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Il romanzo, la morte. Su un falso diario di Rino Genovese

di Tommaso Ottonieri

apparso su “il verri” n.89 (ottobre 2025)

L’avventura, contorta, frantumata, rimontata a pezzi, gelidamente grottesca, di un tarchiato e semisfatto anestesista fascio-seduttore, turista sessuale sordido e vuoto di qualsiasi straccio di dis-eroicità tenebrosa: un “puttaniere nero”, al modo salgariano (suo abbassamento parodico), dal trasparente nome di Venturieri: che, dal fondo del suo adipe e dei suoi capelli tinti, abbia a cuore la facile conquista (ovvero, ottenimento) di disponibili corpi femminili, in specifiche realtà tendenzialmente sottosviluppate (Africa, Dakar, e poi Brasile, Rio, in sostanza), con interferenze, anche in flashback, sulla sua dimora napoletana.

E che intanto, per una sorta di paradossale forma di attrazione, accanto alla sua empirica prassi di sperimentatore sul campo (femminile, comunque), sviluppa una sua convinzione della superiorità della razza nera (forma di razzismo, ancora, benché rovesciato), conducendo ricerche circa la relativa risposta all’anestesia.

La corrispondenza agonistica con un intellettuale, avversario politico di gioventù, discretamente attratto dall’idea del suicidio; il rapporto di difficile (e agonistica, ancora) complicità erotica con una moglie, Susanna, fascista anch’essa, approdata al piacere omoerotico, consumato, ancora, con giovani del Terzo Mondo e in particolare con tale, bellissima, Soukeina, “importata” dal marito.

Tutto questo, liberamente sezionato e scomposto (secondo una regola triadica, nella Parte prima del libro), in una narrazione che plasticamente confonde i piani del discorso: retrocedendo il narrato allo spazio quasi di un diario in terza persona, e poi il diario (in prima persona) allo spazio del saggio; e che da ciascuna delle sue forme riceve una sua dizione aperta, interlocutoria, e al fondo (mai rassegnata all’) indecidibile.

Rino Genovese (che nella Parte seconda del libro si dichiarerà persino in autofiction) è noto come autore di opere di saggistica filosofica (da La tribù occidentale a Socialismo utopico, socialismo possibile, e assai oltre) nonché di attivista “teorico” a vari livelli (da lui creati, più di recente, la Fondazione per la critica sociale, il sito Terzogiornale…), ma autore poi di diari (falsi diari) e di romanzi “antierotici” in forma epistolare; adesso, il suo capitolo metaromanzesco, vede finalmente la luce a dieci anni dalla sua stesura, si rivela in un contesto storico in grado di illuminarlo appieno donandogli risonanze cupe e sconosciute. Specie, diciamo, per l’avverarsi di un fascismo genericamente “antropologico”, un sottofondo (quasi basso continuo) tipico della storia italiana – di un dispotismo superficiale e violento, che assume i volti patriarcali del sessismo, del razzismo, del colonialismo, e che perdura rivelandosi (mai sopito) nel post-fascismo al governo oggi – pronto, tuttavia, a rivendicare apertamente la sua costanza, la presunta forza delle sue radici («Venturieri era l’estremo prodotto di una storia che si è messa a girare su se stessa facendo cortocircuito tra il presente e il passato»). L’incrocio di razzismo e sessismo rivela dunque (anzi, conferma) la consistenza di quel fascismo, la sua inconscia valenza antropologica, capace di restare strisciantemente attiva per decenni, in zone spesso celate, riaffiorando per complotti rimasti oscuri quanto devastanti per emergere nell’attuale crisi del pensiero critico; ma insieme, per esso si rivela una intrinseca, patetica fragilità: il declino del maschile, nel rapporto tra i sessi, è parte del rabbioso decadere d’un Occidente patriarcale, che, per allegoria, trova qui rispondenza in una vasta e indifferenziata vocazione al suicidio (di cui quella enunciata dal narratore, senza darvi seguito, è solamente la più consapevole ed esplicita).

La memoria forse involontaria della dialettica negativa, paranoide, espressa in Tempo di uccidere (il che riporta, decenni addietro, a una stagione a ogni titolo fascista), qui riversata all’incontrario, deprivata del coefficiente di colpa storica che alimenta il romanzo flaianeo, si sviluppa sul corso discontinuo d’una dissociata, ma ritmica, forma di sciarada, fino al suo primo scioglimento. Il puttaniere finirà di morte cruenta, in Brasile, a opera di qualcuno più alto di lui, probabilmente l’irresistibile virago che lo ossessiona e possiede; e tutto in realtà permane infine in una condizione di stallo, per una difficoltà – o interdizione – a illuminare ogni zona d’ombra, a comprendere ciascuna delle sacche di storia sconosciuta: “Tereza”, la fatale (mai rivelata, però) giustiziera, misteriosamente porta un nome che non è il suo, e una prima volta emerge dalla trance di un rito Candomblé, quando a Venturieri appare come un doppio della Soukeina senegalese.

Eppure, è proprio giunti a questo punto, che si apre l’interrogativo più vertiginoso, a donare titolo e tema alla ricerca stessa. Chi è che ha scritto, veramente, questo libro? O, più alla radice, chi è che scrive, ogni volta, e diversamente, un romanzo? Sarà, in questo caso, il conoscente, l’osservatore, impropriamente chiamato dalla moglie di Venturieri a comprendere e orientare l’intrico? O sarà piuttosto quel funzionario di polizia locale – il delegato José de Oliveira, – fatalmente sedotto dal corpo magico-scultoreo della medesima virago, il quale aggiusta le prove per scagionarla e insieme per rendere più avventurosa la storia che intanto, ha deciso di scrivere, grottescamente trasformandosi nel suo scrittore (e perdendosi, per questo)?

La domanda insomma traspone la questione stessa in chiave metaromanzesca; non si tratta di un romanzo già scritto, stancamente chiuso, solo da sciogliere nei suoi nodi secondo una collaudata e inferenziale strategia di lettura: ma invece, di un romanzo da scrivere o in ogni caso ricomporre dal suo stesso grado di indecifrabilità, sulla base di sparsi disorientanti dati; che non appartengono a un plot comunque già-scritto, ma sono quelli, piuttosto, suggeriti dalla mobilità incertamente conoscitiva di un processo d’investigazione che trae la sua forza dall’interrogare, priva di chiavi rivelatorie e dunque di esiti incontrovertibili, del saggio: o meglio, del romanzo-saggio; una chiave che, anzi, solo «nella indecisione tra il saggio e il romanzo», può essere forse posseduta. Sarà, dunque, «il romanzo di uno che non crede nel romanzo».

Nella Parte seconda e ultima del libro, l’invenzione della trama diventa artificiosa, cadaverica, gelidamente grottesca (eppure traversata da uno strano pathos testimoniale-speculativo): sì che la dimensione diaristica assume un ruolo più letterale ed esplicito, riassegnandosi al narratore, il quale, nella prima sezione, appare solo occasionalmente dichiarantesi. Eppure, fino in quella Parte prima, ovunque vige un andamento diaristico e come astratto nel suo andare spezzettato; incerto ovunque vi sia il soggetto, perifericamente osservatore, della ri-de-costruzione: e significativo che l’occasione da cui scocca l’idea del romanzo è (stante alle confessioni dell’autore) la scoperta di un manoscritto diaristico d’un conoscente, frequentatore sedicente di prostitute nere.

Ma soprattutto, una volta preso corpo, riattribuitosi un ruolo investigante e protagonista nelle peregrinazioni brasiliane della Parte seconda, il narratore fa evolvere il suo “antifascismo” in una forma sospesa di autoanalisi; deponendo, in definitiva, lo stesso modo metaromanzesco, e convertendo il suo scrivere in una sottesa interrogazione sul declino del soggetto occidentale, immerso nel folto di divagazioni e apparizioni di cui non giunge a ricostruire la trama. Fino al conclusivo quesito, che corrisponde a una mutazione del focus del romanzo, una rotazione vertiginosa delle sue ragioni: «Di che cosa tratterà il mio libro? Di un fascista neanche tanto ex tramutatosi in un turista sessuale, e poi in una specie di suicida per interposta persona? O di un poliziotto che, volendo essere uno scrittore, si smarrisce dietro a una probabile assassina?»

Il racconto, già inizialmente procedente a spirale, è solcato dunque, tutto, da questa profonda cesura tra due Parti; la quale di colpo lo svela quale struttura metaromanzesca ma ancor più a fondo decostruita: a dominare, è una sorta di triturazione, di fatto, doppiamente diaristica (diario in prima persona, nella Parte seconda) del presunto e già disperso plot. Alla raggelante, discontinua ma intimamente ritmata, ricostruzione delle vicende del “puttaniere” (nella Parte prima), fa riscontro il diario, in parte effettivo, dell’entità qui narrante (è la Parte seconda, tutta ambientata a Rio); messa a fuoco della problematicità  sempre insormontabile dell’attuale scrittura romanzesca (quando venga presa col necessario rigore). Di colpo, il romanzo investiga il suo stesso percorso, non meno che la sostanza stessa, profondamente negativa, delle persone in gioco (la quale si presenta sempre di più in chiave notturna, o fantasmatica, o sordido-labirintica); tutt’al più, spingendo l’atto di lettura su di una sorta di impossibile (grottesca, impalpabilmente) interpretazione del labirinto qui aperto, e quindi dello scacco (quello dell’investigazione, del delegato José de Oliveira e allo stesso modo dell’io narrante; e infine, della conversione narrativa dell’insieme).

Così, la svilita identità autoriale, emersa solo occasionalmente nella Parte prima, si rivela appieno e snuda nella Seconda, in una sorta di gioco (dicevo prima) autofictionel in cui lo scrivente, autodichiaratosi come “Rino Genovese” in sé, si afferma, tra investigazione e autoanalisi, nello spazio del diario, e riassume in sé la posizione di protagonista o quanto meno attore dell’impossibile, sempre più improbabile, quest; e afferma insieme la consapevolezza dello scacco, dell’impossibilità (in una realtà a tal punto invischiante e nebulosa) di produrre altro che romanzo (la sua stessa protagonista, Tereza, vi resta un’entità mitica, fantasmatica, apparizione densa e senza spessore)… coscienza, dunque, dell’inevitabilità di raccogliere l’eredità del delegato, resosi da investigatore al reinventore (il romanziere) della vicenda. Quella che per lui, “Rino”, ha assunto, nel frattempo, discrete marche stregonesche: come per una lucidissima, straniata forma di sconcerto.

E infine (cioè più a monte), il “narratore” dovrà radunare gli sparsi fogli (in realtà, triadicamente ritmati) di un preparatorio montaggio, quello della Parte prima (per quanto filtrati dalla voce, a un primo tratto impassibile, del conoscente “Rino”), che esula persino da determinanti temporali – montaggio, ovvero, privo di una obbligata sequenzialità cronologica (e randomicamente anzi ridisposto). Per una prismatica e non facilmente attribuibile partitura delle voci: in cui gli eventi, le avventure del Venturieri, si presentano e si dissolvono in serie di dissolvenze, acquisendo una loro (bieca quanto “secolare”) forma di oggettività, tutta venuta in luce e pure subito evaporante.

(Dura spettralità di quel “basso continuo”, di quel “fascismo antropologico”; capace di replicarsi e replicare la stessa interminabilità di morte a cui assoggetta, a cui si assoggetta).

In questo: la voce del narratore-conoscente-diarista (“Rino”) si distacca dall’inane compito di donare compiutezza “romanzesca” all’insieme: mentre, dal fondo della sua reclusione, la voce invece del delegato (de Oliveira) si conduce fino al limite di un sacrificio, quello che chiude la vicenda, lasciandola definitivamente aperta; rendendola, insomma, la piena occasione di un “romanzo”.

Così, il paradosso che si esprime fin dal titolo, è tutto in definitiva nel gioco, che vi è espresso, del tempo verbale. Chi scriverà, certo; ma: questo romanzo. Quello che è da scrivere, è un romanzo che già c’è. L’agnizione, da parte del narratore, di poterne essere l’autore (dopo il delegato, e dopo lo stesso puttaniere), segna la caduta infine della forma diario così come del “saggio” in quanto forma classica (forme che presentano entrambe un modello di conoscenza puntuale ma intermittente, per approssimazioni e illuminazioni, un modo insomma potenzialmente infinito); a favore d’un narrare organico, romanzesco, subito avvenire. Il cui avvento è già tuttavia la marca gloriosa e cadaverica d’una fine; o quanto meno, ormai, d’un impossibile inizio. Lui ha la sua morte, io il mio libro. Oppure: io ho il suo libro, lui la mia morte.

*

Rino Genovese, Chi scriverà questo romanzo? Il puttaniere nero, Castelvecchi, Roma, 2025

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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