Il dubbio del talmid

di Martina Mattia
Eliezer ben Mordechai, nonostante il freddo pungente tipico delle notti invernali di Amsterdam, continuava ad asciugarsi il sudore dalla fronte. Tale era il tormento che si portava nel cuore.
Proprio lui, nipote del celebre Rav Eliyahu Meir Grodensky, sia benedetta la sua memoria — uno dei grandi sapienti di Lituania, che chiamavano HaGaon, “il Genio”, e rosh yeshivà della Netzach HaTorah di Vilna, cioè capo di una delle accademie rabbiniche più rigorose del suo tempo, maestro severo di generazioni di gedolim, i “grandi”, quelli che avevano la Torah anche nel respiro — proprio lui, suo nipote, stava leggendo il Trattato teologico-politico di Spinoza. Il senso di colpa gli pesava come una pietra sul petto.
Si trovava ad Amsterdam con la benedizione del padre, per proseguire gli studi presso la yeshivah locale, lasciando ad Anversa la famiglia e la comunità litvak che lo aveva cresciuto e che già lo considerava uno tzaddik, un uomo giusto, nei suoi pensieri e nelle sue azioni, esempio di santità umana nel cammino difficile della vita. Una comunità rigida e devota, segnata dall’eredità degli ebrei lituani: uomini temprati dallo studio, ferrei nella legge e nella disciplina del pensiero.
E ora, in preda ai dubbi più tremendi, si trovava a consultare l’opera filosofica di un apostata. Se qualcuno gli avesse raccontato una storia simile anni prima, avrebbe pensato a uno scherzo.
Ogni tanto si fermava a riflettere, seduto nella sua stanza buia, illuminata solo dalla lampada sulla scrivania. Continuava a leggere quel testo profano, dondolandosi avanti e indietro, come d’abitudine sua e di tutti i talmidim, studiosi devoti, immersi nello studio della Torah. Era al capitolo V del Trattato. Sosteneva che la Torah non conduceva alla felicità o alla virtù, ma che fosse solo una legge politica, valida soltanto nel tempo in cui era stata data.
Allora, si chiedeva Eliezer, dopo la distruzione del Secondo Tempio e la dispersione delle tribù, tutto doveva cessare? Niente più mitzvot — quei precetti quotidiani, concreti e spirituali insieme, che fin da bambino gli avevano insegnato a rispettare come fili invisibili che legano l’uomo al Santo Benedetto? La halakhah stessa — il cammino tracciato dai saggi per vivere secondo la volontà divina, fatta di norme, giudizi, discussioni e compassione — diventava forse inutile, mero residuo di un’epoca passata?
Si accarezzò la barba, dubbioso. Quella spiegazione non lo convinceva.
Sì, molto si parlava di salvezza dell’anima, ma non era quello, secondo lui, il cuore della questione. Forse, al tempo di Spinoza, in mezzo a persecuzioni e incertezze, la salvezza era diventata un’ossessione consolatoria.
Ma lui? Eliezer? Non osservava le mitzvot per timore del castigo o per desiderio di ricompensa.
Inoltre, pensava, Spinoza prende tutto troppo alla lettera. Le interpretazioni dei chachamim, i sapienti interpreti delle Scritture, sono ben più sottili.
Eppure, un motivo doveva pur esserci se si era addentrato in quel testo.
Guardò l’orologio: era ormai mezzanotte. Si asciugò il sudore. «Secondo Spinoza, in pratica, sono solo uno schiavo», mormorò tra sé.
Si alzò e aprì la finestra per prendere un po’ d’aria. Mentre guardava il viavai nella strada sottostante, gli tornò alla mente Yacov, un vecchio compagno di studi. Un giorno, Yacov si era presentato in yeshivah vestito come un gentile. Aveva sbattuto un testo della Torah sul tavolo e aveva annunciato:
«Me ne vado! Siete tutti pazzi a vivere come se il mondo là fuori non esistesse. È irragionevole osservare tutte queste prescrizioni… la vita non è già abbastanza complicata? A che serve tutto questo? A che serve davvero?»
Eliezer sentì la testa girare.
Non aveva più senso continuare a leggere. Ma non riusciva nemmeno a dormire. Uscì.
Camminava per le vie luminose di Amsterdam, interrogandosi su come fosse arrivato a quel punto. I dubbi di Yacov erano tornati a tormentarlo negli ultimi mesi, con insistenza crescente. Pregare, leggere la Torah, studiare Talmud e teshuvot non bastava più. Le teshuvot – quelle lettere antiche che i Maestri si scambiavano attraverso i secoli, risposte a domande concrete e metafisiche, su come vivere, su come obbedire, su come restare fedeli e umani – gli apparivano ora come echi lontani, rassicuranti eppure irrisolti. Non erano soltanto pareri giuridici: erano gesti di ritorno, percorsi di teshuvah, perché ogni risposta vera, anche la più arida, è in fondo un movimento dell’anima che cerca la via per tornare a casa. Alla fine, proprio quei dubbi lo spinsero ad accettare la proposta del rabbino di studiare nella yeshivah di Amsterdam: un’occasione per allontanarsi dalle aspettative familiari e comunitarie, e cercare una risposta.
Naturalmente, nessuno conosceva i suoi pensieri. La proposta del rabbino era giunta come una coincidenza provvidenziale, ma anche come una prova. Il rabbino gli parlava con stima, lo vedeva come un giovane brillante e devoto. E lui, Eliezer, si sentiva indegno di tutto ciò. La fiducia degli altri gli pesava addosso come una tristezza muta. Vagava così, senza meta, per le strade affollate della città. Le alte case sembravano sporgersi in avanti, curiose di osservare i passanti. Osservava la gente, cercava di indovinare che storie avessero. Udì risate, vide ubriachi barcollare, amanti litigare.
La fede, sentiva, gli dava una gioia che nessun’altra cosa poteva offrire, anche se spiegare il perché gli era difficile. Anzi, forse era proprio perché non si poteva spiegare. Eppure, anche la filosofia lo affascinava. La ragione gli sussurrava dubbi: perché seguire proprio tutte le mitzvot? La vita non sarebbe forse più semplice? Era davvero libero?
All’improvviso si infilò in un andito buio che lo condusse a una via solitaria lungo uno dei canali.
Lì tutto era silenzioso. Solo qualche passante, ogni tanto. Amsterdam, da quel lato, gli parve malinconica e raccolta. «Essere liberi significa vivere fedelmente la propria verità interiore», pensava Eliezer. «Ma quale verità?»
Continuò a camminare. Poco più avanti, vide una figura maschile seduta su una panchina, lo sguardo rivolto al cielo. Quando si avvicinò, rallentò il passo. Guardandolo di sottecchi, Eliezer notò una cosa curiosa: quell’uomo stava piangendo guardando le stelle. Non sembrava ubriaco né folle, se ne stava semplicemente lì, seduto e inerme, le mani abbandonate sulle ginocchia, e piangeva silenziosamente fissando il firmamento.
Eliezer non poteva conoscere il motivo di quelle lacrime, eppure una fitta gli attraversò il cuore. Si fermò. Quella scena gli riportò alla mente una sera d’infanzia, quando aveva chiesto a suo nonno – Zeyde, come lo chiamavano in yiddish, con quel tono che è insieme rispetto e tenerezza: “Zeyde, der Eybishter è lassù?” Aveva alzato gli occhi, proprio come adesso quell’uomo sconosciuto, verso il cielo che pareva immobile e lontano, e si era chiesto se Dio – der Eybishter, “l’Altissimo” – abitasse davvero tra le stelle.
Che fare? Quell’uomo era solo, e pareva in preda alla più totale disperazione. Poteva davvero tirare dritto, far finta di niente?
No. Eliezer non aveva cuore di ignorare tanta sofferenza. Forse l’uomo aveva bisogno d’aiuto. Si avvicinò piano, con cautela, e gli chiese sommessamente se poteva fare qualcosa, se stesse bene.
L’uomo alzò appena il viso, e con voce roca, quasi profetica, dichiarò: “Sono un apolide del Regno dei Cieli, irriconoscibile agli uomini quanto a Dio! E hanno pure manomesso il mio manoscritto, quei maledetti!”
Alla fioca luce del lampione, Eliezer vide che l’uomo portava una kippà – il piccolo copricapo che gli ebrei osservanti tengono sul capo in segno di rispetto verso Dio. Oy vey, pensò, ecco un altro ebreo in crisi. Provò allora a dirgli con gentilezza: “Buon uomo, si ricordi cosa ha detto lo tzaddik: Ein shum ye’ush ba’olam klal – non c’è assolutamente alcuna disperazione al mondo.” Ma aveva l’impressione che l’uomo non lo stesse nemmeno ascoltando. Parlava come da un altro luogo, da un altro tempo.
Eliezer si sentì impacciato, come uno scolaro davanti a un maestro enigmatico. Non sapeva cosa fosse giusto dire. L’uomo continuò il suo monologo, come se Eliezer fosse solo un albero o un sasso. “Credevo davvero di aver fatto la scelta giusta. Volevo seguire la legge affidata a Moshè Rabbenu.
Cercavo la verità, volevo usare la mia ragione senza rinunciare alla mia identità. Non volevo diventare cieco, volevo restare ebreo – ma anche libero. Così ho cercato di restare nella comunità, ma senza obbedire a tutto. Non riuscivo. Non ci riuscivo!”
Il gelo di quella sera sembrò allora entrargli nelle ossa. Eliezer rabbrividì. C’era qualcosa di inquietante nell’uomo, nel modo in cui parlava, come se si trovasse in due mondi insieme. E lui, Eliezer, come avrebbe potuto aiutarlo, se non sapeva più aiutare nemmeno se stesso?
“Quando non andavo al tempio,” disse ancora l’uomo, “mi mancava. Mi mancava la tefillà, la preghiera del cuore e delle labbra, mi mancavano i canti e il mormorio della congregazione. Eppure… Ero legato al mondo ebraico, ma quando ci vivevo dentro… soffocavo. Dentro ero fuori, e fuori ero dentro. È una condizione tremenda. A volte pensavo di impazzire. Avrei dovuto andarmene per sempre? Ma come si può? E poi, il bivio: la filosofia e la scomunica, oppure il ripudio delle idee e il ritorno, ma sotto castigo.”
Eliezer lo guardava sempre più sconvolto, cercando di cogliere ogni parola. Ma qualcosa, nel profondo, lo inquietava.
L’uomo non proiettava alcuna ombra. Alla luce del lampione, che disegnava chiaramente quella di Eliezer, l’altro non ne aveva. Sgranò gli occhi. Cercò con lo sguardo, si sporse. Nulla. Sto sognando? Sto impazzendo? Il cuore pareva stesse per esplodere nel suo petto.
“E hanno manomesso le mie memorie!” gridò l’uomo. “Avevo lasciato il manoscritto, l’hanno preso e l’hanno storpiato! Quelle canaglie!”
Eliezer trovò appena la forza di chiedere: “Mi scusi… in nome del Signore… mi dica: chi è lei?”
L’uomo si alzò un poco, e con voce indignata rispose: “Uriel! Uriel da Costa! Sono morto in preda alla disperazione prima di trovare pace!”
Eliezer sgranò gli occhi. Un brivido gli salì per la schiena. Uriel scomparve. Così, di colpo. Come dissolto nel vento.
Eliezer rimase a fissare il vuoto, tremante. Recitò d’impulso il primo versetto dello Shemà, la preghiera che proclama l’unità di Dio e segna il cuore della fede ebraica. Si voltò e corse via. Corse fino alle vie affollate, illuminate, dove le voci e i passi degli uomini gli restituivano un po’ di realtà. Si rifugiò tra la gente, ancora scosso. Non ebbe il coraggio di tornare in camera, non voleva rimanere da solo. Continuò a recitare benedizioni a bassa voce, col respiro affannato per la corsa e per lo spavento. Era un’allucinazione? Un sogno? Uno spirito? Quel nome — Uriel da Costa — gli suonava fin troppo familiare. Dove lo aveva letto?
Poi, lentamente, si ricordò. Qualche settimana prima, leggendo la biografia di Spinoza, aveva incontrato quel nome. Uriel da Costa: nato Gabriel, figlio di marrani, proprio come i genitori di Spinoza. Giunto ad Amsterdam per convertirsi all’ebraismo. Un’anima inquieta, divorata dal dubbio. Un uomo che cercava Dio. Poteva forse arrendersi alla teologia cristiana della sostituzione? Sarebbe stato più semplice. Ma no. Rifiutò lo herem, la scomunica. Pagò il prezzo. Si sottomise, un giorno del 1640, davanti a tutta la sinagoga: fu frustato, calpestato dai piedi dei correligionari. E infine, dopo aver scritto le sue memorie, si tolse la vita.
Tornò a galla quella frase udita tanti anni prima, in un beit midrash — la casa dello studio, dove si insegna e si discute la Torah e il Talmud. “Il rigore della Legge dovrebbe essere attenuato per privare Satana del suo nutrimento.” Forse l’aveva detto un chacham — un saggio, un maestro della Tradizione — forse era scritto da qualche parte nel Talmud. Ma in quel momento era come se gli venisse sussurrato accanto all’orecchio.
Gabriel, che aveva lasciato la sua terra per cercare Dio.
Uriel, che aveva cercato se stesso in quella città dove gli edifici sembravano vecchi rabbini chinati leggermente in avanti sui libri.
Quest’anima, fiamma di Dio, divisa fra il legame profondo con l’ebraismo e la razionale ricerca della verità, non resse il dramma della sua condizione, perse ogni speranza e si spense.
Quando l’anima torna a questo mondo è per elevarsi, aveva letto una volta, e così anche le cose, persino quando si ripresentano a un grado inferiore, lo fanno per elevarsi, poiché è desiderio e anelito d’ogni cosa portarsi accosta alla causa prima.
Uriel voleva essere un ebreo, ma non sapeva come fare. Voleva vivere, ma non sapeva neppure far questo.
Martina Mattia (1998), laureata in Lettere (curriculum storico), ha approfondito fin dalla triennale la storia delle religioni e la filosofia della letteratura. Durante la magistrale in Scienze delle religioni ha proseguito le sue ricerche in filosofia della religione, con particolare attenzione alla mistica ebraica, alla questione meridionale e all’intersezione tra antropologia religiosa e percorsi di soggettività. Sta costruendo un portfolio di articoli divulgativi e di ricerca; un suo saggio intitolato Il frutto del libero arbitrio sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista indipendente Interiorume. Dopo anni, è tornata alla scrittura creativa: Il dubbio del talmid è il suo primo racconto narrativo di questa nuova fase.

Un ottimo racconto, complimenti.
Brava,