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Cosa significa essere Palestinese?

di Samar al Ghussien

nota biografica e sitografica di Luca Crastolla

Cosa significa essere Palestinese? Come guarda la vita un bambino Palestinese attraverso i suoi piccoli
occhi? Come, quando vede che nel suo mondo tirannia e ingiustizia hanno preso il sopravvento?
L’occupazione israeliana, non sottrae solo case e terre ai palestinesi: ruba anche i padri ai loro figli.
Quando avevo solo due anni, diciotto anni fa, le forze d’occupazione imprigionarono mio padre perché
sospettato di aderire ad Hamas (cosa mai provata), e la sua condanna durò sette lunghi anni.
Quei sette anni appartenevano alla nostra vita, alla mia e a quella di mio padre, e ci furono sottratti con la
forza e senza motivo. Fui destinata, così, a conoscerlo soltanto attraverso fotografie e racconti di famiglia.
In quegli anni, piangevo per mia madre quando vedevo un padre tenere per mano sua figlia per strada. E
piangevo per me, per la tristezza e l’assenza che mi crescevano dentro.
Quando ebbi l’età per capire, seppi che nelle prigioni israeliane, i prigionieri palestinesi vivevano in
condizioni pietose e che digiunavano per avere un minimo di diritti. Digiunavano per periodi che potevano
durare mesi, alimentandosi con acqua e sale perché i loro intestini non si deteriorassero. Molti digiuni
duravano così a lungo da danneggiare definitivamente la salute dei prigionieri.
Pure mio padre si impegnò in uno di questi scioperi della fame. Lo fece affinché le forze di occupazione si
decidessero a permettergli di ricevere la visita dei suoi cari. Il permesso arrivò, ma con regole durissime: la
prima fu che non potevano essere ammessi a visita i figli di età superiore ai dieci anni.
Ad ogni modo, io a sei anni, per la prima volta da che potevo ricordare, incontrai a mio padre.
Ci fecero uscire di notte, con un’auto della Mezzaluna Rossa all’interno di un convoglio, e ci fu detto che
saremmo scesi dal mezzo solo quando arrivati a destinazione.
Da questo convoglio, vidi le strade della Palestina occupata, le case costruite dai coloni. Un’ingiustizia
incomprensibile si parava davanti ai miei occhi e intanto venivamo condotti come pecore all’interno di
carro bestiario. Una prigione ambulante che ci conduceva verso un’altra prigione.
Durante il tragitto vidi anche gazzelle e greggi, e vidi pure carri armati, aerei da guerra e varia artiglieria
pesante. Scelsi di tenere, come ricordo del cuore, le gazzelle.
Le forze di occupazione ci proibirono anche il possesso di cellulari per evitare che potessimo produrre
testimonianze.
Una volta arrivati, subimmo diverse ispezioni da parte di soldati dotati di attrezzature varie. Poi ci
introdussero in un macchinario radiografico, all’interno del quale dovevamo alzare le braccia sui fianchi. Ci
esaminarono tutti senza eccezione per sesso o per età.
Mia madre, quel giorno, indossava una veste ricamata, e siccome per qualche motivo, a loro non piaceva, ci
isolarono in una piccola stanza quadrata il cui pavimento era costituito da una rete metallica. Guardando
attraverso la rete, io potevo vedere una stanza molto più in basso della nostra e fui presa dal panico per
questo. Sempre nella stanza, c’era un vetro divisorio, e dietro lo stesso c’era una donna soldato. C’era,
inoltre, un microfono attraverso il quale dialogare. La soldatessa chiese a mia madre di togliersi il vestito e
tutto quello che indossava al di sotto. Mia madre rimase per diversi minuti davanti alla militare vestita solo
con l’intimo. Non so se vi fossero macchine fotografiche a riprendere mia madre. In quel momento tutto
quello di cui avevo paura, era che ci facessero cadere di sotto: immaginavo che, se avessero avuto altri
sospetti sui vestiti di mia madre, avrebbero aperto una botola sotto di noi per faci precipitare al piano
inferiore.
Andò diversamente: a mia madre venne permesso di rivestirsi e successivamente ci fecero entrare in
un’altra stanza dove ci riunirono con altre famiglie di detenuti. Qui attraversammo un’altra
apparecchiatura, e dopo aver lasciato tutte le nostre cose, ci fecero attraversare una porta. Dall’altra parte,
ad attenderci, diversi soldati armati e con ulteriore strumenti di controllo. Ci perquisirono ancora e poi ci
avviarono verso l’ultima sala d’attesa che precedeva il luogo dell’incontro.
Aspettammo lì, tutti insieme e pervasi da apprensione: sapevamo che i soldati possono ritardare la visita
come e quanto vogliono; persino cancellarla, rimandando indietro le famiglie senza motivazione alcuna.
Quando finalmente l’ultima porta si aprì, si parò davanti a noi un’ampia stanza nel cui centro si trovava una
gabbia di vetro rotonda. Ci sedemmo all’esterno di quella gabbia insonorizzata, grazie all’utilizzo di citofoni

avremmo potuto parlare con i nostri cari. Eravamo anche lì circondati da soldati e soldatesse che
indossavano giubbotti antiproiettile e armati con mitragliatrici e bombe a gas lacrimogeno.
I prigionieri arrivarono da una porta che apriva nella gabbia di vetro. Arrivarono tutti vestiti con una tuta
marrone. A questo punto vidi arrivare mio padre, e questa era la prima volta che lo vedevo uomo che
respira e non fotografia muta.
Permisero solo ai bambini della mia età di entrare nella gabbia, e ciò capita raramente. Prima, però, ci
fecero entrare nella stanza di perquisizione dedicata ai bambini. Ci perquisirono ancora una volta e usando
le mani. Palparono, così, senza delicatezza i nostri corpi piccini (potrebbero proibire a qualsiasi bambino di
entrare nella gabbia di vetro se trovassero sospetto anche un piccolo filo dei loro abiti).
Alla fine risultò tutto a posto e ci permisero di entrare. Ricordo che mio padre mi abbracciò e mi fece
sedere ai suoi piedi, durò un istante: non ci fecero restare più di due minuti; la durata complessiva della
visita non superò i dieci. Il viaggio per arrivare lì era durato un giorno e più, e ci fecero visitare i nostri cari
solo per una manciata velocissima di minuti. Scaduto il tempo, ci fecero uscire da un’altra porta, ci
ispezionarono nuovamente e ci portarono in un posto aperto ma recintato.
Qui consegnammo vestiti e denaro alle forze di occupazione per darli ai nostri familiari trattenuti in
prigione. Qualsiasi cosa che contravvenga le loro regole può essere da loro trattenuta e pregiudicare la
possibilità di una successiva visita. Spesso dispongono in modo arbitrario dei soldi lasciati, impedendo
finanche che arrivino ai nostri familiari. Questo non è un piccolo problema se si considera che in prigione
nulla è gratuito per i prigionieri, neppure il cibo.
Dopo un anno, trascorsi che ne erano sette, ci riconsegnarono mio padre cieco da un occhio e sordo da un
orecchio. Altri problemi vennero riscontrati a livello dell’intestino come risultato di una salute trascurata e
dei digiuni prolungati, nonché delle modalità aggressive e sconsiderate usate in prigione. Voglio
sottolineare che spesso, in carcere, i prigionieri sono curati da giovani medici senza esperienza a cui viene
data anche la possibilità di fare pratica chirurgica sui corpi dei detenuti.
Fin qui i danni fisici della carcerazione, ma tutti i detenuti palestinesi escono dalle carceri israeliane anche
con rilevanti traumi psichici dovuti all’isolamento, alla violenza carceraria e al fatto che questa esperienza
scava una distanza incolmabile tra loro e i propri figli. I figli, anche, ne saranno segnati a vita e a questo
crudele destino, io e mio padre non siamo sfuggiti.
Da quando mio padre ha fatto l’esperienza del carcere, le cose non sono migliorate affatto, anzi: le forze di
occupazione hanno aumentato la brutalità nei confronti dei prigionieri in modo inimmaginabile e la tortura
fino alla morte è pratica consolidata.
Segnalo, che la gran parte delle detenzioni avvengono senza processo; che la durata delle pene non è
fissata; la causa delle stesse non esplicitata. La pena, inoltre, può arbitrariamente essere rinnovata di sei
mesi in sei mesi fino a trasformarsi in un ergastolo di fatto.
Ovviamente le visite degli avvocati difensori sono regolate secondo arbitrio e alcuni detenuti non ne
riceveranno mai una.
Di fatto, il regime carcerario ha trasformato le prigioni in campi di concentramento e di tortura dai quali in
pochi escono vivi. Chi ne esce vivo, passa il resto della sua vita sotto lo scacco del trauma. Così i suoi cari.
Per condannare a tutto questo, all’occupazione non servono grandi motivi e neppure prove: basta che tu
sia Palestinese. Basta che tu sia Palestinese perché sia legittimo rubarti la terra, la casa, i tuoi cari, la tua
anima e quella dei tuoi figli.


Notizie su Samar al Ghussien

Samar Al-Ghussein è una poetessa e scrittrice emergente di Gaza ed è nata il 4 settembre 2006. A causa
delle operazioni militari israeliane successive al 7 ottobre 2023 non ha potuto completare gli studi liceali.

Scrive poesia dall’età di undici anni, considerandola una forma di sopravvivenza all’oppressione
dell’occupazione e delle restrizioni sociali. La sua poetica si concentra sui temi come guerra, trauma,
resistenza, femminismo e sopravvivenza — non come esplorazioni astratte ma come esperienze
attraversate nel quotidiano.
Le poesie dell’autrice portano l’influenza del luogo e del suo spirito, le cicatrici e le ferite aperte del
genocidio, aprendosi tuttavia all’universale dell’orizzonte umano.
Sue pubblicazioni:
La sua poesia “Mihrab” è stata pubblica dalla rivista on line Modern Poetry in Translation (Regno Unito)
nella sezione Shells of the Shore: Gaza. Una lettura dello testo da parte della stessa autrice è caricata
SoundCloud ufficiale di MPT

Link: https://modernpoetryintranslation.com/poem/mihrab/
Link: https://on.soundcloud.com/MkpUp5ONcq4i4oA0Ot
la sua poesia “Babyrus Who Killed the Night” è stata pubblicata nel supplemento letterario.
del quotidiano palestinese Al-Ayyam Newspaper (Palestina).
Link.al-ay: https://www yam.ps/public/files/server/Appendixes/Yaraat/Yaraat_28-11-2024.pdf
diverse sue poesie faranno parte dell’antologia cartacea Rosa di Gaza che uscirà quest’anno in Italia per
l’editore Les Flaneurs.

2 Commenti

  1. Il popolo palestinese come spettro, ossia un popolo senza stato, quindi un popolo senza diritti umani. (Arendt: solo i cittadini di uno stato possiedono dei diritti umani. Marx: solo la classe dominante possiede appieno questi diritti. Carla Lonzi: i diritti dell’uomo sono i diritti degli uomini, e non delle donne.) E’ una delle metafore ricorrenti in Mahmoud Darwich ed è, in quanto metafora, ambigua, ambivalente: lo Stato di Israele vuole la scomparsa simbolica del popolo palestinese, ossia il suo oblio agli occhi del mondo, della cosidetta opinione pubblica internazionale, ma questa scomparsa simbolica necessita un lavoro continuo per silenziare con la violenza dell’occupazione e dell’estensione di quest’ultima la voce reale del popolo senza stato. Questa violenza ha alla fine assunto, nelle circostanze storiche che conosciamo, l’ampiezza e la radicalità di uno sterminio di popolo. E di questo popolo residuale, oggi, ci si vuole dimenticare, qui da noi, in Europa, in Occidente. Non si è voluto difenderlo, non si è voluto soccorerlo, si è perfino voluto dare supporto ai suoi carnefici. E’ una storia orribile, che tutti hanno voglia di dilenticare. E spettro sia! Ma lo spettro, ricordava Darwich, tormenta il carnefice: lo spettro non è mai completamente invisibile, né silenzioso. Quello che possiamo fare da qui è dare carne, sangue, voce allo spettro. Ma perché noi stessi ormai ne siamo abitati. Quell’orrore abita anche le nostre giornate più serene. E’ un orrore che pure noi che siamo stati in piazza, che abbiamo scritto, che abbiamo boicottato, vorremmo dimenticare. Anche noi cerchiamo di dimenticarlo. Ma non possiamo: esso riguarda il popolo palestinese, lo spettro emblematico della violenza storica, della violenza fascista oggi, ma in esso va riconosciuto lo spettro delle donne, uccise nella porta accanto, dei bambini, i più disarmati e più facilmente colpiti, degli sfruttati (che lavorano in luoghi che non vediamo e in condizioni che non conosciamo), di coloro che non hanno cittadinanza o non ha la buona cittadinanza. La violenza degli stati esiste perché ci sono uomini che prestano la loro capacità di violenza alle istituzioni, e le istituzioni reciprocamente premiano questi prestatori di violenza. E’ un incubo. Il fascismo è un incubo. E noi vogliamo vivere, non lasciarci terrorizzare. Ma dobiamo dedicargli un parte delle nostre forze, perché la sua carneficina non diventi normale, non diventi l’unico orizzonte che le generazioni future conoscono. Lo spettro del genocidio palestinese lo abbiamo incorporato, comunque vadano le cose fra cinque o dieci anni in Palestina, e ognuno se lo porterà dietro fino al suo ultimo giorno, assieme alle violenze della porta accanto, che non ha finto di ignorare.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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