➨ AzioneAtzeni – Discanto Quarto: Alberto Masala
Discanto quarto*
acqua,
i miei piedi non hanno
incontrato
città senz’acqua;
senz’acqua negli occhi,
senza profumi d’acqua,
non potrei vivere?
da una fuga di Sergio Atzeni (nella raccolta Versus)
Noi siamo l’acqua
di Alberto Masala
a Sergio Atzeni
noi siamo l’acqua
dei fiumi sognati dall’oceano
Da quando siamo entrati in questo mare
dove le onde sono solo di calore
e ognuna ci debilita lo sguardo
con fragili alluvioni di miraggi
investendoci il cuore
(il mio è di carne fino a prova contraria)
dove scorrono immagini recenti
- come la mano tua sul tavolo di un bar
(volevo solo un buon caffè - zucchero uno) - per godere
delle cose che accadono innocenti
Innocenti…
siamo completamente umani tuttavia
e sempre di ritorno mutazioni
mentre veloce si prepara per noi la successiva
scena offuscata di macchie calpestata
da poeti annoiati coltivando
narcisi mutilati dalla loro tristezza
e ho vissuto anche lì ma non mi trovo.
Dunque poesia prosegui
fin dove si confonde l’orizzonte
non sprecare proiettili
dillo ai tuoi mostri
noi non siamo civili
io non proteggo il senso
non mi guardo alle spalle
non ce la faccio
a trasportare la tua tranquillità
le tue celebrazioni i tuoi rituali...
inoltre non fa per me
l’armatura cattolica pesante
mi ferma il canto
rallenta i movimenti
non posso sopportare anche il tuo dio
che piange sterminando
per dare un senso alla sua perfezione.
E tu che mi volevi compiacente
complice compromesso compatibile
(da compatire intendo)
compagno di passione per la luce
ma la tua è artificiale
con gli effetti speciali creati dal peccato
con fiamme e tutto il resto
sostenuto dall’anima che brucia
nel suo solito inferno di realtà
sempre al momento giusto.
mi sono fatto voce per portare
questa sobria bestemmia
Cancellami
restituiscimi il nome
che ti hanno consegnato
conficcato nell’anima
scritta sopra il mio corpo.
Ma se ora lo scrivessero il mio corpo
però a chi importa (forse nemmeno a me)
se aveva voce o tace trascinando
anagrafici errori di percorso
comunque - se lo fanno - che ne scrivano il vuoto
soltanto il vuoto
che abbandono vivente a ogni sequenza.
poeta è un adattarsi
persino all’aria fresca
Cosa dirai di me dopo che tutti i mutamenti
mi avranno riempito di difetti
feroci strati di egoismo
utili a far cadere la saggezza
che strappano con urti all'abitudine
lancinanti brandelli della vita infastidita
da ogni scricchiolio della certezza.
Ecco - vedi - è la vita non ancora pagata
che partorisce incauti verbi da
un pozzo non ancora bevuto.
Così la lingua costruisce
l’astrazione insensata
così la gioia è urgente
ma solo dove sogno
e così non ci siamo risparmiati
abbiamo attraversato senza colpa
ogni accenno vitale ogni dettaglio
che voleva calore incognite futuro
in una dipendenza da domande.
Ogni domanda
ci aspetta nella voce che la porta
o sogna di fuggire vagando in territori
che ancora vogliamo costruire
e ogni volta vuol essere inseguita.
E dunque eccomi qui
privilegiato proprietario
di un senso che si sta prosciugando in babilonia
mia madre mia alleata mia sorella
di babilonia ne porto intatto il nome
e le sacre ascendenze
e conseguenze.
- e tep’andhare?
- sempre
- ke-i sa colóra?
- ke-i sa colóra... keppáre a sa colóra
Proprio come il serpente
anche noi ci muoviamo orizzontali
e ne resta la traccia nel silenzio.
dunque perché vogliamo mare?
In fondo il lavoro del mare
definisce la nostra solitudine
è ostinato incessante il suo lavoro
è quello di bagnare gli orizzonti
di farli luminosi per il cielo
mentre risacca sponde
dove prevale lo sgretolamento
insicure precarie come noi
generazioni di verità invecchiate
e ne rivendichiamo i corpi
rocciosi erosi e frantumati.
Non ho nessuna predisposizione
non conosco la sponda e se tornassi
non riconoscerei da dove son partito.
cerco poesie che siano bocca e braccia
e che le braccia cerchino poesia
Questa domanda
che a volte la bellezza riconosce
che abbiamo provato ad abbracciare
che quando ci appare nuda
noi l’aiutiamo a scegliere i vestiti
quest’ombra
che non è stata corpo
che se lo fosse stata ora ne è solo spettro
questa domanda
che non domanda urla
che non avrà mai nome consistenza carne
è morta o forse
ne possediamo scarse informazioni.
Dicono che il suo spettro
ogni tanto s’aggiri per l’europa
si dice di un pugno di superstiti
che ancora cercano speranze.
Abbiamo un conto aperto e vogliamo saldarlo
e mi commuove ancora l’internazionale
a volte è la corrente che ci chiama
a sostenere il fiume
* pubblicata in: – HORTUS MUSICUS. anno VI, N. 23. Luglio – Settembre 2005. – TABARD. Anno I, n.1. gennaio 2006. – Alfabeto di strade (ed altre vite) – il Maestrale 2009 – (2° ed. 2011) – Alphabet of streets – CC. Marimbo, Berkeley, CA, 2016 – Translated by Jonathan Richman. Edited by Jack Hirschman. qui la versione in inglese
* Azione Atzeni- mode d’emploi
di
Gigliola Sulis e Francesco Forlani
‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.*
Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, ‘Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012Si può seguire il PODCAST su:
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