Manomissione – il nuovo romanzo di Domenico Conoscenti

 Manomissione (Il ramo e la foglia, 2025)

Cap.  28° – In un dopopranzo d’estate, che estate non è

Preso dai pensieri che mi pulsano per la testa, non mi sono accorto di essere arrivato sotto casa. Infilo la chiave nella toppa del portone. Faccio le scale di casa mia. Apro la porta di casa mia. Entro, richiudo e accendo le luci. Ma è davvero casa mia? È la mia, almeno dovrebbe, ma è come se non lo fosse veramente. Potrei mettermi a osservare questi spazi come una telecamera che scorre lenta, e cercare di ricordare se le cose presenti coincidano con quelle che la mia memoria ha conservato: posizione, forma, dimensioni, colore… Forse Certuni hanno creato una copia quasi esatta di casa per farmi confessare qualcosa che (ancora) non so o farmi impazzire perché invece, senza saperlo, so troppo. Oppure Qualcosa cerca di nascondere, sotto l’apparente continuità del reale, un cambiamento già in corso, in modo che io possa accorgermene solo quando non potrò più fare nulla per impedirlo e nemmeno fuggire, e a quel punto dovrà eliminarmi o inserirmi nell’ingranaggio creato per i suoi scopi malvagi. Quello però che penso in questo istante, in questa casa che dovrebbe essere casa mia, è che tutte le cose (intendo gli oggetti, le pareti, i mobili, la macchina da scrivere, il pavimento, il soffitto, le lampade e le sedie e le stoviglie e i libri e il letto e il divano e gli interruttori e insomma tutte le cose tutte) mi stanno osservando per vedere se è la stessa persona, lo stesso io, anziché un intruso, identico solo in apparenza, quello che è appena entrato.

Fa caldo, tanto per cambiare. Un’umidità greve ristagna per le stanze. Ho un subitaneo accenno di vertigine che però ritorna sui propri passi. Ogni tanto si ripresenta, con lo stesso andamento elastico, ma più a lungo e sempre più simile a un malessere vago e deciso allo stesso tempo. Sento affiorare alla pelle la pellicola di sudore. Socchiudo le finestre, mi butto supino sul letto.

Sdraiato, in mutande, chiudo gli occhi e sullo schermo interno delle palpebre proietto la figura di Gaetano. Gaetano d’estate, dopo pranzo, sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio. Si accosta al mio fianco, poggio le labbra sul suo collo, le nostre mani percorrono i corpi che si vanno assestando in maniera che il mio onori la santa consuetudine delle sue terga… Immagini remote, distanti anni luce, come un filmino amatoriale sgranato, con macchie e qualche salto. Non è questo Gaetano a mancarmi. Perduta col tempo la sua santità, quella consuetudine si era trasformata in sequenze sempre più cupe dov’era evidente infine che quei due non erano più né io né lui, ma controfigure svogliate. Non è questo il Gaetano che mi manca. Non mi mancava negli ultimi anni, quando tutte le notti dormivamo ciascuno nella propria stanza. Mi manca l’intimità domestica e la condivisione delle consuetudini che so che non raggiungerò con nessun altro. Lui che cucina e lascia a me i piatti da lavare, lui che mi dice di sua madre che confonde sempre più i tempi e le persone, lui che ascolta e assorbe le mie insofferenze sul lavoro, che per un po’ mi fa compagnia sul divano mentre guardo un film e poi se ne va a leggere o a telefonare, che si muove per casa prendendo la biancheria da mettere in lavatrice o che sbriga le sue incombenze senza per forza parlare o ascoltare, che non vuole prendere le medicine che gli passo quando sta male, lui che mi fa leggere quello che va scrivendo… Gaetano che semplicemente c’è, c’è ed è con me, anche se non siamo insieme nello stesso posto e nello stesso momento e lui è nella sua stanza o in giro con un amico o è in un’altra città, c’è anche se non facciamo l’amore da tanto tempo e scambiamo frasi sul mondo di fuori ma non più su di noi, noi come persone distinte, noi come coppia e oramai i silenzi sono più profondi e complici e intensi di quello che ci diciamo sulle bollette che stanno per scadere o sui film da vedere o sui racconti letti, immaginati e da scrivere o sui figli, se mai avessimo potuto adottarne…

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è, da qualche parte, in un nastro temporale differente Gaetano sta in questo momento aspettando che la mano dell’uomo accanto a lui si poggi sulla sua coscia e resti lì ferma, come un tempo la mia. Vuole accertarsi che il proprio desiderio coincida con quello dell’altro, un desiderio composito, di ombre mutevoli e non tutte condivise allo stesso modo o nello stesso momento, come è il desiderio fra due che si amano. Quell’uomo non sono io. E questo pensiero mi disturba, certo, ma è indolente, è fiacco l’impulso di avventarmi su quell’estraneo, di insultarlo, di scaraventarlo con violenza fuori e mettermi al suo posto accanto al mio Gaetano. Potrei accettare la possibilità di lui insieme a un altro, ma senza vedere quest’altro né conoscerlo meno che mai, se non, forse, a distanza. Potrei accettare perfino di sentirgliene parlare, ammesso che voglia farlo, purché Gaetano ritorni e ci sia, sia il mio compagno, mia madre, mio figlio, il mio ex, il mio complice e amico e consorte. Purché ci sia, anche quando non è in casa o in città o è con quell’altro, purché accetti di esserci nella vita che mi resta, che ci resta da vivere, come due maturi e poi vecchi coniugi o ex coniugi che sanno di potere contare solo su quel partner, perché senza di lui rimaniamo privi della nostra interezza anche se non facciamo più l’amore da tanto tempo né condividiamo più tante altre cose, perché quella è l’unica persona rimasta che ci conosce e ci ha amato e voluto bene e con la quale non è necessario discutere o stare a spiegare le fisime, i rimpianti, i malesseri, le rabbie, i dolori del corpo e gli altri più oscuri.

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è ma è come se lo fosse, da qualche parte, in qualche dimensione irreale o reale, da solo o con un altro, se pensa a noi due, Gaetano continua a sentire intollerabile quel nostro rapporto di affetto smisurato e complicità e sostegno infinito e cura, da tempo però amputato del richiamo imprevedibile dei corpi, quel rapporto che, dopo gli anni luminosi della scoperta e del reciproco adattarsi all’altro, aveva conosciuto un graduale diradarsi dei momenti di gioia, sia i nostri, di coppia, che quelli vissuti insieme agli amici, e a nulla erano valsi i suoi tentativi di coinvolgermi per tentare di leggere quanto ci stava accadendo. Forse banalmente ci stava accadendo quello che accade a tutte le coppie immerse nel flusso del tempo. Gaetano però si è sentito lasciato da solo, quasi tradito, nel suo tentativo di opporvisi, frenarlo. E ad un certo momento le mie ragioni, le mie colpe, le mie responsabilità, ma anche le sue colpe secondo me, le sue responsabilità ho iniziato a tenermele dentro, soprattutto l’insofferenza a vederlo ostinarsi in un modo di stare insieme che per lui rimaneva il paradiso perduto, sebbene ci avesse rivelato pure nelle nostre immancabili ombre, nelle nostre durezze e nelle disillusioni. Un silenzio opaco aveva preso a dilagarmi dentro, una paura istintiva priva di spiragli, un dolore vischioso come pece. Forse era rabbia per le sue tacite accuse, forse orgoglio, sì, forse soprattutto fastidio per il suo bisogno di trasformare sempre in spiegazioni, in parole quello che stavamo vivendo, per il suo non accettare e basta senza dovere capire a qualsiasi costo perché non si può capire ogni cosa, rifiutandosi al tempo stesso di ricordare che tutto cambia, al di là della nostra volontà, ci piaccia o no, che l’impermanenza era, è la regola ferrea del mondo sensibile secondo i suoi sapienti buddisti, i quali infatti ci ammoniscono a essere preparati in ogni istante a dire addio ai giorni felici, che abbiano un corrispettivo nella realtà esterna o pulsino solo come miraggi della mente. Alla fin fine era sfiducia nella sua capacità di uscire da sé per comprendermi veramente e comprendere in particolare che anche lui, anche noi eravamo immersi nel flusso rapinoso del tempo. Ma nemmeno adesso, forse, se mai mi chiedesse di parlare, di dire cosa sentissi o pensassi – aveva finito per adeguarsi al mio silenzio, le mie colate di pece avevano raggiunto anche lui – nemmeno adesso penso che potrei dirgli qualcosa. Non a lui. È già difficile pensarlo a voce alta, dirmi tutto fino in fondo, farci i conti con questa rabbia e questa paura abbarbicate e tossiche.

Sdraiato in mutande sul letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, in un dopopranzo d’estate che estate non è, o forse sì, in qualche dimensione diversamente reale Gaetano si è rifugiato da qualche parte, scampato al pestaggio brutale dei poliziotti, e scappato da questo nostro rapporto in cui per anni si è sentito morire ogni giorno un poco, fino a quando si è convinto, dopo il fallimento dei suoi tentativi contrari a ogni evidenza, che nulla oramai sarebbe cambiato, e meno che mai tornato come prima. Sembrava che dopo un periodo teso e scontroso, Gaetano avesse accettato lo stato delle cose, vedevo in lui istanti di confidenza e di affetto, che non erano mai mancati, ma ora sotto una luce nuova, più serena. Eravamo tornati a stare bene insieme, certo, in maniera diversa e con ancora più spazi vissuti autonomamente. Avevamo superato il giro di boa. Ma dentro di me sapevo che era quello che avrei voluto io. Dal suo punto di vista era una realtà vera, sì, quel rapporto così solido e tutto nostro che non era mai cessato malgrado tutto, ma era vero altrettanto lo spazio rimasto desolatamente muto alle sue aspettative di un cambiamento, uno solo: l’apertura a condividere ancora momenti di gioia. E la speranza, si dice, è insonne, la rassegnazione è quiete.

In mutande sul letto, forse sullo schermo interno delle sue palpebre Gaetano ogni tanto proietta la mia immagine, come sto facendo io con la sua, ignoro se riproducendo spezzoni d’archivio o sperimentando variazioni inedite o altre del tutto improbabili. Posso dire con certezza in questo momento che vorrei che Gaetano esistesse in qualche realtà, sdraiato su un letto, con gli occhi chiusi ma sveglio, scampato alla brutalità degli agenti. Posso dire che preferirei anche saperlo fuggito dal nostro rapporto, purché vivo e guarito, intanto nel corpo. Mi piacerebbe dire infine che vorrei rivederlo, incontrarlo in questa o in un’altra dimensione, e sarebbe la verità, nient’altro che la verità. Ma non ora. Non ancora, almeno per me che parlo qui adesso.


Domenico Conoscenti (Palermo, 1958) ha insegnato in una casa di reclusione e, in seguito, negli istituti superiori. Ha pubblicato: Qui nessuno dice niente. Un anno di scuola tra i carcerati, Marietti, 1991 (Il Palindromo, 2021); il romanzo La stanza dei lumini rossi, Edizioni e/o, 1997 (Il Palindromo, 2015), edito in tedesco da Berlin Verlag, 1999; la raccolta di racconti Quando mi apparve amore, Mesogea, 2016; il saggio ‘I Neoplatonici’ di Luigi Settembrini. Gli amori maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale, Mimesis, 2019; Intimo Paradiso, trenta poesie, con trenta foto in b/n di Angelo Di Garbo, Edizioni del laboratorio poetico di Palermo, 2022.

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