Thrilla in Manila

di Gianluca Veltri
Il 1° ottobre del 1975 si tenne a Manila, tra Joe Frazier e Muhammed Alì, l’incontro di box più drammatico che si ricordi. Come rilevanza che la distanza storica assegna a ciò che è accaduto, il “Thrilla in Manila” gareggia con “The Rumble in The Jungle”, il leggendario incontro che appena un anno prima – il 30 ottobre 1974 – aveva visto Alì sfidare il campione dei pesi massimi George Foreman, a Kinshasa, in Congo (all’epoca lo Zaire di Mobutu). Quella “rissa nella giungla” era stata uno straordinario evento mediatico, il più visto in TV nella storia della televisione fino ad allora: un quarto della popolazione mondiale vi assistette, anche grazie alla collocazione oraria decisa dagli organizzatori, che lo fissarono alle 4 del mattino di Kinshasa per permettere una visione più comoda per il pubblico americano.
Ma torniamo a Manila, un anno più tardi.
Cassius Clay/Mohammed Alì contro Joseph Frazier-Smokin’ Joe.
Terzo e decisivo appuntamento tra i due rivali acerrimi. La difesa del titolo da parte di Alì, con i ruoli che si erano invertiti. Il bilancio finora è in parità: 1-1, ma tra questi due pesi massimi la distanza che li divide non è fatta soltanto di numeri. C’è molto, molto di più.
È singolare come Alì e Frazier riproducessero sul ring le proprie modalità, i propri caratteri. Alì è ciarliero, ti avvelena di parole, è un rapper che ti gira intorno e ti ubriaca col suo formidabile jab, spavaldo e affascinante, danza nel quadrato, saltella, incassa ma non sembra, velocità e scaltrezza, è una continuazione di finte e movenze, ti colpisce a sorpresa, schiva e ti sfinisce. Frazier-Smokin’ Joe è solido e diretto, dice le cose come stanno, o come a lui sembrano vere, nel bene e nel male, sul ring è irruento e potente. È elementare, è un uomo di poca cultura e non molto carisma. Sul ring è un pesante e pauroso animale – un gorilla, lo definisce Alì: quando il suo gancio sinistro ti colpisce è come se ti investisse un autobus. Il suo nemico acerrimo sarà costretto ad ammettere: “quando ti centra, ti distrugge”.
La coerenza dei comportamenti – il ring come continuazione della vita con altri mezzi – va in parallelo con l’apparente strabismo delle loro rivendicazioni, se messe in relazione alle rispettive provenienze: Alì nacque nel Kentucky, a Louisville, in una casa che si può definire relativamente borghese; Frazier veniva da una fattoria della Carolina del Sud, ultimo di dodici figli in una famiglia di lavoratori della terra e allevatori di maiali. Provenienze differenti, in buona misura ribaltate dalle appartenenze adulte: Alì ribelle, fiero portabandiera dei diritti civili e delle lotte anti-apartheid; Frazier inglobato nel sistema, il “nero bravo”. L’uno vive di provocazione affabulatoria, è sfrontatezza e megalomania; l’altro è un uomo che ha a cuore l’essere ricordato come un personaggio serio, uno che non ha mai perso la misura. Proprio quella compostezza che Alì detestava. Non è spiegabile in maniera semplice come i due siano passati, come in uno switch meccanico, dalla possibile amicizia, e da una parvenza di complicità, all’odio totale. Alì, squalificato per essersi rifiutato di arruolarsi per il Vietnam, non perdonava a Joe di essere diventato campione mondiale in sua assenza. Né valse il fatto che il suo rivale si fosse speso per sostenerlo in quel periodo di squalifica. Di certo i due dovevano rispettarsi e temersi – come dare loro torto – ma non smetteranno mai di dirsene di tutti i colori, oltre che darsele fin quasi ad ammazzarsi, in quella che è stata definita, quasi fosse un’opera letteraria o teatrale o musicale, la “Trilogia Alì-Frazier”, l’insieme dei tre match che li hanno visti contrapposti.
Dopo essere uscito vittorioso nella prima sfida, ribattezzata senza tema di enfasi “The Fight of the Century” – il combattimento del secolo –, Joe, che ha dovuto sopportare le intemperanze verbali di Alì, sfoga tutta la fierezza del campione finalmente legittimato: “Io so parlare con i fatti, lui con i fatti e con le parole, troppe parole, come nei primi round del match. Ma poi ha dovuto chiudere la bocca, o meglio ha dovuto usarla soltanto per respirare, per sopravvivere alle mie mazzate“.
Dopo quella prima vittoria, Frazier, uscito martoriato a sua volta, ebbe bisogno di diverse settimane per riprendersi, e Alì, pur sconfitto, gli ricordò che non gli conveniva essere troppo orgoglioso della sua vittoria: “quel giorno io ti ho mandato all’ospedale”.
I tre incontri si tennero nel 1971 (New York), 1974 (New York) e 1975 (Manila). Quest’ultimo è quello conclusivo, la resa dei conti dopo una vittoria a testa – il secondo se l’era aggiudicato Alì –, il “Thrilla in Manila”, titolo estratto da una filastrocca in rima sciorinata da Alì come sfida e provocazione nei confronti del suo nemico:
“It will be a killa and a thrilla and a chilla,
when I get that gorilla in Manila”,
“sarà un omicidio, un’emozione e un brivido,
quando a Manila batterò il Gorilla”.
Alì stava intossicando di slogan e canzonature il suo avversario, rinchiudendolo in un angolo scuro, isolandolo, intristendolo.
I due non aspiravano soltanto a vincere il match e a battere l’avversario, volevano uccidersi sul ring: non sarà l’incontro più spettacolare, ma un mini-campionato, e un campionario, di crudeltà e spietatezza. Per questo, per la ferocia con cui si diedero battaglia nelle drammatiche quattordici riprese, il match nelle Filippine fu definito, con una formula giornalistica “l’incontro più brutale nella storia della boxe”. Fu calcolato che Frazier inflisse ad Alì ben 440 colpi, tanto da far dire a Smokin’ Joe, anni dopo, che era a causa dei suoi pugni a Manila – che a suo dire avrebbero potuto demolire una città – se il suo avversario aveva contratto il morbo di Parkinson, la malattia di cui Alì si ammalò una decina di anni dopo, e di cui sarebbe morto.
Ci rendiamo conto? C’è stato un uomo al mondo che ha potuto sostenere di aver picchiato così forte Cassius Clay da avergli provocato il Morbo di Parkinson a forza di pugni.
Ma torniamo a Manila, sul ring.
Alì era un incassatore formidabile, e lo dimostrerà l’esito del massacro di quel 1° ottobre 1975. Scivolava come se pattinasse, si allacciava al suo nemico, gli tirava pugni sulla testa e lo abbrancava, si faceva mettere alle corde, le prendeva (440 volte) e intanto però colpiva, eccome.
Alla fine della quattordicesima ripresa, quindi nella breve pausa alla vigilia di quella che sarebbe stata l’ultima ripresa, si verifica la svolta: il match adesso si gioca e si decide nei rispettivi angoli. L’allenatore di Alì, Angelo Dundee, vede che il suo pugile sta per crollare, è esausto e sull’orlo del collasso, ma lo incita energicamente ad alzarsi perché ha capito che l’avversario sta peggio di lui, non ne ha proprio più. I due sono ormai allo stremo, ma Dundee ci ha visto giusto. In quei secondi concitati, infatti, nell’angolo opposto, Eddie Futch, il coach di Frazier, sta constatando che Smokin’ Joe ha gli occhi talmente gonfi e tumefatti da non vederci praticamente più: un’eventuale quindicesima ripresa lo avrebbe ucciso.
Nella bolgia di Manila, Eddie Futch annuncia il ritiro di Frazier.
Alì avrà la sincerità di confessare che la resa dell’avversario aveva preceduto di un attimo il suo stesso ritiro. Si erano spinti oltre ogni limite.
Quando Alì si ammalò, fu chiesto a Frazier se provasse dispiacere. “Non mi sento male. Clay mi ha sempre preso in giro, come se fossi un cretino, picchiandomi sulla testa. Ora parliamo di chi ha realmente vinto quei tre match”.
All’annuncio della vittoria per il ritiro dell’odiato rivale, Mohammed Alì ebbe appena la forza di alzare le braccia, un mero sussulto di nervi e incredulità, per poi crollare a terra. Dichiarerà – lui, re degli sbruffoni – che quell’incontro fu la cosa più vicina a morire che avesse mai conosciuto.
