Milano, a place to bye

di Gianni Biondillo

(ho la sindrome di Cassandra. Mi accorgo di scrivere sempre le stesse, inascoltate, cose)

Fossi ricco sarebbe bellissimo vivere a Milano. Lo spiega perfettamente un manager in una intervista al Financial Times: “Portofino è a due ore di macchina; in 45 minuti si può pranzare sulla terrazza di Villa d’Este sul Lago di Como; e in tre ore si possono raggiungere St. Moritz, Megève o Verbier”. Il problema è che non sono ricco. E io quei posti, anche se sono nato e cresciuto a Milano, non li ho mai visti.

Faccio Biondillo di cognome, non Cazzaniga o Brambilla. Sono un milanese “doc”, figlio di una siciliana e di un campano che negli anni del boom cercarono fortuna a Milano. Figlio, insomma, di quel sottoproletariato che cercava a Milano un posto dove emanciparsi. Sono figlio di una Milano novecentesca che non esiste più.

Modernizzarsi, adeguarsi al cambiamento, spesso guidarlo, è una prerogativa di Milano, non dovrebbe spaventarmi quest’ultimo cambio di rotta, che va avanti da ormai un quarto di secolo e che ha avuto una spinta decisiva grazie alla flax tax voluta da Renzi nove anni fa. Da sempre, dai tempi di Bonvesin della Riva, nascere a Milano non è un obbligo. Si sceglie di essere milanesi. C’è sempre stato come un patto: dimmi cosa sai fare, qui lo potrai fare. Il patto però era esteso a tutti. Fin dall’Unità d’Italia, fin dalla nascita del mito della “capitale morale”, passando per la ricostruzione post bellica, la Milano borghese, capitalista, imprenditoriale, progrediva se tutta la città progrediva. Al Capitale conveniva investire nella città e nei suoi abitanti. Milano era una città inclusiva, insomma. Io sono figlio di quella città. Io, figlio di due analfabeti, ho studiato e ho trovato con fatica il mio spazio. Oggi gli ultimi milanesi che mi somigliano sono i figli degli srilankesi, dei moldavi, dei magrebini, che hanno fatto le elementari con le mie figlie.

Poi il turbocapitalismo globale ha sparigliato le carte in tavola.

Vista da fuori la mia sembra la deprecabile lamentela di un vecchio nostalgico. Milano è più che vitale, ha aumentato di centomila unità i suoi cittadini, continua, insomma ad essere una città attrattiva. Non è così semplice (non lo è mai). In questi ultimi vent’anni sono arrivate in città cinquecentomila persone e se ne sono andate almeno quattrocentomila. Questo significa che oltre un terzo degli attuali milanesi non ha alcun legame affettivo, storico, familiare, con la città. Cos’è successo? Che la forbice fra i ricchi e i poveri si è allargata a dismisura. Il ceto medio, quello che reggeva simbolicamente le redini della città, si è impoverito, il proletariato è scomparso, il sottoproletariato è cresciuto senza posa. In città sono arrivati o i nuovi ricchi – gli influencer, i calciatori, i manager della finanza – o i poverissimi che vivono di una economia parassitaria. Extracomunitari che fanno i rider, le pulizie, i lavapiatti, le badanti. Cosa accomuna i due gruppi? L’indifferenza al territorio. Per i primi Milano è un posto come un altro che ha il “plus” della millantata qualità della vita (la “dolce vita” scrive il Financial Times, dimostrando come ancora nel mondo siamo raccontati per luoghi comuni), ma quel che conta è pagare di tasse una miseria per almeno quindici anni, poi, si cambia città. Vancouver o Praga, Sidney o Helsinki, è poco importante. Ad essere ricchi si sta bene ovunque, sopratutto se fai i soldi con la finanza, non con la produzione. Per i secondi non c’è radicamento perché sono stati scientemente espulsi fin da subito, simbolicamente e praticamente, dalla cittadinanza (non hanno diritto di voto, non hanno voce in capitolo, non esistono per la politica).

Chi è andato via, invece, è chi non ce la fa più a reggere economicamente le pretese economiche della città. Milano costa come Londra ma ha gli stipendi di Reggio Calabria. Chi apparteneva, per titolo di studio, alla piccola borghesia non ce la fa più: impiegati, docenti, infermieri, ma anche giovani architetti, scienziati, medici, ingegneri, avvocati. Quest’ultimi neppure cercano casa nella città metropolitana. Se ne vanno via direttamente dall’Italia.

La continuità amministrativa fra giunte di destre e di sinistra, a Milano, è stata il motore che ha fatto della città una “place to be”. Ma non per tutti, solo per chi se lo poteva permettere. Non basta essere una città ricca, occorre che parte di quella ricchezza “estratta” dalla città venga restituita in servizi e infrastrutture. Altrimenti, appena i ricchi troveranno un altro posto dove svernare, qui resteranno solo macerie. Mi spaventa il paesaggio a venire.

(precedentemente pubblicato su Repubblica-Milano, il 31 agosto 2025)

1 commento

  1. Sì, sì, ho messo un mi piace, ma che malumore sento, è quello che vedo materializzato qui, intorno a me, a Torino, quella che dicevano grandiosamente, superbamente la capitale della FIAT, ch’è s’è spopolata, è diventata una città di vecchi, me compreso…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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