Lingue matrigne
di Gabriele Di Luca

I due passi che seguono sono tratti dal capitolo “Lingua madre e lingua matrigna: uno scenario complessivo” del saggio “Lingue Matrigne” (Edizioni Alphabeta Verlag, 2025) del giornalista e traduttore Gabriele Di Luca
Per stabilire una distanza non diminuendo, bensì aumentando la contiguità, occorre esercitare la facoltà della “cattiva” indifferenza. Io posso mostrare indifferenza allor-ché una cosa non mi interessa (anche se magari dovrebbe), e allora le volgo le spalle, faccio finta di non vederla, passo oltre e per me la faccenda è chiusa. In Adige/Südtirol, anche se viviamo tutti a stretto contatto (come se fossimo insomma miteinander, insieme gli uni con gli altri, stando “sotto lo stesso tetto”), i rapporti sono perlopiù intonati a una coesistenza fatta soprattutto di reciproca indifferenza: ogni giorno celebriamo un mesto Nebeneinander (gli uni di fianco agli altri) che tende pericolosamente all’Ohneeinander (gli uni senza gli altri). Quella che qui manca, allora, è l’indifferenza dalla faccia “buona”. Io potrei, per esempio, scrivere questo testo “indifferentemente” in tedesco o in italiano, se solo avessi la voglia e soprattutto la capacità di farlo. Ma poche sono le persone in grado di destreggiarsi con pari abilità in più lingue, e ancor meno quelle che – a partire da questa abilità – riescono a contagiare gli altri; i più credono di difendere la propria identità e specificità culturale mostrandosi indifferenti alla lingua e alla cultura dell’altro. Nel saggio Per imparare la lingua del vicino, Aldo Mazza ha il merito di enunciare l’aporia della vicinanza foriera di distanza in modo diretto e persuasivo:
Niente sembra più difficile, e non solo in Sudtirolo, che imparare la lingua del vicino. Paradossalmente sarebbe più facile apprendere una lingua lontana, o per lo meno parlata da persone che non ti vivono accanto, che imparare una lingua parlata da quelli che con-vivono-con-te, una lingua che attraversa la tua quotidianità a vari livelli.
Una volta intuita la logica paradossale secondo la quale la “vicinanza” è un fattore che può rivelarsi più problematico della “lontananza”, occorre esaminare nel dettaglio i motivi di tale difficoltà, verificando anche se si tratti di un fenomeno perfettamente simmetrico oppure se, all’interno di una generica simmetria, esistano sfumature che la mobilizzano e la alterano. Per questo motivo, quando ho cominciato a pensare di scrivere quello che state leggendo, mi è venuta in mente l’immagine della “lingua matrigna”, che include (corrompendola) quella della “lingua madre” o “madrelingua”. Un breve excursus renderà, spero, più chiare le cose.
La figura della “matrigna” ci fa pensare alle fiabe. Tutti ricordano sicuramente Biancaneve (Schneewittchen) e Cenerentola (Aschenputtel). Non c’è bisogno di riassumerne la trama. L’aspetto importante è che le due protagoniste sono entrambe orfane di madre. Perdere la madre significa con-vivere con un lutto molto pesante, in particolare perché l’assenza della genitrice espone a un rischio letale alcune fondamentali garanzie originarie, a cominciare dalla protezione conferita dal contesto familiare, che può essere la premessa di una piena realizzazione nella vita. «Without the protection and infancy’s guard / It all falls apart at first touch» cantava il poeta. E infatti i due padri, uscite di scena le mogli (mogli e madri), si risposano subito ed è qui che accade il disastro, personificato dalle rispettive matrigne. Si tratta di uno degli archetipi più potenti presenti all’interno delle fiabe. Volessimo segnalare un risvolto psicoanalitico, la matrigna rivela l’ombra, la parte di noi che rifiutiamo o nascondiamo, ma che pure dev’essere integrata per raggiungere la maturità. Nella psicologia di Jung, per esempio, l’ombra è un aspetto inconscio della personalità che l’ego cosciente non riconosce in se stesso, forse addirittura la totalità dell’inconscio che, come un profondo mare oscuro, circonda e assedia l’isolotto dell’Io. Chiaro dunque che, una volta spezzato il legame con l’origine, con la madre, sia proprio il profilo della matrigna a venirci incontro sulle onde di quel mare oscuro che rischia di sommergerci. La matrigna è il simbolo della crudeltà e dell’ostilità che il protagonista della fiaba (l’orfano o l’orfana di turno) deve affrontare, ma anche di una parte resistente della conformazione psichica rimasta impigliata nel passato e che, per essere superata, deve essere compresa e trasformata.
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Torniamo allora in Sudtirolo. Finora abbiamo parlato in generale dell’italiano e del tedesco – intendo qui ovviamente in primo luogo le lingue, e solo in senso subordinato i gruppi umani identificabili con tali denominazioni – come se si trattasse di codici monolitici, stabili e non caratterizzati da sfumature interne. Nel gergo giornalistico, addirittura, è in uso una tendenza piuttosto comica, se non altro per gli esiti, a variarne il riferimento mediante la figura retorica dell’antonomasia in forma di perifrasi. Troviamo quindi “la lingua di Goethe” e “la lingua di Dante”. Un po’ come se al bar o in ufficio tutti dicessero cose del tipo «Doch sage wem sind wir verpflichtet, dass die Natur, auf uns gerichtet, das Seltenste zusammerafft?» o «dispregiar se medesimo è per sé biasimevole, però che a l’amico dee l’uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé». Provate a immaginarvi la situazione senza ridere, se ci riuscite. È evidente che si tratta di ulteriori mitologie da ridimensionare, se non proprio da picconare. Allo stesso modo ho citato in precedenza il dialetto sudtirolese (e persino il ladino) senza occuparmi delle relative varianti. Se vogliamo però approcciare più da vicino il rapporto conflittuale tra i diversi codici, e con ciò comprendere la dinamica tra “lingua madre” e “lingua matrigna” che lo caratterizza, occorre adesso essere più precisi. E la precisione ha i suoi costi, le sue perdite, giacché focalizzerò l’attenzione esclusivamente sui repertori linguistici delle due comunità più interessa-te dalla dinamica conflittuale, vale a dire quella dei germanofoni sudtirolesi e degli italofoni altoatesini che dir si voglia. Per farlo mi appoggio a un breve saggio, intitolato La situazione sociolinguistica dell’Alto Adige/Südtirol, del glottologo Alberto Mioni, che al nostro caso ha dedicato vari altri contributi, tra i quali uno assai illuminante – ricordo di averlo letto appena trasferitomi in provincia di Bolzano – perché impostato sulla differenza sussistente tra forme di bilinguismo o plurilinguismo “addittive” e “sottrattive”. Ecco il quadro linguistico con il quale dobbiamo confrontarci, secondo la ricostruzione di Mioni:
I germanofoni hanno generalmente tre diversi livelli di lingua, includendo la madrelingua e lo standard cui essa fa riferimento […]. Lingua alta è lo Hochdeutsch, che però è considerato lingua naturale solo nella comunicazione scritta, mentre in quella orale è usato di solito solo in occasioni formali o nei contatti con germanofoni venuti da fuori regione (es. turisti).
Bisogna soffermarsi su questa distinzione e pensarla a fondo. La madrelingua dei sudtirolesi non è la “lingua alta”, che infatti viene usata solo nella comunicazione scritta oppure, oralmente, nei contesti formali e nei casi in cui gli interlocutori provengano da quei Paesi germanofoni col-locati fuori dalla provincia di Bolzano. Se quindi questa lingua alta non è la madrelingua (e tantomeno la lingua madre, secondo la distinzione che abbiamo già evidenziato), dobbiamo forse dedurre che essa possa essere vista come una “lingua matrigna”, cioè un codice che non permette la definizione della propria identità e quindi, addirittura, come una specie di minaccia, al pari del citato caso ticinese, in cui gli svizzeri italiani prendevano le distanze dall’italiano standard?
Anche se si potrebbero trovare punti a sostegno di questa tesi, ciò non costituirebbe una reale approssimazione al vero. Pur non fornendo un modello identitario praticabile senza residui, lo Hochdeutsch o Schriftdeutsch è una lingua della quale la maggioranza dei germanofoni locali potrebbe in effetti servirsi senza grandi problemi o esitazioni in un ventaglio di situazioni più frequenti di quelle segnalate da Mioni. Una cosa però è certa: tra esse non rientrano né quelle in cui i sudtirolesi comunicano fra loro (perché allora la lingua comune diventa o una variante dialettale o una forma attenuata di dialetto definibile Umgangssprache, “lingua d’uso” con marcate componenti gergali), né – ed è a mio avviso una delle chiavi per comprendere alla radice le difficoltà intrinseche al quadro di convivenza locale – quelle che pongono di fronte un germanofono sudtirolese e un altoatesino italofono, perché in questo caso è più probabile che la lingua matrigna in un certo senso “ufficiale” o comunque più prevedibile (cioè l’italiano) ceda lo stigma della “matrignità” proprio al tedesco standard, che infatti viene perlopiù evitato e sostituito con l’italiano in quanto “lingua ponte” o della cosiddetta comunicazione “interetnica”. La ragione può apparire semplice, ma forse non è così agevole da afferrare come sembra.
E gli italiani, cioè gli altoatesini, come sono messi? Scrive Mioni:
Gli italofoni hanno […] come livello alto l’italiano standard (cui si aggiungerà lo Hochdeutsch per quelli che abbiano avuto una scolarizzazione linguisticamente efficace), come lingua media la varietà di italiano regionale bolzanino che si sta lentamente formando, mentre come lingua bassa almeno i più vecchi preservano ancora il dialetto (con prevalenza dei dialetti veneto-trentini, che, insieme, formano il gruppo più rilevante e più stabile). Le giovani generazioni di solito non acquisiscono dalle loro famiglie una competenza attiva dei dialetti, che non sono frequentemente utilizzabili nel complesso contesto urbano. Hanno invece un italiano abbastanza uniforme, scarsamente influenzato dalla regione di provenienza delle loro famiglie. Ciò che in generale manca agli italiani è la conoscenza delle varietà medie e basse del tedesco.
NdR Il testo originale ha delle note anche di notevole lunghezza, che per brevità non sono state qui riportate
