presque un manifeste #2

[Il “quasi manifesto” in questione inizia qui.]

di Francesco Ciuffoli

 

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cronostoria degli eventi che hanno portato a questo articolo:

11 | 2008 – 09 | 2011 – 04 | 2018 – 10 | 2024 – 12 | 2024 – 02 | 2025 – 04 | 2025

7 date riportanti gli eventi descritti nel testo e quelli più nascosti, personali.

7 saranno anche le sezioni che comporranno dunque questo quasi-manifesto.

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indice in cui tradiamo già da ora quanto detto 

Parte 1

Section 5. La questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale

Section 6. Appendice #2. Ai fotografi

Section 10. Workbook

Section 1. 26 indici per un indirizzo

 

Parte 2

Section 8. Piccolo manifesto di una nuova estetica

Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Section 2. Il punto di vista estetico

Section 3. Poesia, capanne, skené

 

Parte 3

Section 7. Un epilogo. A tutte le persone che amo

Section 9. A questa cosa mai accaduta, mai appianata

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Section 8. Un piccolo manifesto per una nuova estetica
costruito su dodici terzine imperfette

il mondo di oggi, il nostro mondo, è cambiato. si è sancita ormai la fine del postmodernismo avanzato, la sovrastruttura – anche culturale – ha colonizzato ormai anche la critica e la teoria estetica attraverso cui osserviamo i fenomeni (poietici o meno), la stessa realtà che ci circonda.

alla luce di questo, vivere oggi significa abitare – qui, ora – questo mondo, situarsi, anche virtualmente (deleuze, non floridi). ciò però non va inteso, come spesso accade (soprattutto nei postmoderni), come uno svuotamento di realtà concrete, anzi qui è tutto il contrario, è pieno-tutto.

ora più che mai, vi è un forte, fortissimo ritorno alla realtà delle cose (concrete). il punto sta nel riuscire a osservarle come vorremmo. la verità si nasconde dietro l’oggetto, dietro la sua spettrale apparizione, la sua seducente atmosfera, il suo realismo capitalista. innanzitutto dividi i piani.

uno. in una certa forma il capitale è riuscito non solo a rendersi più astratto, spettrale e spirituale, ma anche più sistematicamente insidiato nel fenomeno. per questo, non si può più guardare tramite schemi binari (on/off). facendo così si ottiene solo un’immagine parziale del Reale.

due. ovunque la critica cerca di operare con vecchi attrezzi, imponendosi tutta una serie di schemi riduzionistici: tesi, antitesi, sintesi; non otterrà niente. tale processo, così istericamente portato avanti, sta portando solo una piccola parte dell’oggetto a combaciare le proprie teorie.

tre. ovviamente questa è la crisi attuale delle scienze umane, nessun tramonto dell’occidente. per uscirne bisogna guardare agli anelli di un albero, andando per gradi, avvicinarsi gradualmente al suo centro. guardare assolutamente, a ogni taglio, le forze agenti su quel singolo anello.

bisogna partire dal presupposto che tutto è già previsto dal sistema (fisher, cobain, matrix). oggi, «non è possibile uscire dalla contraddizione». si può però affermare il ventaglio delle contraddizioni, ponderando le sfaccettature dell’oggetto, incidendo, indurre anche nell’albero la caduta.

senza mediazioni, pseudo-sintesi, né postmoderna ironia, siamo seri, serissimi. dalla contraddizione all’affermazione assoluta della differenza, nasce così con noi, una nuova pratica estetica. siamo oggi tutti, indistintamente (poeti e non), manifestazioni, fautori di una nuova estetica.

la nuova estetica è virtuale, atmosferica, realisticamente capitalista. queste tre sono le prime principali caratteristiche dell’oggetto odierno, a ciò bisogna poi affiancare a ognuna di queste le corrispondenti tonalità emotive, nonché la capacità di agire rispetto a spazio, soggetti, altri oggetti.

l’esercizio di sguardo sull’oggetto e le sue contraddizioni è da rintracciare nuovamente nella tragedia greca, nell’intuizione nietzschiana, nella sua giusta interpretazione. vale a dire la riscoperta del vissuto autentico non come concetto ma in senso puro, pratico, quasi ritmanalitico.

tre autori: lefebvre, deleuze e bataille. centrale poi in questo senso è il recupero del vissuto, del Leib (corpo-proprio, organicità vivente) – tesi autenticamente nietzschiana –. bisogna però stare attenti. il vissuto non può ancora una volta essere inteso solo in senso metaforico, allegorico.

il corpo-proprio, quanto piuttosto si determina in senso di correlativo oggettivo (in poesia), di concreto predisporre e agire (nella vita). l’emozione nasce, in fondo, sempre in seno alla realtà concreta, alla materia, alla sua disposizione, al suo movimento. a noi, il compito di disporne i segni.

esserci nelle differenze, nei contrasti attivi, ma non senza fissare una regola. non viviamo mica sotto il segno di saturno, bensì sul fondo di una terra spugnosa, pregna di significati.

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Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Città reale e città virtuale

A che punto è la città?

/// [Roberto Roversi, Il libro paradiso]

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Credere la città un luogo vivibile – comprensibile – oggi sembra impossibile eppure, seppur vero, dietro lo sfondamento, la sopraffazione e lo smottamento del quotidiano c’è da rendersi conto prima di tutto che esistono due città: una città Reale e una città Virtuale [1]. Prendere coscienza di questo, significa prendere coscienza di dove risiede il problema, se vogliamo. Prendere coscienza significa quindi anche un comprendere, comprendere che l’unico modo che ci è dato – per avviare un serio processo di conoscenza – è affidarci finalmente alla poetica dello spazio di Bachelard, alla sua grande capacità di intercedere tra due mondi come farebbe un mistico o un necromante del fenomeno urbano.

«A che punto è la città?» invade e guida involontariamente questo processo di discernimento dei piani, lo infesta. Non si sa a cosa affidarsi per comprendere la realtà eppure la domanda c’è, sorge spontanea – penso – andando o tornando, seduti o in piedi nel buio non-ancora-in-luce della propria via o del tunnel scuro di una metro che ci riporterà a casa. «A che punto è la città?» circonda il nostro quotidiano e più che mai nelle orecchie e negli occhi di chi oggi la città la vive, nulla sembra risolversi in una situazione fissa, immutabile. La città ogni giorno fa la muta, squama, si converte e si modella, plasticamente, in base all’esigenza dell’istante, di momento in momento.

E in questo senso, forse il più ampio, che la poesia, e il non-più-mai-poeta, è allora un fissare-intanto, azzeccare qualche punto sulla lavagna all’interno del nostro ufficio personale, all’interno cioè di quel commissariato invisibile e collettivo dell’esperienza in cui i più fini detective urbani e commissari dell’esistenza cercano da sempre di trovare una soluzione, quella che spieghi almeno in parte cosa è successo, o, più semplicemente, cosa anche oggi stia accadendo. Indizi; speculazioni; intercettazioni; vecchi casi irrisolti; i faldoni e le carte si accumulano dappertutto, perché dentro persino qualcosa di superficiale, di minimo, si potrebbe nascondere la risposta che tutti stiamo cercando.

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Dentro l’immagine fa sempre freddo, ed è lì, in quel freddo, che qualcosa potrebbe diventare, o capitare, qualcosa che potrebbe riuscire a tagliare le parole e le pagine assieme al vento.

Del giardino non esistono fotografie.

/// [Jean-Marie Gleize, «Aliquid ampius in sylvis invenies», Tarnac. Un atto preparatorio]

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[5] Bisogna infatti ricordare che dove c’è innanzitutto un Reale – lacaniano, materiale e storico –, da decenni afflitto da un progressivo processo di annullamento e svuotamento –, vi è (e vi sarà sempre) anche un Virtuale che cercherà di infestare e colonizzare con forza il nostro mondo, la sua esperienza intesa qui come everyday life (espressa oggi da un effimero efficentismo, utile solo alla produzione e riproduzione isterica delle merci e dei rapporti). Da uno scorcio di via a una scena più ampia, tutto però ci scorre ancora davanti e ci attraversa con i suoi rapporti di significatività, i suoi valori, anche nella Virtualità di un sempre più profondo realismo inquietante, di tutto ciò che questo consegue. E a tal proposito che adesso, quando abbiamo parlato di Virtuale, non si può e non si deve più intendere tanto il Virtuale come una realtà assestante, dispersa nell’iperuranio come molti pensano, quanto piuttosto bisogna pensare e pensare bene alla virtualità dell’esperienza come un ulteriore – al Reale – e complesso sistema interconnessioni agenti sull’esperienza anche quotidiana. Dietro una quasi-banale “scena” esperita, c’è sempre un mondo di interpretazione e di valore.

Calcificate nella nostra memoria, quelle del Virtuale sono quindi dinamiche agenti concretamente nel quotidiano, le manifestazioni (fenomeniche) di come cresce si sviluppa dentro di noi persino quell’impotenza riflessiva – esistenziale quanto pratica – e che, attraverso di noi, nel sottopelle stratificato della nostra città determina più che mai anche l’andamento della nostra vita. È dall’urbano che nasce il suo abitante, come un residuo umano, un qui – situato – perché immerso nel contesto che lo circonda. E in ciò che ci circonda il Virtuale è e deve anche essere inteso come l’atmosfera che si respira non tanto fisicamente quanto esteticamente, l’aura cioè di ogni singolo frame della nostra giornata, il suo riprodursi con diversi ritmi, il suo ripetersi nell’identico, il suo martellante movimento. Parafrasando le parole di Benjamin: “ciò che fa del ramo e della montagna quella precisa, precisissima situazione di ramo e montagna [solo qui e ora]”, questo è in definitiva il Virtuale, quello che la poesia cerca e cercherà sempre disperatamente di raccontare, il volto invisibile della realtà, della sua esperienza.

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Section 2. Il punto di vista estetico

per esempio: se il punto di vista estetico è

un punto di vista d’azione?

Tarnac mi scorre dentro come se fosse polvere.

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

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un exemple plus direct: il punto di vista estetico dell’Affaire è TRNC Tarnac è un’atmosfera, TRNC è una semi-cosa

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un’atmosfera riguarda infatti le emozioni

le emozioni riguardano infatti le azioni

 

e le inazioni (individuali, collettive, sociali)

osservare, studiare, comprendere atmosfere

 

significa saper leggere, interpretare, maneggiare

le forze invisibili del campo (Bordieu, le lezioni)

 

un’atmosfera è quasi-più politica del fatto

il fatto in sé però si perde quasi subito, puff.

 

ciò che rimane del fatto è come una semi cosa,

spazio e tempo del suo ripetersi, anche in peggio.

 

CIÒ CHE TU CHIAMI CLIMA DI PAURA È ATMOSFERICO

CONOSCERLO TI PERMETTE DI, FERMARLO, VINCERLO

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inizialmente pensato come un articolo di

lettura, assimilazione, accomodamento

 

il punto di vista estetico è e rimane

un punto di vista d’azione (sociale)

tornare a parlare oggi di Tarnac in termini estetici (come di un’atmosfera) quindi può e deve non solo avvicinarci a comprendere maggiormente la grande metafora di TRNC, o meglio la grande capacità che ha avuto l’Affaire Tarnac di condensare in sé determinati e specifici rapporti di significatività di un determinato e specifico momento (quasi-)storico – che a oggi, soprattutto in Italia, per via forse delle nostre personalissime intemperie e crisi, non ha mai trovato il giusto spazio di esposizione e di riflessione –, ma anche farci rendere conto di come Tarnac non rappresenti più tanto un semplice spazio di cronaca su un giornale, un evento giudizial-politico chiuso in sé, quanto piuttosto – alla pari di un ’68 al contrario – l’irruzione di un Reale puro, la manifestazione esasperata nonché politico-climaterica di due decenni interi, l’invasione sul piano concreto della vita, del quotidiano, di qualcosa già vivo e presente nel nostro inconscio sia virtualmente quanto atmosfericamente. Bisogna ancora comprendere che TRNC, cioè questa quasi cosa – al pari di un’installazione site specific –, esiste davvero, al pari cioè tutte quelle altre forze o “cose” in grado di toccarci materialmente quanto emotivamente. Uno spettro si aggira in Europa e non è quello che conosciamo, bensì qualcosa di nuovo, di terribile, esso ci intraversa ormai da parte a parte, sia come individui quanto come collettività. Non c’è più tempo o spazio in grado di salvarci, bisogna riprendere in mano la situazione, guardare assolutamente al virtuale quanto al reale accadere delle cose, fare, anche in questo senso, di ogni piano una postazione di tiro.

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Mi chiedevi come fare a fotografare la notte.

Mi chiedi ancora cosa voglia dire «guardare assolutamente», o guardare «fino a estinzione dello sguardo».

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

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Tarnac è un’atmosfera, TRNC una semi-cosa?

Quando parliamo di atmosfera, intendiamoci: le atmosfere sono, sì, manifestazioni (fenomeni) di uno o più sentimenti ma anzitutto «uno stato di cose molteplice e caotico, discriminabile da altri proprio grazie alla sua peculiare tonalità atmosferica» (Griffero, 2010) – esperita come “reazione comune” (istantanea e preanalitica), shock pre-intenzionale – che ci invade e ci attraversa tutti, indistintamente, al suo contatto, davanti al suo manifestarsi, alla sua messa in scena (Böhme, 2001).

C’è da comprendere che all’epoca, in Francia, il fenomeno Affaire Tarnac, non deve essere stato diverso da quel sentimento che coinvolge in questo momento l’Italia, non diverso da quel momento in cui “si avverte” lo Stato, in cui “si percepisce” come un governo sia capace di adoperarsi contro la libertà del cittadino, stringendo su di lui sempre di più uno stato di emergenza, di crisi e quindi di sorveglianza (al fine di garantirne un certo e quanto più falso senso di sicurezza).

L’atmosfera fa questo, descrive e definisce la struttura della relazione “emotiva” tra spazio (progettato, vissuto, percepito) e il soggetto, ne arrangia i canoni del suo verificarsi, può determinarne anche in un certo modo le condizioni del suo ripetersi, altrove e chissà quando. Leggere TRNC come un’atmosfera ci permette di dare nome, di delinearne forse la nomenclatura all’interno di quel suo spazio differenziale, cioè all’interno di quell’insieme contingente di pratiche e cose differenziabili che si possono allineare lungo gli assi della territorialità e della deterritorializzazione (Belli, 2013).

L’atmosfera è una questione di corpo vivo, di proprio-corporeo (Leib). L’atmosfera è ciò che affettivamente incide sul nostro habitus e sul nostro vissuto. L’atmosfera di TRNC è l’atmosfera della paura, del controllo, della sorveglianza, della presa di coscienza che lo Stato ci guarda, ci controlla e che ci può anche possedere in qualsiasi posto e in qualsiasi momento noi ci troviamo (senza farsi più tanti scrupoli come è stato per un breve lasso di tempo della nostra storia).

/// [je suis italien, ajoutez les sources les plus utiles du français]

Se poi a questo aggiungiamo che, tutte le città hanno comunque «uno stile particolare, un gergo, un dialetto, […] che viene a volte indicato da un soprannome speciale» (Rykwert, 2000), insomma un’atmosfera, scopriamo anche che TRNC in Francia, a seguito della “situazione” – cioè degli accadimenti ‘assurdi’ che hanno coinvolto una piccola e sperduta comunità delle campagne francesi –, è la sintesi atmosferica perfetta di un clima politico, l’avvertimento a un livello più profondo che tutto e ovunque può essere suscettibile a poter essere rovistato e usato come prova a carico contro di te (Quintane, 2010).

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«la follia di un ordine»

 

Alle cinque di mattina dell’undici novembre la polizia attraversa Toy-Viam con i cani.

Il paese viene isolato.

Un elicottero sorvola la zona.

 

150 poliziotti

60 della sdat (sottodirezione antiterrorismo)

50 della dcri (direzione centrale dell’intelligence)

40 della polizia giudiziaria di Limoges

 

Iniziano le perquisizioni.

Non trovano

né armi, né esplosivi, né ordigni incendiari, né tondini, né uncini di ferro.

 

Distese le felci, siepi di felci, argini e letti di felci.

 

Una maschera con gli occhi fissi si divora la testa di

un uccello.

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

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L’investimento affettivo di cui si è fatto carico questo piccolo villaggio sperduto della Francia attorno cui sono ruotati gli eventi dell’Affaire Tarnac è estremo.  L’Affaire Tarnac, come vincolo situazionale specifico di un momento storico per la Francia, ha infatti condensato in sé tutti quegli anni che hanno visto (dal 2005 al 2018, o partendo ancora prima dagli anni de L’odio di Kassovitz) lo Stato francese combattere a fasi alterne e isteriche le rivolte, i sabotaggi, l’anarchia, il presunto e non presunto terrorismo, attraverso soprattutto i blitz, gli arresti, le accuse, i processi, la continua riorganizzazione e espansione del suo regime di controllo e sorveglianza.

Gli eventi che hanno sconvolto Tarnac sono il culmine di un vincolo situazione non limitato a un singolo frangente temporale geograficamente circoscritto, rappresentano un’atmosfera politica che occupa un’area oggi fin troppo vasta e che solo in questi ultimissimi anni stiamo iniziando a vivere, a percepire, anche noi. In seno a questo possiamo parlare oltre che di atmosfera, di una vera e propria semi-cosa, «una sorta di cosa intermedia, un ibrido» (Böhme, 2001). Proseguendo schematicamente: una semi-cosa «può fare qualcosa», «può avere anche delle proprietà» e inoltre possiede una certa «individualità», un questo-qui (tode ti).

/// [je suis italien, ajoutez les sources les plus utiles de l’allemand]

E a partire da questo punto che Tarnac. Un atto preparatorio viene scritto, assume forma ma anche sostanzialità. L’autore, Jean-Marie Gleize, non a caso nella contrazione TRNC cerca di racchiudere «le cose [in] un alone di dettagli che si sporge anche sul loro passato e sul loro futuro» (Fränkel-Joel, 1927, in Griffero, 2010). Si può dire ancora del libro su Tarnac che, in senso atmosferico, «la cosa più impressionante è che quello strato che normalmente si vive a malapena e che per il momento solo a fatica posso spiegarmi» (Fränkel-Joel, 1927, in Griffero, 2010), nella prosa poetica di Gleize riesce a fuoriuscire nella sua quasi-interezza, in tutta la sua quasi-vaghezza, nella scrittura che si rivolge a sé stessa (quest’ultimo punto reso anche meno emotivamente e più razionalmente paradossale da Nathalie Quintane in Pomodori, opera strettamente legata a quella di Gleize e più in generale all’Affaire Tarnac).

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Quella notte il vento soffiava sopra le felci. Il cielo si era abbassato come una saracinesca di metallo.

La scena era quasi invisibile e muta. Si sentiva il rumore di alcuni passi.

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

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La lirica e la politica si mischiano naturalmente nella nebbia di Tarnac, la politica invade l’estetica, la plasma e tenta di determinarne gli attributi. Qui c’è un tentare (attraverso i mezzi repressivi già nominati) di fare legge su tutto. Vita, ideali e ciò che leggi persino possono determinare un fattore di rischio che lo Stato di controllo non si può permettere, soprattutto se ha come scopo la pacificazione dell’intero territorio, l’applicazione cioè più rapida e diretta di un modello d’essere unico, di una virtuale quanto concreta egemonia di superficie. Concludendo, con Tarnac di Gleize possiamo arrivare a comprendere come, al pari di quanto viene espresso nel testo, dell’Affaire Tarnac (come di ogni altro evento politico di questo tempo) non esiste, né può più esistere solo un’immagine fissa, inquadrabile, geometricamente chiara, bensì per ogni evento (storico, culturale, politico) esiste anche (e con risvolti sicuramente più agghiaccianti) un’atmosfera, quasi-chiara ma precisa, un’aura cioè che trascende – con una sua peculiare agentività -, al di là dei fatti in sè. E da quest’ultima che dobbiamo imparare a stare attenti, guardando assolutamente alla sua capacità di estendersi e contaminare il resto della (nostra quanto fattuale) realtà che ci circonda, diffidando fino all’ultimo di quei vincoli situazionali in cui la nebbia, la confusione e la paura permeano, dove tutto si sedimenta e si apre a nuovi rapporti di significato, sotto la pelle stessa del paesaggio e all’interno del Leib (corpo-proprio) di chi, come Gleize, si è trovato lì (in quel momento quasi-storico) a respirare l’inquietante atmosfera di quell’oscuro stato di cose, in prima quanto in terza persona.

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E allora che fine fa l’immagine? Si stacca e cade alla velocità del vento. Qui, quando c’era un temporale il vento sollevava le travi di legno e le frantumava.

 

– Io faccio cadere le vocali.

– Ce ne sono due però è una sola, è la prima,

l’unica, la lettera nera, quella dell’inizio,

dentro l’acqua della chiusa o del lavatoio,

quella al centro dell’immagine.

 

TRNC è il nome filmato di questo paesino. È formato da un frammento (giardino recintato), circondato («massa informe»).

 

Tu volevi fotografare la notte. Vedevi le cime degli alberi che si staccavano sul cielo e formavano

come i denti di una sega. Hai tirato a caso, hai lanciato le mani verso l’acciaio duro e freddo che

tagliava il cielo. E hai pensato: «tra Dio e noi non c’è più niente».

 

È questo che vogliono dire le quattro fotografie.

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

Alcuni dei libri citati qui:

Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2024.

Nathalie Quintane, Pomodori, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2021.

Altri autori citati in ordine sparso:

Griffero, Böhme, Belli e relativi autori già presenti nei lavori di questi ultimi.

A cui si potrebbero aggiungere anche a livello aistetico (per un’estetica come teoria della percezione) anche il testo di Henri Lefebvre: Ritmanalisi, La rivoluzione urbana.

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Section 3. Poesia, capanne, skené.

Un quasi-manifesto sulla lotta e il poetico

L’unica cosa che abbiamo è il tempo solo il tempo è la nostra capanna

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

È finito il tempo dei poeti da salotto. La poesia esige, necessita, perché bisogna, un ritorno dentro la storia. La poesia è un affare di partecipazione, poiché ogni posizione oggi di prestigio-culturale è messa in pericolo. Non esistono quindi più rifugi o posizioni sicure in cui nascondersi. La torre d’avorio mai come prima d’ora è sotto assedio, in preda a un incendio decennale, dalle fondamenta si registrano poi ingenti danni strutturali.

L’unica poesia che resiste ancora è quella che si arma in tempo, quella che decide di resistere e combattere. Perché mai come prima d’ora la cultura-tutta è messa a rischio, perché spodestata anche dalle sue comodità: scrivanie in mogano, buoni cappotti, belle poltrone in velluto. A nulla servirà farne della poesia un oggetto

d’arte se non per riempire vecchi e impolverati negozi dell’antiquariato dove vecchie signore, senza una lira in tasca, occupano il loro tempo, passeggiando intere giornate con l’aria di chi potrebbe acquistare tutto e non acquista mai, niente. Come siamo finiti così? Io non lo so. Se lo sapessi, non mi interesserebbe parlarne.
* * *

22. A che punto è la città?
La città tace perché non è più primavera.
La verità è il massacro.
Il massacro è la realtà.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
È finito il tempo dei poeti, è venuto il tempo della poesia. La poesia è un’arma nelle mani di chi sa usarla. Bisogna sapere come fare. Perché il teatro sarà pure un mondo di parvenza, eppure ciò che vi accade -in linea di principio-, potrebbe accadere anche nel nostro mondo. E poi, cosa succederebbe, come già accade oggi, quando è la parvenza di qualcosa (conflitto–o–estinzione) a prendere spazio nel nostro reale –nostro mondo?

Adesso che le cose si mettono male e sempre più spesso mi trovo qui a dire: bisogna uscire fuori, andare per strada, assumendo come priorità la riappropriazione sociale degli spazi di vita, ciò che offre spiragli per la costruzione di utopie concrete; bisogna armarsi e armare la gente, l’avviso di sfratto sta appeso sulla porta.

La redditività e la produttività – tipiche dell’affermarsi della città ipermoderna, postpandemica e comunque sempre capitalista – distruggono e degradano la vita, a partire cioè dal suo, nostro, quotidiano vivere. In città si deve quindi, anzitutto, creare – come in quel secolo – uno spazio appropriato e appropriabile dagli abitanti.
* * *

33. Oggi è già domani.
Sono in molti a parlare dell’uomo che cammina col
suo passo di polvere e con la pazienza di un frate
per raccogliere cipolle e inoltre per salire sull’albero
delle ciliege.
Da lì si guarda il mondo.
Ma il mondo è rovesciato.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
Le capanne sono il simbolo di tutto questo. La poetica dello spazio è in grado di rivendicarne l’importanza. Alcune tappe fondamentali: indipendenza, scontro, partecipazione, scontro, indipendenza, riappropriazione. Reclamare il diritto alla città significa riappropriarsi dello spazio e del tempo in base alle esigenze di chi vive lo spazio e non di chi lo sfrutta attraverso la valorizzazione economica. Ogni attività comporta Capitale.

Bisogna imparare a costruire capanne. Luoghi apparentemente inutili, questi non svolgono nessuna funzione economica. Spazio di riunione, di attività, di aggregazione, le capanne sono la nostra nuova casa, il punto di partenza di ogni possibile attività eversiva, dove per eversione si intende lottare per il diritto di sopravvivere.

Il Capitale – va detto – non va ignorato. Il Capitale è un mezzo di transizione e di transazione. Il Capitale va sfruttato al meglio, quando è indispensabile. Non credere mai che nessuno ti aiuterà, che sei solo in questo. Se serve qualcosa nella capanna, chiedi. Suona al campanello dei vicini, raccogli tutto ciò che loro ti daranno.
* * *

79. A che punto è la città?
La città si scuote come un cane.
Il ragazzo ucciso è seppellito
con il rito formale.
Segue la pace ufficiale
con i poliziotti ai cantoni.
In galera centottanta capelloni.
[…]

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
Le capanne accolgono tutti, anche la poesia. La poesia serve, perché la poesia è il mezzo di espressione di chi come me e te, non ha altro con cui difendersi. La poesia parla a tutti, indistintamente. Dalla tua capanna in-festa le strade che ti circondando, sii convincente sulle necessità. Dividi l’utile dal dilettevole. Ora scrivi, stampa e diffondi. Per riappropriarsene, bisogna prendere coscienza di aver invaso e colonizzato uno spazio.

In origine il termine greco skené significava casa, poi tempio, ma quasi subito anche (e già nell’età classica) palcoscenico. Skené è sicuramente uno spazio separato dal mondo e che protegge gli uomini. La poesia è con la skené un valore di necessità poiché è lo spazio di ciò che appare e fa apparire di sé, la sua messa in scena.

Metti in scena il disastro, il fallimento di ogni falso ideale. Usa la menzogna se devi. Il linguaggio è un’arma utile per abbattere il valore astratto del Capitale, la sua cultura, sotto-rivestimento tossico di un realismo tossico. Dai speranza, non farti ignorare. In ogni buca per le lettere, casa per casa, sul tergicristallo delle auto parcheggiate.
* * *

113. Cosa grida la città?
La città dice che l’età dei guerrieri è finita.
Dice che ieri è cominciato il tempo
degli uomini-rana, degli uomini-gabbia
degli uomini-lamento.

114. Ma che non si può finire
col non dire più niente.
Se si tace, il silenzio è la morte.
E nella notte resta solo voce di vento.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *

Qui entra in gioco Bachelard, qui, attraverso quello che potremmo idealmente pensare come il percorso che ha portato in senso lato i Tarnac Nine a rappresentare una perfetta metafora, degna di Matrix. Il punto infatti ruota in primis, nella fuoriuscita dalla città schizofrenica, il recupero in un certo senso di una dimensione primitiva. Come afferma Bachelard stesso «un sognatore di rifugi sogna la capanna, il nido, angoli in cui vorrebbe rannicchiarsi come un animale nella sua tana. Egli si trova in tal modo a vivere in un aldilà rispetto alle immagini umane» (Bachelard, 1957). Le immagini umane sono le immagini dello stato egemone, della condizione iper-urbana, delle asimmetrie strutturali che essa genera insieme al suo costante progredire, attraverso il suo continuo espandersi verticalmente quanto orizzontalmente. La costruzione delle capanne serve a creare delle oasi sicure per tutti quelli che ne hanno bisogno e da là, con i giusti numeri, bisognerà anche cercare di combattere, di appropriarsi prima della via, poi del giardino che sta lì, vicino o di fronte, e solo dopo della città. Continuare a estendere l’oasi finché sarà possibile mettere in scena una contro-egemonia, l’aura di un’utopia concreta che re-esiste nonostante tutto. Certo, ci vorranno anni, ma l’alternativa a questo punto quale sarebbe?

attendere, lasciarsi controllare, perdersi, nel caos degli eventi, diventare l’appendice perfetta di un sistema rotto, che perde e che continuerà a perdere fino al suo atroce e lento smembramento, pezzo dopo pezzo. Non rimarrà niente della macchina -città, -corpo senza organi.

* * *

da alcuni frammenti di Bachelard, presi e incollati alla bene e meglio

La dimensione della capanna è l’elemento privato, il luogo precario,
il terzo incomodo nella dinamica tra soggetto e capitale.
il luogo che riesce però a accogliersi, a nasconderci dalla dimensione
del fuori, dall’estraniamento del fuori.

Nella camera illuminata
dalla lampada, vicina a quella in cui il padre, bracciante e sacrestano, legge la sera
le vite dei santi, in quella stanza il bambino conduce la sua rêverie
di primitività, una rêverie che accentua la solitudine fino a immaginare di vivere
in una capanna sperduta
nella foresta.

Nella maggior parte dei nostri sogni di capanna, ci auguriamo di vivere altrove,
lontano dalla casa affollata, lontano dalle preoccupazioni cittadine. Fuggiamo
con il pensiero per cercare un vero
rifugio.

Le immagini

* * *

da alcuni frammenti di Lefebvre, anche qui presi e incollati alla bene e meglio

  1. [Poesia, capanne, skené] Si forma così questo concetto nuovo: l’urbano. Concetto che va ben distinto da quello della città. L’urbano si distingue dalla città precisamente perché fa la sua apparizione e si manifesta nel corso dei processi di esplosione della città, ma permette di riconsiderare, e anche di comprendere per la prima volta a fondo, alcuni aspetti della città che prima passavano inosservati:

la centralità, lo spazio come luogo di incontro, la monumentalità ecc. L’urbano, cioè la società urbana, non c’è ancora e tuttavia esiste virtualmente; attraverso le contraddizioni tra l’habitat, i processi di segregazione e la centralità urbana, essenziale alla pratica sociale, si manifesta una contraddizione piena di senso.

***

La peggiore delle utopie è quella che non pronuncia il suo nome. L’illusione urbanistica appartiene in proprio allo stato. È l’utopia statale: una nuvola sulla montagna che sbarra la strada. Insieme l’antiteoria e l’antipratica.

Che cosa è l’urbanistica? Una sovrastruttura della società neocapitalista, detto altrimenti del “capitalismo di organizzazione”, che non vuol dire affatto “capitalismo organizzato”. Detto ancora in altri termini: della società burocratica di consumo pilotato. L’urbanistica organizza un settore che sembra libero e disponibile, aperto alla azione razionale: lo spazio abitato. Pilota il consumo dello spazio e dell’habitat.

[…]

L’urbanistica appare così come il veicolo di una razionalità, limitata e tendenziosa di cui lo spazio neutro e non politico, costituisce l’oggetto (obbiettivo).

***

6. La violenza intrinseca allo spazio entra in conflitto col sapere. anch’esso intrinseco allo spazio. Il potere, cioè la violenza, scompone, e mantiene separato ciò che esso ha disgiunto; e inversamente, unifica e mantiene nella confusione ciò che gli conviene.

Per cui il sapere. basandosi sugli effetti del potere considerati come «reali», li convalida in quanto tali. Fra il sapere e il potere, fra la conoscenza e la violenza, non c’è confronto, così come non c’è confronto fra lo spazio intatto e lo spazio frantumato. Quando tutto è dominato, imposizioni e violenze sono ovunque, onnipresenti come il potere.

Lo spazio dominato realizza sul terreno dispositivi e «modelli» militari e politici (strategici). Ma c’è di più: lo spazio pratico porta in sé, attraverso l’azione del potere, norme e imposizioni; più che espressione del potere, esso diventa repressione in nome del potere.

In quanto somma di imposizioni, stipulazioni, prescrizioni, lo spazio sociale raggiunge una efficacia normativa repressiva. strumentalmente legata alla sua oggettualità. accanto alla quale l’efficacia delle ideologie e delle rappresentazioni diventa ridicola. In quanto spazio-trappola, può essere occupato da simulazioni della pace civica, del consenso, della non-violenza, e contemporaneamente contenere le istanze della Legge, della Paternità, della Genitalità.

* * *

da Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio (Tic, 2024)

+ + +

10. LE VOCI INTERIORI, NOI

+ + +

(la conferenza si è interrotta, adesso si sente una voce che sta per leggere una poesia)

Sono ancora qui in piedi e mi metto a leggere le Voci interiori. Chiudo gli occhi e vedo distintamente il libro vedo distintamente un sentiero di terra e asfalto le buche sul sentiero i pezzi accecanti di un sogno e la parola immagine le sue grandi lettere nere che galleggiano sopra le pagine sopra le parole e occupano tutta la superficie dello schermo.

Ci sono questi pezzi di cartone che pendono.
È come la testa in cima alla croce, pende,
è sempre più pesante a forza,
è senza forza è come se stesse per cadere
però poi non cade.

E il passaggio porta fino a qui, fino a qui fuori, non faccio differenza tra la parete e il terreno, io sono tu sei noi siamo voi siete nello stesso corridoio.

Passa il tempo.
per scrivere sfrutto gli accidenti del terreno, lo spessore del tempo,
L’unica cosa che abbiamo è il tempo solo il tempo è la nostra capanna
e «il mondo possiede già il sogno di un altro tempo».

Ho deciso di scegliere il mio dialetto

Il fuori è qui e io già possiedo già vivo realmente il tempo lo sto scrivendo a mano in questa lingua,
qui, sul grigio lavagna della lavagna.

[…]

+ + +

11. COSTRUIRE DELLE CAPANNE

+ + +

[…]

 

Nel frattempo l’immagine entra nell’immagine e tutto si confonde con la fotografia degli alberi finché non si arriva a una scrittura deviata.

 

[…]

 

– riparto dalla parola «comunista».

 

[…]

Comunista è questa parola chiusa dentro l’acqua,
questo corpo chiuso dentro l’acqua.
Qui a Tarnac la nebbia si posa sulla superficie
dell’acqua sgualcisce i banchi di felci è notte.

Nessuna rivendicazione nessun messaggio, la
politica come negazione della politica

scendere al fiume
la fotografia che cade sull’asfalto
la luce del freddo e dell’incendio, le salite, le salite
il sentiero per Javaud, il sentiero per Laperée
la scrittura deviata che si spezza in questo modo,
come la voce
come lei
come senza risposta.

Dobbiamo (dobbiamo costruire delle capanne)
Dobbiamo

Conosco un albero
Dobbiamo costruire delle capanne in mezzo agli
alberi
fare letti di felci
bloccare stazioni circonvallazioni autostrade
fabbriche

sfruttare gli accidenti del terreno

* * *

Alcuni dei libri citati qui:

Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2024.

Nathalie Quintane, Pomodori, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2021.

Gaston Bachelard (1957), La poetica dello spazio, edizioni Dedalo, Bari, 1975.

Henri Lefebvre (1972), Spazio e politica. Il diritto alla città II, ombrecorte, Verona, 2018.

Henri Lefebvre (1970), La rivoluzione urbana, Armando Editore, Roma, 1973.

Henri Lefebvre (1974), La produzione dello spazio, Moizzi Editore, 1976.

 

NOTA: Quasi tutti i versi di Jean-Marie Gleize sono stati riportati in maniera discrezionale. È cura dell’autore del seguente articolo dichiarare che ogni testo è stato debitamente maltrattato e forse anche sfruttato illecitamente per fini comunicativi di tipo personale.

 

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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