Imperscrutabili volubilità psichiche del genere umano
di Luigi De Luca

Potrebbe sembrare il nome di un bambino, perché si ignora una verità sacrosanta: quando è la campagna a invecchiare gli uomini finisce col rimpicciolirli, li rende minuti, e per questo, specie nei paesi più piccoli – dove campagna e pastorizia ancora oggi giocano un ruolo importante – porta alla produzione spontanea di soprannomi vari, in riferimento alla statura, o alle origini, o a un tratto caratteriale. (Pensate che in questo paese ci vive uno che viene chiamato Diavolo, perché si dice che in gioventù fosse un vero demonio, che andasse spaventando chiunque con i suoi scherzi del diavolo, e per questo ancora oggi, nonostante oggi sia un onestissimo signore, egli manco si gira se non lo si chiama col suo nomignolo: Diavolo.) Invece Luca nacque e veniva chiamato Luchetto, divenne adulto come Luca, divenne Luchino, e ora invece, da quando le rughe sul suo volto sembrano sfumature a matita, tutti lo conoscono come Luchettino, dall’unione di Luchino e di Luchetto, perché di fantasia in questi paesi ve n’è troppa, ma la si usa con moderazione. Ma quel che a noi qui riguarda, a essere onesti, non è la storia del suo nome, o di come veniva chiamato, o di come egli nacque e con chi crebbe, e di chi si innamorò e di quanti figli e nipoti ebbe. Ci riguarda solo la storia delle convinzioni assurde e buffe che lo perseguitarono finché rimase in vita. Luchettino aveva dovuto divenire egli stesso il bastone della sua vecchiaia, perché il bastone vero l’aveva perduto qualche decennio prima. Era un uomo nato dalla terra, proprio come nasce una melanzana, o una carota, o le patate. È più possibile che lui fosse uscito fuori dalla terra umida piuttosto che dalla vagina di sua mamma. Si svegliava alle 4 del mattino e andava nei campi con papà e nonno, fino all’orario di inizio della scuola. Perché Luchettino non aveva mancato il treno dell’istruzione, quello che in quegli anni dal nord Italia si dirigeva al sud. A scuola ci andava sporco di terra, e tutte quelle maestre settentrionali, che con quel treno erano arrivate cariche di pregiudizi e di vane speranze, non nascondevano mai le loro facce scandalizzate.
Ma la maestra più generosa con Luchettino fu la campagna. Ma avevamo anche detto che di come crebbe Luchettino poco ci riguarda. Però, forse, ormai, ci riguarda come Luchettino si presentò all’appuntamento con la morte, e con quali paradossali convincimenti egli spirò il suo ultimo alito caldo. Perché lo esalò abbracciato al suo trattore, che gli era finito addosso durante il suo ultimo lavoro presso la terra che l’aveva partorito 88 anni prima. Eh sì, a 88 anni, quasi 89, non aveva ancora smesso di condurre quel mezzo pesante su terreni scoscesi, e quell’ultima volta, in un qualche assurdo modo, il trattore si era capovolto e lui vi era finito sotto, schiacciato, con la faccia a baciare la rorida terra, e il suo volto fu anch’esso rorido di morte e di bianco aspetto. Ma c’è in paese chi si disse convinto di aver visto sul suo volto un potenziale sorriso.
Ma tutti in paese sapevano che il ferroso Luchettino aveva perso la testa, e che pure per questo era finito sotto il trattore a quel modo.
Tutti raccontano, perché poi si sa come si spostano di bocca in bocca i racconti curiosi, quando si mise a dire che guardando una sfera di sole vi aveva visto uno stormo di moscerini neri che muovendosi armoniosamente avevano disegnato alla sua vista un futuro nefasto per il mondo. E che gli vai a dire a un vecchio, seppur rispettato in tutto il paese, che annuncia future sciagure? Niente, che gli dici. Lo compatisci, ne racconti in giro, ma alla fine non puoi che dire: «Poveretto, e pure Luchettino se n’è andato col cervello». E questa e altre convinzioni simili le andava dicendo in giro tra le strettoie e le aperture sconnesse del paese. Ma erano ben altre le convinzioni più assurde e pericolose. Perché fino a quando anticipi il futuro, a pochi importa; quando invece vai a toccare personalmente gli altri, a qualcuno importa, ovvero proprio a quelli che vai a toccare. E per quanto tu venga compatito per via della demenza senile, quelli che vengono toccati si urtano, e non poco. È così che funziona.
Come quando chiamò i carabinieri, tutti quelli che incontrava per strada, tutti i compagni del tressette, e li fece venire davanti al palazzo Vignagrande. A tutti i presenti che in ossequioso rispetto attendevano di sapere il perché di quel richiamo e di tutte quelle insistenze (sia chiaro, le genti sapevano già che Luchettino aveva perduto la testa, ma andarono comunque e non vi so dire il perché) e come se stesse facendo un’arringa disse:
«Pasqualina, la più piccola, quella che va all’Università; poi Giuseppe Vignagrande, Pino, il papà di Pasqualina; Bene. Stamattina, papà e figlia sono usciti di casa alle 8 e 35, e vedendomi, che sapete voi, quanti bei saluti affettuosi che m’hanno fatto: la nipote giusto un saluto sorridente; mentre con Pino ci siamo messi a parlare, un poco. Le dittu che il tempo è sempre brutto, e che i pedi d’alivu mia su carichi ma non tiagnu a nessunu c’ha mi aiuta ari coglia. Chissu. Ora, vi dico… nel corso della mattinata sono stato qui, seduto su quella panchina. Sono rientrati tutti e due, ma a orari diversi, e tutti e due non mi hanno salutato nemmeno. Come se io su quella panchina manco ci fossi, come se non mi vedessero, o come se io fossi un perfetto estraneo per loro. E mi pare più vera l’ultima cosa, visto che pare che voi mi vedete, e mi potete toccare, e non mi sono fatto mica invisibile, ma sono fatto ancora di carne di ossa e di pelle. Pasqualina è rientrata in casa senza guardare cosa avesse davanti, perché la testa ce l’aveva ficcata nel telefono. Pino mi ha pure guardato, solo per un attimo però, e io non mi sono alzato per andargli incontro, ma non mi ha riconosciuto».
Diversi dei presenti, chi con la voce, chi con le mani o cono lo sguardo, domandarono:
«E quindi?»
«Ah non capite? Non capite? Non mi sono spiegato. Allora, prima mi conoscevano e poi no», disse Luchettino guardando quei volti ignari al suo sguardo e finanche stupidi ai suoi occhi, ma che erano solo occhi consapevoli, ma che pazientemente aspettavano, quasi a volere stare al gioco. Perciò lui riprese:
«L’hanno cangiati…»
E tutti rimanemmo a guardarlo. E chi prima e chi poi iniziò a pensare a come andarsene senza troppo offendere Luchettino, o a come intervenire per placare le sue convinzioni. Eh sì, e ne era convinto da tempo. Era certo che qualcuno o qualcosa stesse provvedendo a sostituire con dei cloni gli abitanti del paese.
Ma non tutti avevano la stessa pazienza con il vecchio. E questo venne accertato un altro giorno, quando un mattino Luchettino si levò, di primissima mattina come al suo solito, fece colazione come al suo solito: bicchiere del suo vino al posto del latte, una fetta di pane con su del formaggio nostrano al posto dei biscotti, e un peperoncino rosso a cornetto al posto dello zucchero. Dava sempre un morso al pane e formaggio e un morso al peperoncino, ammorbidiva con un sorso di vino, e mandava giù come se non avesse gustato nulla. E sia chiaro fin dal principio, il vino doveva essere rigorosamente quello suo, perché guai a presentargli un bicchiere di vino che non fosse suo, o peggio, non sia mai, un vino comprato al supermercato. E quella mattina andò poi a prepararsi e a vestirsi elegante, e uscì di casa lasciando all’ingresso la sua ombra profumata di dopobarba muschiato. Doveva andare agli uffici comunali, per sbrigare quelle solite rogne burocratiche che nessuno vorrebbe vedere elencate in un’opera di narrativa. E poi quello che doveva fare lo sapeva solo lui. Io ero solo uno spettatore non pagante di quello che sarebbe stato di lì a breve un buffo e triste spettacolo di inumana umanità. Si fermò dieci minuti, o forse quindici pure, guardando l’ufficio. Poi vi entrò e scomparve dalla mia vista, ma decisi di attendere, perché sentivo che sarebbe accaduto qualcosa. E infatti. Ero disoccupato in quel periodo, e pigliavo gli aiuti dallo Stato, aiuti che di lì a poco avrebbero eliminato per sempre e quindi mi sarei ritrovato presto disoccupato e senza una paga, ma questa è un’altra storia. Avevo un sacco di tempo libero, comunque, e le mattine me ne andavo presto in giro per raccogliere idee in giro che poi avrei buttato sui miei fogli. Non passarono più di venti minuti d’orologio, perché ce l’avevo sottocchio, e un funzionario dell’ufficio venne fuori portando Luchettino dal collo della giacca come se fosse un sacco della spazzatura, e strisciava i piedi per terra il povero vecchio, perché il funzionario, omaccione quale era, quasi quasi riusciva a sollevare quel peso piuma di Luchettino. Per fortuna il tizio ebbe la compiacenza, almeno, di non scaraventarlo per terra, ma lo quasi adagiò fuori, e io andai subito a soccorrerlo. Insomma, per farla breve, Luchettino era entrato nell’ufficio e si era messo ad accusare a quello e a quell’altro che erano i cloni esatti dei veri loro. Si è messo a chiedere loro da dove provenissero, come venivano create queste copie così simili agli originali.
«Sì, perché voi brutte copie finte imparate tutto, anche gli atteggiamenti. Ma ancora di quelli che avete sostituito non avete imparato tutto alla perfezione. Potete essere pure uguali, ma non identici. Potete farla a tutti, ma non a noi vecchi. È chiaro? Tu non sei quello che eri… lo capisci o no?»
Questo è quanto aveva detto a quello lì che è un impiegato in quell’ufficio, che di cognome fa Nossignore, se non mi sbaglio, che qualche tempo dopo questo Nossignore andò a raccontarlo a tutto il paese, e questo è ciò che mi è pervenuto, e lo riporto qui. E raccontò pure che Lucchettino si era messo a guardare in faccia un’altra impiegata e con le sue mani ossute le aveva tirato le guance come se fosse sua nipote per cercare tracce di inverosomiglianza. E racconta che le aveva pure detto una cosa del genere:
«Tu un si tu… si n’atra. Tu un si chiu chira ca eri. Mo’ si n’atra. T’hanno cangiatu», disse in dialetto, perché preso da troppa, eccessiva, foga, e poi l’hanno sbattuto fuori come raccontavo poc’anzi.
Lo feci sedere sulla panchina e io mi sedetti accanto a lui e chiamai la figlia, perché a quel punto non se ne poteva più, anche perché io qui ho raccontato alcuni fatti che lui commise, ma ne fece di ogni. E fino a quel mattino il paese aveva custodito Luchettino, ma ora non se ne poteva più. E decisi che avrei parlato con la figlia e l’avrei convinta a prendersi maggiore cura del padre, perché il paese era stanco di prendersene cura. Eravamo seduta sulla panchina di fronte al comune e il suo edificio si staglia in alto squadrato e fascista, quasi come se fosse gigantesco, ma in verità è la prospettiva che gioca un furbo tiro allo sguardo, perché la piazza è in pendenza e la panchina è in fondo a questa, mentre l’edificio comunale è in alto. Comprai una bottiglietta d’acqua frizzante al bar alle nostre spalle – il bar dove i dipendenti del comune passano gran parte delle loro pregne mattinate lavorative – bar che tutti in paese chiamano semplicemente bar del comune. Mentre sollevava la bottiglia e permetteva al sole di penetrarla coi suoi raggi ebbi il tempo di osservare il suo profilo ruvido, la sua pelle che sembrava cuoio, era un essere intristito dal tempo, ma anche da quella malinconia che coglie uomini e donne all’approssimarsi di una certa età. Attendemmo insieme l’arrivo della figlia. E fu durante quell’attesa che mi domandò, ancora nel nostro dialetto, perché Luchettino calmo parlava un italiano aggiustato nel tempo da tante buone letture, invece Luchettino arrabbiato parlava il dialetto acquisito fin dall’infanzia e arricchito nel tempo dalla campagna, da quella terra stessa umida che così come fa nascere pomodori, zucchine, melanzane, fa nascere pure quelle parole che hanno il gusto del luogo che le ospita e che le utilizza. La lingua, ma ancor di più il proprio dialetto, è ciò che ci fa sentire veramente a casa. Immaginiamo di partire per anni, di rientrare poi in quel nostro nido d’infanzia e scoprire che non tutti i vecchi sono morti e non si parla più il dialetto, scommetto che si fa fatica a sentirsi veramente a casa. Cosa sarebbe il natale senza la strina; cosa sarebbe l’autunno senza i ruseddre; cosa sarebbe l’uomo senza la propria casa, senza le proprie tradizioni. Perché se il più grande bene è viaggiare e aprire la mente all’altro, l’altrettanto più grande bene è la conservazione del proprio posto nel mondo.
Comunque, senza guardarmi in faccia mi disse:
«Ma cumu va ca a tia ancora un t’hanno cangiatu?»
E gli ho risposto davvero, cercando di immaginare le sue domande non come se fossero il prodotto di un vecchio in demenza senile, ma come se fossero il prodotto del più grande filosofo del nostro tempo, o meglio: il prodotto della saggezza che nasce dalla follia, perché forse c’è più conoscenza nella demenza, o è nella demenza che si riscopre il vero genio.
Gli ho detto:
«Forse sono ancora io perché ho trent’anni, tanti studi alle spalle, tanti viaggi in giro per il mondo, e ancora non ho nessuna collocazione nel mondo. Ancora non sono definito, so chi sono ma non so dove devo stare. Forse è il posto in cui svolgi il tuo ruolo sociale che attua la sostituzione. Esempio: i politici fino a quando non sono al governo sembrano dei grandi politici, perché quando non sono al comando sono realmente loro, quando poi vi salgono vengono cambiati con i loro cloni, ma è il luogo stesso che attua la sostituzione. Scommetto che gli impiegati precari del comune sono ancora loro…»
Io non so se gli piacque quella risposta perché non mi disse niente e la sua faccia non mutò espressione, rimase rigida e triste. La figlia arrivò qualche minuto dopo. Quel che so è che a me piace questa risposta, ma non dovrebbe piacermi. La figlia di Luchettino avrà sessant’anni, lavora fuori in città, è un’avvocatessa molto brava e stimata. Chissà se lei è ancora lei.
