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Technical Ecstasy

di Emanuele Canzaniello

 

Il romanzo di cui vengono anticipati qui due capitoli, da due momenti distanti del libro, orbita intorno al fantasma abbacinante e inabitabile dell’orgasmo. Una pillola neuro-ormonale è diffusa nel mondo e ha alterato per sempre l’orgasmo umano, la sua intensità e i modi con cui ne facciamo esperienza. Trasformando per sempre le forme della civiltà, stabilendo un prima e un dopo del tutto nuovi, e sancendo la scomparsa del contatto tra i corpi e delle relazioni come le abbiamo conosciute. Quattro persone vivono la loro prima e ultima stagione di socialità in un’esperienza di autotortura e isolamento che ricorda e nega allo stesso tempo le 120 giornate di Sodoma. Uno di loro racconterà, in un libro che si segue e scorre dentro il libro, per simmetria e rovesciamento, la vita smisurata dell’uomo Sade.

 

6

Autotortura I

 

Un fenomeno che si è sviluppato fin dai primi anni della diffusione della pillola ha rappresentato il suo esatto contrario, così contrario da rivelarsi come il suo doppio simmetrico. Un fenomeno di inversione e duplicazione che accompagna sempre le grandi e profonde trasformazioni dell’erotismo di un’epoca del mondo. La grande frattura che ha fatto scivolare l’antichità sotto falde irraggiungibili, sommergendola per sempre, è stata anche l’occasione vastissima per cancellare e sfigurare quello che era stato. I volti delle statue degli dèi bruciati dal segno della croce, nella furia di cancellarne anche la sessualità, ultima tra le trasformazioni possibili di un mondo; ma fu anche l’occasione per sperimentare e inaugurare nuove forme di desiderio e di erotismo, che prima non erano state neanche immaginabili.

Se il desiderio com’era stato visto e vissuto nell’antichità doveva sparire nell’era cristiana, ed essere cancellato lungo due secoli, se il desiderio in sé doveva perire al mondo, e questo avvenne, è pur vero che queste fameliche proibizioni della sessualità generarono poi involontariamente insospettabili nuove vie del desiderio. Lo splendore del primo monachesimo cristiano del V secolo d.C. coincise infatti con la grande stagione dell’ascetismo occidentale, con le sue forme più estreme. Queste forme estreme, scavando al fondo di ogni privazione possibile, arrivarono a scoprire l’acqua nuova di nuovi desideri, toccando profondità nuove alle quali non si era mai arrivati.

Le monache perdute e fattesi seppellire in vesti rigide e catene intorno al collo e ai polsi, che avevano vissuto così, murate vive, in case inaccessibili dove si arrivava per vederle e riceverne una benedizione solo da strette finestre, quelle donne desideravano spegnere la carne e il corpo solo per accenderlo nell’amore per il proprio Signore e Salvatore. Quella forma di ascesi non era lontana dalle forme del desiderio sessuale più puro; così come quelle forme di ascesi non sono lontane dai fenomeni della nostra epoca, sia di reclusione e auto-isolamento, sia nella pratica di una forma del desiderio che è pura e richiede la dedizione della preghiera e della privazione.

Quello che oggi molti hanno capito e praticano è la messa in atto di questo legame molto diretto tra gli opposti dell’ascesi e del piacere che non può essere contenuto. La pratica è questa: dopo aver sperimentato la pillola, anche nelle sue forme più estreme, arrivando alla dipendenza più violenta, che toglie il desiderio anche di nutrirsi e di dormire, una volta vissuta questa dipendenza da orgasmo continuo decidono di smettere, di passare senza protezioni alla fase atroce dell’astinenza disregolata e incontrollabile senz’assistenza medica e farmacologica. E dentro quest’astinenza iniziano a sperimentare nuove forme di piacere famelico, potente quasi come quello chimico dell’orgasmo indotto.

In questo, e non soltanto in questo, i nostri adepti del nuovo culto assomigliano ai primi asceti cristiani del deserto siriano, agli anacoreti e agli stiliti, capaci di affondare nella sensualità anche attraverso il rifiuto più sfrenato del corpo. I nostri attuali stiliti, dopo aver esplorato a fondo i nuovi sensi che la pillola può fornire, dopo aver goduto della dipendenza più brutale a cui potersi sottomettere senza più volontà, decidono, con forze che hanno del mistero religioso, di uscire da quella dipendenza, improvvisamente, come in una nuova iniziazione, e allora godono del piacere nuovo di una torturante privazione, di un’abietta privazione che li consuma quanto prima erano consumati dall’orgasmo. I nuovi piaceri sono quelli della privazione, potenziati dal lascito chimico-neuronale e ormonale della pillola. Dolori, tremori, nausee, alterazioni elettriche cerebrali, allucinazioni più tremende di quelle indotte dalla pillola, spesso totalmente prive di contenuto erotico ma di pura nausea del corpo. Superata questa fase del disgusto corporale si raggiunge una nuova intensità sessuale fatta di privazione e isolamento, esattamente identica alla privazione e all’isolamento che già la pillola imponeva in altro modo.

Gli stiliti antichi vivevano sulle alte colonne dell’architettura antica, e già questa è una proposizione che gli occhi e la mente degli uomini di questa epoca non riescono a vedere, né ancora meno a comprendere. Sulle alte colonne, in cima, sull’apertura rovesciata dei capitelli, non c’è spazio per nulla, non solo per la vita ma per qualunque movimento degli arti. Questi uomini vivevano decenni senza scendere mai. E anche questa proposizione contiene qualcosa di così vicino all’impossibile da essere assimilato all’impossibile dell’idea di Dio.

Su quelle colonne deiezioni ed escrementi vivevano con loro, la loro stessa vita corporale ne era assimilata, gli odori restavano lì. Si nutrivano del cibo che proveniva da terra e che la gente lasciava loro. Il cielo riversava su di loro il calore e il gelo, i venti e le piogge, e il loro corpo dilavava con questi corroso. Il corpo stesso diveniva inospitale quanto la sede che occupava. Il più celebre degli stiliti, ricambiati tutti dal segreto invincibile della vanità, fu Simeone Stilita, che visse isolato lì in alto per trentasei anni. Dieci anni in più di Sade che visse nelle sue celle. Lo stilita ne visse trentasei su uno spazio non più grande della seduta di un uomo accovacciato, ma per scelta.

Entrambe queste forme di privazione hanno generato nuove epoche della sensualità del mondo, dopo gli stiliti e dopo Sade. Gli stiliti avevano rinunciato anche al piacere di distendere le membra, per trentasei impossibili anni. Nuove forme di gioia sorgono da privazioni così insondabili che vengono create dal corpo e per il corpo.

Gli uomini e le donne che si spingono fino a questi territori, i nostri territori nuovi aperti dalla pillola, tornano poi a pratiche scomparse; sono frequenti le testimonianze dell’uso di catene e collari per bloccarsi e non cedere a nulla, né alla masturbazione né al nuovo uso della pillola. Il loro isolamento è grande quanto doveva esserlo per l’anacoreta che visse nel rifugio ancorato alla parete di roccia su cui sorgeva la Chiesa di Todos los Santos a Norfolk, in Inghilterra. O alla casa senza tetto, esposta ai venti, di cui parla Teodoreto di Ciro nella sua Storia religiosa del V secolo, in cui vissero due sorelle siriane, Marana e Cira, avvolte nella pratica dell’incatenamento, prive di cibo se non quello che arrivava loro da qualche finestra, avendo sigillato la porta con fango e pietre. Alcune sante italiane bevevano il pus dalle piaghe dei lebbrosi; abbiamo notizia di altre, come Giovanna Maria de Maillé, che si conficcò una spina nella testa in ricordo della corona di spine di Cristo.

Molti degli anacoreti di cui abbiamo notizia sceglievano di vivere murati e murate vive in spazi ricavati nelle pareti delle chiese, non più grandi del loro corpo, una fila di mattoni disposti intorno al loro corpo, con uno spiraglio da cui vedere gli altari e l’eucarestia e ricevere cibo e acqua. Molti morirono nel fuoco durante gli assedi delle città.

Abbiamo testimonianze e notizie che ci dicono che molte, se non tutte queste pratiche di un’altra era, stanno tornando e conoscono nuova vita. Anche la pratica di distendersi e lasciarsi cadere sui vetri, flagellarsi o vivere coperti da pesanti catene. Ma lo scopo, oggi, non è quello di avvicinarci a Dio, alla corona della sua vittoria, per ricongiungerci con lui, l’amato, il Cristo. No, lo scopo oggi resta quello del piacere, quello di ritrovarne forme nuove, rese possibili al corpo solo dopo aver attraversato i deserti dell’amore aperti dal dispositivo.

Sappiamo di persone sepolte come anacoreti sotto pesanti catene ovunque, da Singapore a Seattle, nelle periferie e nelle città, nelle case isolate nei boschi e nei grattacieli. Li trovano e li riconoscono così, dai corpi consumati dei digiunatori e dell’inedia forzata, legati ai letti, ai tavoli, con pesanti catene, in macerie escrementizie che credevamo scomparse. Non sono folli, non sono lebbrosi, la loro lebbra è un condizionamento chimico-elettrico che non appartiene ad altre epoche. Lo stupore ulteriore, davanti a tutte le epoche dietro di noi, è legato anche allo stupore di capire che è nel profondo piacere che questi uomini e queste donne hanno inseguito la morte, e quella morte l’hanno accettata, voluta, solo come un incidente sulla strada della conquista di piaceri nuovi. Quello che si scatena nel corpo, dopo aver conosciuto l’orgasmo, e dopo essersene privati, porta ad accettare le conseguenze più estreme e incomprensibili della privazione, tanto quanto potevano le antiche ragioni sacre che conducevano all’ascesi e all’autotortura.

In alcuni casi, come nell’antichità della prima ascesi cristiana, gli uomini si evirano, si dissanguano strappandosi il sesso nei modi più inarginabili, colti da incontrollabili stimoli in cui il piacere e il dolore sono chimicamente e neurologicamente alterati, irriconoscibili. E così le donne, estreme quanto gli uomini e quanto lo erano nell’ascesi monastica dei primi secoli. Lo splendore che si manifesta in questi casi è quello che ci permette affacciarci su un’intelligenza che può ricordare il divino nel cosmo, e che consente di pensare che tutto il reale sia l’impossibile, di accostare l’evirazione violenta per mortificare la carne e avvicinarsi a Dio a un’evirazione ugualmente violenta ma che è il frutto della sfrenata glorificazione non di Dio ma della carne e del più cieco piacere, furiosamente ostile ad ogni reale.

Così ostile ad ogni reale da superare, e ne abbiamo dovunque le prove ormai, anche i sintomi elementari dell’autoconservazione di specie. Allo stesso modo le donne si strappano le labbra vaginali, il clitoride, mortificano e lacerano i loro genitali, e non solo, in modi che non sono stati osservati dalla criminologia e dall’anatomopatologia. In molti casi le catene servono anche a questo, ad evitare o a prevenire esiti del genere; ma chi è arrivato a quello stadio, a desiderare le catene, non pensa più secondo la logica della sopravvivenza.

Sono alterate forme del piacere anche queste, le vagine svuotate con colpi da taglio o lacerate a mani nude, ridotte in quello stato per i postumi dell’astinenza e per gli eccessi di disregolazione neurologica che la pillola indurrebbe; ma su questo il dibattito è naturalmente aperto e pieno di controversie.

Si desidera tornare al parossismo dell’orgasmo che il corpo ha conosciuto, ma si vuole godere dei lampi intermittenti del suo potere che lentamente si allontana dall’organismo e dal nostro cervello, e mentre si allontana scatena e libera tempeste nuove, mai sperimentate, come mai sperimentato era il potere aperto prima e su cui c’eravamo affacciati senza timore. In questa notte del corpo i lampi sono ben visibili in lontananza nel cielo, sono bagliori inauditi ma antichi, in forme forse nuove ma sicuramente con motivazioni quelle sì nuove. Nella disregolazione elettrica di questa tempesta che si allontana rientra anche la componente dell’alterazione dello stimolo della fame, del sonno, e il soggetto piomba in un’ascesi che è sicuramente volontaria ma anche favorita da questi scompensi.

Il soggetto non mangia non solo perché i recettori degli stimoli sono compromessi, ma anche perché scariche e bagliori di piaceri nuovi si alleano e si attivano per attrarlo in questa rinuncia. La persona vi entra perché sa ed è sedotta dai piaceri che il corpo le prepara in questa discesa verso l’assenza di tutto. Morti in catene dentro le proprie abitazioni, immersi nelle proprie feci, nella propria acqua, quasi già decomposti, ma con gli occhi dell’orgasmo. Sono visioni che appartengono solo a questa precisa era del mondo, o forse possono davvero essere accostabili solamente ai volti imperscrutabili dei santi, morti in un’altra estasi ma con un inganno simile sul volto, sulle labbra e negli occhi lo stesso grido, che è del duplice orgasmo, del piacere ma anche della morte. I santi stessi s’ingannavano ma probabilmente erano i primi a sperimentare alterazioni percettive e disregolazioni indotte; la motivazione teologica in loro sostituiva il congegno tecnico che opera in noi. E in fondo è solo una sostituzione apparente, perché il congegno della tecnica è per noi motivo teologico e sembianza di Dio.

*

57desiderio, erotismo,

Riesumazione

 

Stanotte ho visto la tomba di Maria Antonietta. Prima era una forma nera, un solido, poi è apparsa come una ghigliottina stilizzata e bassa.  Un grumo, la linea di una lama in un cubo nero. Qualcosa era dentro, denti, forse capelli, una testa. Poi, accanto, un solido scuro e più lungo, qualcosa come un cassonetto impenetrabile, era forse la tomba. Lungo la strada.

Questa strada era a scorrimento veloce, e conduceva a una vasta piazza antistante. Non so e non vorrei sapere altro.

Ero disteso, solo, e la vedevo. La vedevo tornare mentre la dissotterravano, altri la dissotterravano. Sentivo la presenza di Sade sulla scena, tra gli uomini che la cercavano. Cercavano di vederla, di riconoscerla tra i resti dissepolti. Lei tornava, stava tornando da molto, troppo lontano per vederci, per riconoscerci. Ancora molta terra la ricopriva. Iniziavamo a vedere la pelle bianca, e quanta parte della pelle fosse irriconoscibile come tale. Mista di terreno e sangue denso, scuro, impenetrabile. Mista a qualcos’altro che apparteneva allo stesso ordine di materiali della forma nera, squadrata e liscia da ogni lato che avevo visto prima, come una ghigliottina divenuta pareti.

Era la prima volta che vedevo Sade in un’azione percettiva in cui stavo entrando. Lo vedevo tra la folla che iniziava a piangere la regina di cui venivano dissepolti i resti, mentre si aprivano sempre di più gli spazi di una grande fossa comune da cui stava emergendo il corpo. Non era più lei, non poteva essere riconosciuta. Ma il pianto non era trattenuto da nessuno e non era che per lei. Appariva come una forma inanimata e allo stesso tempo come un nudo appena risparmiato o del tutto intatto in alcune parti.

In una luce sontuosa risplendeva ancora il fondoschiena e uno dei seni. Sembra annerita da una scarica di un fulmine, non solo dalla furia degli uomini e della terra.

Immagino che Sade vi stia vedendo la sua sovrana, e la corte e gli uomini che lo hanno reso prigioniero per una vita. In quel corpo riesumato, racchiusi nei suoi grumi di sangue rappreso, nei suoi lividi, sono custoditi ricordi vivi di Sade, ma non solo, di molti degli uomini che la stanno vegliando ora che riemerge, e la stanno riportando dove merita. Molto altro resta custodito lì, in quel corpo, mentre per l’ultima volta viene disseppellito e spogliato, spogliato nel riesumarla della promessa di resurrezione che poteva contenere. Quel corpo non risorge, anche se il corpo è quello di una regina che può aver vinto la morte.

Non risponde, non si rianima. E come potrebbe, ridotto così, a una massa inanimata. Informe ancor di più se confrontata alla vista con la durezza levigata del cubo nero da cui sembra uscire. Alla regina quegli uomini chiedono o sembrano chiedere un perdono incommensurabile. Per la sua morte, per la morte di molte cose che quel corpo incarna. Silenzioso. Muto. Che non risponde più. E più viene esposto, issato, sostenuto, e più resta muto. Resta un mistero. Non ero mai stato in un’esperienza così prima. Non percepivo ancora nessun segno dell’eccitazione erotica.

Poi, sui resti sanguinosi della regina, avverto i desideri della folla, di Sade stesso che continua a guardarla. Le tolgono i vestiti che ancora si distinguono dalla pelle decomposta, qualcuno inizia a masturbare Sade. Qualcosa di insostenibile stavolta ci opprime. Nella folla un urlo parla di un fulmine che sarebbe entrato in quel corpo quando era ancora vivo e ne sarebbe uscito dalla bocca. La bocca, come la vagina, non sono più tali, non sono più. Ma soprattutto, quel corpo ha una ferita profonda sul collo. Una ferita che non può essere vista. Strofinarsi sulla ferita del collo reciso, denso di nodi di liquidi rappresi e in decomposizione. Voltano il cadavere, qualcuno loda lo stato di prodigiosa conservazione, lo definiscono sublime, una prova dell’intelligenza divina e del potere che da Dio discendeva su di lei. Nella folla la massa inanimata di quel corpo rifulge intatta nelle sembianze di due natiche bianchissime e immarcescibili.

Sade grida, e la sua voce si rompe nello stridore più lacerante che io abbia mai sentito bloccarsi in una gola. Vediamo se Dio adesso la fa risorgere, diceva un altro, chino sul nero angolo della tomba lucida. Nessun martirio è sufficiente per l’uomo, nulla punisce la sua miseria, nulla merita di ascoltare il grido di perdono che tutte le cose chiedono, che nessuna chiede, senza nemmeno poter concepire cosa sia chiedere quel perdono.

Nessuno può menzionare quello che non c’è di quel corpo, che assiste a quello che accade alle sue spalle dalla sua testa, staccata dal corpo, ancora con gli occhi coperti di terreno e chiusi, osserva appoggiata al nero abominio geometrico della sua tomba sigillo. La capigliatura è folta e bionda, sfiorita come rovi, umida di terreni e vermi. Conserva ancora parti del collo, lungo, elegante, grondante. Qualcuno prova a profanarne la bocca, ad aprirne i denti. Alcune donne si spogliano delle vesti povere, settecentesche, e sotto appaiono lordate di sangue, sangue di animale. Nessuna ferita appare. Gli uomini lo fanno, unguentati dal sangue abbondante che le scorre dovunque. Quelle donne vogliono gettarsi sul corpo di Maria-Antonietta, vogliono lordarne il seno strofinando il loro seno su quello della regina, coprirlo di sangue, umettarlo. Altri ne percorrono le piste di sangue sulla bianca rosa decomposta ma intatta della regina, aspettano di unirsi ai fiumi di sangue delle loro donne, che non smettono di essere penetrate a turno, confusamente. Le loro urla sono e non sono, impossibili da ascoltare.

Bisogna ammettere che Dio è davvero un pittore magnifico per aver conservato questo dipinto della natura, ridotto a un foglio bidimensionale, un cartone con delle forme ancora disegnate, annerito dall’uso ma ancora voglioso: bisogna dire che Dio ha davvero previsto tutto nella sua grandezza, per la gloria del suo trono e di quello di Francia. Che misericordia la sua nell’offrire di nuovo la sua regina al suo popolo, in martirio, ritardandone la decomposizione, in modo da poter celebrare ogni secolo, se non ogni decennio, la sua morte e resurrezione con una festa del genere. Questo sento urlare nella folla. Non vedo più il marchese, sento in qualche punto della scena un’estrema angoscia.

La regina è ormai a terra, scivolata giù come un abito, leggera, sottile come stoffa, senza forme, forse consumate dall’uso e destinate a ricrescere ad ogni apparizione riesumata. Si confonde con il terreno se non per la bianchezza della stoffa, per quel tessuto di pelle che le rimane e che alcuni hanno confuso per un corpo. Questi scenari non sono scelti nel momento in cui ci cibiamo della nostra celeste pralina, della nostra pillola. Noi siamo i dispensatori e i prigionieri delle immagini che vengono da noi e che sono anche contro di noi, e sono noi a dispetto di noi. Mai avrei voluto vedere né immaginare tutto questo.

Vedevo uomini che erano forme della fame, ridotti a scheletri, che avevano la forza irreale di sollevare la regina, piegarla, tenendole le braccia all’indietro, legata, mentre esalavano su di lei. Erano folla, erano uomini laidi, obesi oltre ogni ipotesi medica, idropisie versate sul dorso o sui seni della regina come acqua che si scioglie in quell’ultimo sussulto. Erano melma e terra che la ricoprivano e la sotterravano ancora e ancora, sotto peggiori metri e metri di corpi e pile di corpi che la ricoprivano. Poi venne il pianto di Sade.

Prolungato, eppure muto, impossibile da dimenticare anche da sveglio, anche lontano da ogni postumo riflesso neuro-attivo. Lo sentii sottrarsi con furia ad ogni gesto che lo coinvolgesse a danno della sua regina. Avvertii la presenza di un potente impulso che rigettasse tutti via da lei, spazzati via. Come Chateaubriand anche lui vide e riconobbe per la prima volta la regina dalla mascella superstite nel volto che non fu più. Quella mascella appena dissepolta e intatta, ossea, isolata e sola nella rovina del volto come una colonna nelle rovine di un tempio, abbagliava ancora come il ricordo dell’antico sorriso, di quel sorriso che Chateaubriand vide di lei la prima volta che fu presentato a corte e che vide risorgere con lei dalla fossa comune della Madeleine. Sade forse non vide mai quel sorriso quando era vivo ma lo sentii nelle ossa, nel volto reciso che non fu trovato e nessuno vide più.

Davanti a quel sorriso io lo vidi piangere, forse avendo nella mente le stesse parole di una sua lettera sul destino della monarchia e della Rivoluzione: ditemi voi chi sono, perché per parte mia non lo so.

E la regina si mostrò ben presto attorniata da un radioso corteo, ci rivolse una nobile riverenza, sembrava davvero incantata di vita.

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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