Quell’amore lì

(Da ieri è in libreria il romanzo d’esordio di Linda Farata, autrice che qui su Nazione Indiana abbiamo già conosciuto, in quanto partecipante (e finalista) del concorso “Staffetta Partigiana”. Con vero piacere pubblico un estratto dal romanzo, ringraziando l’editore che ce lo ha concesso. G.B.)

di Linda Farata

Poi le tornò in mente una cosa, una cosa che non le tornava in mente da tempo, o che forse non le era più tornata in mente dalla volta in cui era successa. Era quando il padre aveva comprato la barca a vela, diversi anni prima, quando lei doveva avere sette, massimo otto anni. La teneva nel porto di Livorno, i primi tempi, era lì che l’aveva comprata: un affare concluso tramite un cliente. Voleva prenderci la mano prima di spostarla in Liguria. Era primavera inoltrata, forse maggio, non ancora estate del tutto. Il padre li aveva caricati tutti in macchina la mattina presto di un venerdì – ci volevano almeno tre ore ad arrivare a Livorno, non voleva perder tempo. E c’era qualcosa in lui quel mattino, una certa esuberanza, un’allegrezza così diversa dalla rabbia distante di sempre, che nessuno osò protestare per l’alzataccia o litigare per il posto davanti o lamentarsi per la fame durante il viaggio. Era un’eccitazione contagiosa, quella del padre, e non solo perché rara: nella sua gioia c’era la stessa quantità di energia che c’era nella sua rabbia e nella sua frustrazione. Ciò che normalmente appesantiva in casa – quel senso che fosse perennemente deluso da tutto ciò che veniva detto e fatto intorno a lui – ora alleggeriva l’atmosfera nella macchina, e il vento che entrava dai finestrini abbassati, i raggi del sole che apparivano e scomparivano dietro i filari di alberi, il modo in cui la luce rimbalzava sulla carrozzeria delle poche macchine in circolazione. Ricordava poco del viaggio in barca in sé, solo la faccia seria del fratello quando il padre gli lanciava comandi indecifrabili che suonavano come parolacce. Cazza la randa, batticulo a prua, ormeggio di poppa. Le sue spalle ancora bianche, coperte di nei, piegate su scompartimenti pieni di corde che a lei non lasciavano toccare. Ed era strano il modo remissivo in cui Massimo obbediva agli ordini del padre, il modo in cui chinava appena la testa quando lo riprendeva per aver sbagliato una manovra. Come se la gioia di poco prima avesse avuto l’effetto di ammansirlo. Come se fosse più difficile deluderlo, ora che sembrava contento.

Erano arrivati sull’isola, a Capraia, a pomeriggio inoltrato. Avevano ancora un paio d’ore prima di doversi lavare per la cena, e mentre i genitori prendevano il sole, sdraiati a poppa, Massimo le aveva detto di seguirla. Agnese pensava di sapere quel che sarebbe successo, e avrebbe preferito restare sulla barca ormeggiata a tuffarsi in acqua e risalire su per la scaletta d’acciaio. Ma l’aveva comunque seguito, come aveva sempre fatto. Avevano nuotato fino a una caletta poco distante dalla barca, protetta da un semicerchio di rocce quasi rossicce. Massimo le aveva detto di arrampicarsi sulla parete di roccia, lasciandola andare per prima. Lui stava dietro, ad assicurarsi che non cadesse. Ed era come se Agnese riuscisse a sentire ancora la ruvidezza della pietra, il modo soddisfacente in cui aderiva alla pelle, la mano del fratello che le sorreggeva la schiena aiutandola a salire in alto, sempre più in alto, finché non raggiunsero la cima e in fondo, all’orizzonte, videro il sole riflesso sulla distesa d’acqua, che più che una distesa sembrava una somma di figure geometriche spigolose a tratti blu notte, a tratti trasparenti, a tratti gialle di luce riflessa. Massimo la raggiunse e le disse Hai visto dove ti ho portata, ma lei era agitata perché temeva che avrebbe voluto farlo anche lì, in bilico sulla cima di quella parete rocciosa, invece si era solo seduto con le ginocchia piegate e le braccia abbracciate sopra le gambe, la faccia nel sole, e sembrava che sorridesse. È stato bello, aveva detto allora Agnese, e lui si era voltato a guardarla. È stato bello oggi, il viaggio in barca. Sì, aveva annuito lui, e le aveva fatto un po’ male, perché con la luce obliqua del sole sembrava avesse gli occhi pieni d’acqua, e la guardava in un modo in cui non l’aveva mai guardata prima, come se fosse triste, come se avesse dentro un pozzo di tristezza così fondo che non riusciva a trovarne l’uscita. Non l’aveva mai visto così. L’aveva visto arrabbiato, l’aveva visto infuriato, l’aveva visto anche un pochino triste, ma poco, mai così, mai così pieno di blu e di buio che sembrava confondersi con le profondità del mare dietro di lui. E allora si era messa a piangere, senza riuscire a controllarsi, spaventata da quel buio o forse solo triste anche lei, tristissima come lui, anche se quella giornata era stata così bella, piena della gioia elettrica del padre, con nessuno che litigava, e il vento in barca che le faceva andare i capelli in faccia e a nessuno importava, a nessuno quel giorno era importato niente se non andare veloci sulla superficie dell’acqua, e allora perché piangeva, perché aveva così paura di quella faccia triste che ora si spezzava in due davanti alle sue lacrime, si spezzava come un ciocco di legno sotto il peso di un’ascia, e non ci poteva credere ma Massimo, Massimo piangeva anche lui, con la faccia contorta, raggrinzita, anche lui piangeva ed era una scena assurda, fratello e sorella in bilico sulla roccia, a precipizio sul mare, che facendo attenzione, aggrappandosi alle pietre più grosse, riuscirono a raggiungersi per abbracciarsi, lui col corpo caldo di sole, lei col corpo piccolo di bambina, stretti in un abbraccio pericolante, singhiozzandosi nelle orecchie. Restarono così, con le casse toraciche che tremavano. Restarono così finché Massimo non si staccò, prese Agnese per le spalle e le disse Scusami. Scusami, le disse, e lei non chiese di cosa, perché non ce n’era bisogno, perché aveva sette anni o massimo otto ma non aveva bisogno di chiedere al fratello perché le stesse chiedendo scusa. Poi si erano asciugati le facce e si erano buttati in mare per nascondere le tracce di tutto quello che era appena successo, e da quando avevano rimesso piede sulla penisola, due giorni dopo, poco dopo l’ora di pranzo, tutto era tornato a essere come prima. Il padre era infuriato perché c’era stato un incidente sulla Cisa, alla madre era venuto il malumore dopo aver visto il nome della persona che aveva chiamato il padre la sera prima, Massimo si era richiuso dentro se stesso, non parlava se non per mandare a cagare, e non guardava Agnese in faccia da quando l’aveva fatto e si era messo a piangere. Quella sera, poi, di nuovo a casa, era entrato in camera sua e aveva fatto e preteso tutto ciò che aveva sempre fatto e preteso prima di quel fine settimana di maggio. Questo era tornato in mente ad Agnese, sdraiata sul letto, immersa nel buio d’una stanza che non le apparteneva più.

©Jamie Graham

Linda Farata, Quell’amore lì, Bompiani, 2025

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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