Dietro il vaso

[Barenboim · Berliner Philharmoniker]
di Giuliano Tosi
Non si può guardare un quadro senza immaginarlo in frantumi.
Nella densa nebbia milanese dei suoi novant’anni, a Francesco Hayez erano rimasti solo due ricordi chiari e distinti della sua infanzia veneziana.
Il primo era popolato di maschere scure e candide scollature.
Dopo Austerlitz, i francesi erano tornati padroni di Venezia e la città si era riempita di sfrenata allegria: teatri e feste, balli e concerti invitavano la popolazione a godere della libertà. Francesco aveva forse tredici anni e, una sera, gli zii, presso i quali viveva, lo portarono a vedere le maschere nel Ridotto teatrale vicino a Piazza San Marco.
Il Ridotto era un turbine di risate e grida, di oro e cipria, verdi rossi e gialli da far girare la testa. Lo sguardo del ragazzo riconobbe i lugubri contorni della baùta, il chiarore osseo della larva, la gnaga miagolante, ma a catturare il suo sguardo fu il nero velluto delle morete, mute e seducenti. Gli occhi di quello che sarebbe stato il più grande pittore di nudo del suo tempo si persero lungo le linee morbide dei corpi femminili discinti, tornarono poi ad accarezzare il velluto nero di quelle guance e si fermarono a cercare negli occhi bui della maschera la promessa di uno sguardo che ricambiasse lo sguardo.
Quando la zia si accorse di quanto stava accadendo, ruppe l’incanto e lo trascinò fuori dal Ridotto. Ma il turbamento del ragazzo era stato profondo. Non solo lo spinse a una fallimentare fuga da casa per tornare di nascosto a spiare quella visione che dava le vertigini, ma addirittura non lasciò la sua anima fino all’episodio che costituiva il suo secondo e più importante ricordo. Poche settimane dopo, Francesco passeggiava solo per le calli in un mattino spesso di umidità. Come gli accadeva di continuo da quella sera, era inquieto e nervoso, come se si aspettasse di veder comparire ad ogni finestra o sotto ogni balcone, sopra ogni ponte o al centro d’ogni campo, dentro ogni barchino di passaggio e perfino sulla superficie verde delle acque, una donna discinta e mascherata dallo sguardo profondo e buio.
D’un tratto una voce alta sopra la sua testa gridò: – Attento!
Guardò in alto e vide un vaso oscillare per un attimo su un davanzale, e due bellissime mani che si sporgevano bianche dal buio e afferravano il vaso.
Tutto si fermò, un’immagine perfetta si compose: il vaso pieno di fiori luminosi, il gesto delicato e forte delle mani, il volto della ragazza che, affondato nel buio, si intuiva appena.
Francesco rimase a bocca aperta, senza respirare. Poi le mani della ragazza scomparvero nel buio e tutto si placò. Al ragazzo scese in corpo un calore quasi amoroso che lo fece pittore.
Nel corso della sua lunga vita, quella visione lo aveva accompagnato, a volte inseguito, forse addirittura ossessionato. Di tanto in tanto l’aveva perfino sognata. E tutte le volte il sogno si concludeva con il vaso che cadeva dalla finestra – vittima di sbadataggine? maliziosamente spinto? – e andava in frantumi. E tutte le volte il pittore si svegliava prima di poter vedere il volto della ragazza incorniciato dalla finestra.
E ora, raggiunti i novant’anni, quella visione è così lontana da dubitare di averla mai vista con gli occhi, da sospettare che sia stata sempre e solo un sogno. Ora, a novant’anni, è giunto il momento di fermare su una tela quel miraggio lontano che gli ha indicato la via.
In pochi giorni febbrili organizza dettagliatamente tutto quanto occorre. Fa costruire nel bel mezzo del suo studio milanese la finestra come la ricorda nella sua immaginazione. Sceglie con cura esasperante il vaso. Riempie ogni angolo con decine di mazzi di fiori diversi. Allestisce un vero e proprio palcoscenico, in cui le luci e le ombre sono perfettamente dosate. Infine costringe la nipote Giuseppina, dalle bellissime mani, a decine e decine di sedute.
Nel quadro che nasce da questo travaglio, le linee della finestra e del vaso sono avvolgenti ed eleganti, i fiori esultanti di luce e di colore, il gesto delle mani delicato e forte come quel giorno.
Ma, se solo lo spettatore si prende il tempo, dopo essersi fatto incantare dal turbine di colori e di luci e di linee sinuose e seducenti, gli accadrà di affondare lo sguardo nel buio dietro il vaso, laddove un volto emerge appena. E lì si perderà.
Quando il dipinto fu concluso, Hayez fu assai reticente nello spiegare perché, senza alcuna commissione, avesse dipinto quel soggetto. Si decise, allora, di proporlo come un quadro esotico, e il titolo, Vaso di fiori sulla finestra di un harem, venne scelto con questa intenzione. Nessuno aveva capito che i tratti orientali dell’opera erano, in realtà, quelli di una città poco lontana, appoggiata sulle acque di una laguna come una ninfea.
L’opera venne accolta assai freddamente e non trovò acquirenti. Hayez, solitamente così sensibile al giudizio altrui, rispose questa volta con un
sorriso e si tenne il dipinto. Negli ultimi mesi di vita lo contemplò ogni singolo giorno, ma a nessuno rivelò mai che lo riteneva la sua opera più importante.
In quella ragazza, che non possiamo vedere e non possiamo non scrutare, Hayez trovava quel che aveva cercato per tutta la sua lunga vita. Per quel pittore, che costringeva i suoi soggetti a sedute estenuanti per rendere tutto scrupolosamente dal vero, ma che al tempo stesso riteneva il verismo un pericolo insito in tutte le arti, quella visione conteneva l’intuizione che il vero non si può vedere, ma solo immaginare, che il vero lampeggia appena in fondo agli occhi vuoti e bui di una moreta.
Si racconta che Hayez, negli ultimi giorni di vita, scaraventasse dalla finestra ogni vaso che gli capitasse a tiro. E rimanesse a rimirare i cocci sul selciato, ignorando beatamente le imprecazioni dei passanti.
NOTA
La storia è nata da una vera e propria visione suscitata dal quadro conservato presso la Pinacoteca di Brera. I due episodi biografici narrati, relativi il primo all’infanzia veneziana e il secondo agli ultimi giorni milanesi, non sono episodi reali, ma scene germogliate dalla visione iniziale. Eppure, strada facendo, leggendo i documenti relativi alla vita del pittore, sono emersi dettagli che hanno reso sempre più “reale” quanto immaginato. Il fatto più sorprendente è che il racconto, seguendo più il suo spontaneo sviluppo vitale che le intenzioni di chi lo stava scrivendo, è giunto alla fine a corrispondere pienamente all’idea sottile e raffinata che Hayez aveva del realismo.
