I poeti appartati: Francesco Mola

Due poesie
di
Francesco Mola
Il bicchiere capovolto sul tavolo
cattura la luce
e la scompone sulle piastrelle
in mille frammenti d’ambra.
La voce del vicino
parla a ritmo serrato
di modelli matematici binari
deragliati oltre la parete.
Il frigorifero
come un orso polare ferito
ogni tanto singhiozza.
Anche oggi qualcosa resta fuori:
le scorte di kefir ai frutti di bosco,
la vanità laccata di una mela
da gettare via
insieme alla parola sospesa.
È qui che si versa la sostanza:
nell’intervallo di un gesto tra l’acqua
e il bicchiere.
*
Strette mortifere di cosce e destini
pensate per lunghe agonie
dove persino l’universo va a fondo
senza nemmeno trattenere il fiato.
Immortale.
Come l’essere verbo,
l’esistere
(oltre le categorie, i predicati nominali)
nell’armonia imperfetta delle forme,
nostro malgrado

Le trovo davvero notevoli. Si può leggere altro di questo poeta?
Nella prima poesia, io ho interpretato la descrizione della disperazione di una persona sola che non riesce neanche a prendersi cura del posto dove vive e, probabilmente, di se stessa. Vive nel disagio e il passaggio che descrive acqua e bicchiere, per me rappresenta gli attimi di vita veramente vissuta.
Il quotidiano domestico fino a trasfigurarlo in esperienza poetica, da una parte, capace di far emergere il senso di oggetti e di gesti minimi;
Un respiro metafisico, dall’altra, che cerca l’essenza dell’esistenza oltre le maglie del linguaggio.
Insieme creano un contrasto potente: dalla concretezza intima delle cose alla vertigine astratta dell’essere.
Poesia criptica che scompone l’apparente monoliticità della percezione materica della realtà, scavando dentro di noi percorsi di ricerca di un accesso verso una dimensione metafisica. Ci sentiamo anche noi estranei a quella quotidianità che ha spento il nostro sentire: l’altro, pur essendo vicino a noi, si avvale di codici di linguaggio indecifrabili; gli oggetti, pur nella densità di significati nascosti, non entrano in contatto con noi. Siamo trasportati nel sospeso: il nostro respiro è come tagliato dal vuoto e dall’incompiuto. Eppure nell’agito più semplice scorgiamo il presente in cui riemerge la consapevolezza dell’esserci. Le parole finali dell’autore, rispecchiando una perfetta ciclicità e rispettando la polifonia delle letture personali, ci guidano verso un orizzonte di senso unitario.
Elementi di vita quotidiana assumono il ruolo di poetici versi.
La luce ed il suono diventano protagonisti della prima poesia, dove persino il rumore del frigo cattura l’attenzione.
Il lettore riesce a immaginare quello che i versi descrivono.
La seconda è criptica ed è bene che ognuno la interpreti nel suo modo personale.
Intanto un’osservazione generale: se il poeta fosse davvero appartato non pubblicherebbe i suoi scritti su di una rivista, ma se li terrebbe nel famigerato cassetto. Tutto questo “appartarsi” mi ricorda tanto Nanni Moretti, quando chiedeva “ma mi si nota di più se non vado alla festa o se ci vado e poi me ne sto triste in un angolo”?
Chiunque si cimenti nello scrivere poesie, ha il compito (difficilissimo) di creare quel magico equilibrio tra la naturale elusività del linguaggio e il contenuto che si intende trasmettere (o che quantomeno è stato il pretesto di partenza). Compito davvero arduo, che si realizza soltanto a tratti: ma un verso ben riuscito vale la noiosa navigazione attraverso righe e righe di aulica routine.
Detto in soldoni, mi sembra che nel primo dei due componimenti qui proposti Francesco Mola porti a casa il risultato: egli prende per mano il lettore e lo conduce con delicatezza attraverso gli oggetti del quotidiano, fino al climax di quegli ultimi tre versi, oscuramente rivelatori.
Una magia che, purtroppo, non si ripete nella seconda poesia, che suona irritante, pretenziosa, inutilmente involuta.
Probabilmente, nel selezionare le opere da pubblicare l’autore ha voluto farci intendere che sono questi i due registri tra i quali oscilla abitualmente la sua scrittura: ebbene, al suo posto darei maggior risalto al primo dei due, comunicativo ma non banale, e conserverei gli artefatti del secondo nel cassetto degli attrezzi, come fa un orologiaio con tutte quelle minuscole viti e quei piccoli ingranaggi che al momento giusto vengono utili per assemblare un meccanismo di precisione che sia funzionante e bello.
Questo è artigianato. Questa è poesia.
La seconda, quella che preferisco:
siamo fra l’acqua e il bicchiere, fra natura selvaggia e natura morta; prigionieri volontari dello spleen del quotidiano.
Mi ricorda alcuni versi della Gualtieri, e quindi mi piace!
Mi aggiungo a chi preferisce il primo testo. Semplici, quotidiane, apparentemente banali, osservazioni evocano emozioni e fanno sentire che la poesia è dappertutto ed è a portata di mano.
Meno vicina al mio sentire la seconda, che si fa notare per il netto, evidente contrasto di immagini e parole, ma, con la sua enigmaticità, risulta meno coinvolgente.
C’è un vigore, un trasparenza, degli oggetti e delle membra, che li destina tuttavia alla dissoluzione. Nella tensione fra decorazione e disfacimento l’anima interroga il proprio credo che è, con grande verità, il mistero dei linguaggi. Cifre e segni sono la sua Sfinge e l’enigma universale, nei versi di Francesco Mola, si fa domestico.