazione estetica”, che hanno proprio lo scopo di insegnare all’umano a diventare umano. Direi anzi che la tua osservazione — “non ci sono limiti al divenire inumano dell’uomo” — Schiller l’avrebbe molto probabilmente sottoscritta.
      Vorrei aggiungere un’ultima considerazione. A differenza di molti altri umanisti, che tratteggiano l’ideale di umanità in maniera quasi caricaturale e unilateralmente positiva, Schiller non lo fa. Al contrario, insiste sul fatto che lo “stadio estetico” non è affatto morale: rende soltanto possibile la morale. E l’eroe tragico, infatti, non deve necessariamente essere “buono” (basti pensare all’esempio di Medea, tra i tanti). L’essere umano tragico è libero, ma questa libertà non gli impedisce di massacrare vittime altrettanto umane. È forse più saggio (più consapevole di sé?), ma non sono certo che saggezza e bontà siano legate indissolubilmente.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Da “Fame di mia madre”

di Yara Nakahanda Monteiro
traduzione di Nicola Biasio. Consulto scatole su scatole di documenti in una stanza umida e senza ventilazione. Non entra aria fresca. Continuo a sudare. A tratti vorrei mollare, ma resisto. Resisto come le donne combattenti nelle fotografie di identificazione dei fascicoli individuali. Le facce sono austere. Nere, mestiças e bianche.

Il romanzo, la morte. Su un falso diario di Rino Genovese

di Tommaso Ottonieri
L’avventura, contorta, frantumata, rimontata a pezzi, gelidamente grottesca, di un tarchiato e semisfatto anestesista fascio-seduttore, turista sessuale sordido e vuoto di qualsiasi straccio di dis-eroicità tenebrosa: un “puttaniere nero”, al modo salgariano (suo abbassamento parodico)...

Technical Ecstasy

di Emanuele Canzaniello
Il romanzo di cui vengono anticipati qui due capitoli, da due momenti distanti del libro, orbita intorno al fantasma abbacinante e inabitabile dell’orgasmo. Una pillola neuro-ormonale è diffusa nel mondo e ha alterato per sempre l’orgasmo umano...

Monologo polifonico: su “Eco” di Cesare Sinatti

di Francesco Scibetta
Seguiamo infatti la vita della protagonista sempre defilati di un passo, attraverso lo sguardo e la voce delle persone che la incontrano: una zia, un’amica, il fratello, un professore universitario. Gli otto capitoli del romanzo corrispondono a otto flussi di coscienza di personaggi di provenienza e caratteristiche eterogenee. Ognuno di loro vede Resi come una persona diversa...

presque un manifeste #2

di Francesco Ciuffoli
Bisogna infatti ricordare che dove c’è innanzitutto un Reale – lacaniano, materiale e storico –, da decenni afflitto da un progressivo processo di annullamento e svuotamento –, vi è (e vi sarà sempre) anche un Virtuale che cercherà di infestare e colonizzare con forza il nostro mondo,

Gaza o del doppio tradimento dell’Occidente

di Andrea Inglese
Propongo una lettura parallela di "No Other Land", sguardo sulla Cisgiordania tra 2019 e 2023, e "Un giorno tutti diranno di essere stati contro", sguardo sull'Occidente a partire da Gaza (2023-2025).
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: