Vita immaginaria di Immanuel Kant

Un ritratto immaginario (AI) di Kant

di Diana Napoli

Alla morte di Kant nel 1804, l’editore Nicolovius promosse, con il titolo Su Immanuel Kant, una «raccolta di cenni biografici»[1] scritti da persone che avevano conosciuto il filosofo. L’intento era quello di celebrarne e attestarne le virtù, anche per contrastare alcune biografie tempestivamente date alle stampe (come quella anonima ma attribuita al collega, professore di medicina, Johann Daniel Metzger) che miravano, al contrario, a metterne in dubbio «la benevolenza, l’onestà e l’affabilità».[2] Vennero così pubblicate tre vite destinate a costituire quasi dei vangeli sinottici dell’esistenza di Kant: la prima, rivista in parte dallo stesso Kant, a opera di Ludwig Ernest Borowski,[3] la seconda, in forma di lettere, firmata da Reinhold Bernhard Jachmann[4] e la terza, scritta da Ehregott Andreas Christoph Wasianski.[5]

Borowski e Jachmann: biografie preparate “in vita”

I primi due avevano preparato, si direbbe oggi, un “coccodrillo”. Borowski, che si premura di esprimere il proprio desiderio di raccontare la vita del «filosofo più umano e più modesto» (86)[6], aveva composto in gran parte il proprio testo mentre Kant era ancora in vita, a partire dal 1792. In quella che a suo avviso era in tutto e per tutto l’epoca kantiana (fidandoci del titolo di una conferenza da lui tenuta quello stesso anno che recitava Sui progressi della cultura erudita in Prussia fino all’epoca kantiana) aveva pensato di scrivere la biografia del grande pensatore con lo scopo di stamparla e darne pubblica lettura in occasione di una lezione presso la Regia Società Tedesca di Könisberg. Kant, pur grato per il gesto, aveva espresso il proprio imbarazzo e pregato l’amico di desistere, apportando tuttavia qualche correzione al manoscritto affinché Borowski lo potesse utilizzare dopo la sua morte.

Jachmann aveva iniziato a scrivere, come egli stesso ci riferisce, nel 1800 e proprio su suggerimento di Kant. Per cercare di essere il più fedele possibile agli avvenimenti, aveva persino inviato al suo vecchio professore un «abbozzo dei fatti più interessanti della sua vita, sotto forma di domande» (120), a cui tuttavia non erano seguite le risposte a causa della malattia che aveva colto il filosofo, costringendo tutti ad assistere al «fatto, così strano per l’umanità, che anche un Kant dovette sopravvivere alla sua mente pensante» (123).

Wasianski: il filosofo “in vestaglia” e il racconto della morte

Assai dettagliato si presenta poi lo scritto dell’amico Wasianski che, dando conto con abbondanza di particolari del progressivo avvicinarsi alla morte di Kant, la cui figura e la cui filosofia si potevano ormai osservare come un monumento, appare quasi una meditazione su nostra “sora morte corporale”. L’autore si giustifica per aver presentato, come egli stesso si esprime, Kant «in vestaglia» (220) con la necessità di fugare ogni dubbio su una eventuale non coincidenza tra la vita e l’opera, quasi a «garantire che il cervello e il cuore non siano in contrasto tra loro» (218), dato che «sovente, gli scrittori descrivono egregiamente il bene, eppure agiscono male».

Tra elogio e quotidianità: il modello biografico del Settecento

Queste vite di Kant per un verso non si discostano dal tradizionale modello dell’elogio, rimandandoci – così come altre opere pubblicate alla sua morte e sulla base delle tipiche motivazioni utili a giustificare la biografia degli uomini illustri – la rappresentazione confortante di un innocuo e virtuoso uomo di scienza; per un altro si inseriscono in un contesto di diffusione e tipizzazione, iniziato a delinearsi nella seconda metà del XVIII secolo, del genere biografico come racconto di vite non più orientato alle grandi azioni, ma rivolto alla rappresentazione dell’individualità, che per quanto esemplare, rimaneva irriducibile e irreplicabile perfino nella sua ordinarietà.[7] In questo senso rispondono, quindi, anche a una sensibilità romantica, a un paradigma che indirizzava l’interesse all’uomo più che all’autore, poiché in effetti l’autentica opera dell’uomo di genio è la sua vita.[8]

De Quincey e la reinvenzione letteraria degli ultimi giorni

I testi di Borowski, Jachmann e Wasianski – quest’ultimo in particolare, così attento a descrivere l’ambiente domestico del filosofo, con pochissimi riferimenti al suo pensiero – hanno finito per costituire quasi un tutt’uno che si è trasformato nella nostra vita immaginaria di Kant, probabilmente grazie anche alla fortunata trasposizione letteraria di Thomas de Quincey (1785-1859) che, nel 1827 diede alle stampe una prima versione del suo Gli ultimi giorni di Immanuel Kant.[9] I tre autori si soffermano non solo sulle qualità esemplari di Kant, ma anche – e forse soprattutto – sulla sua quotidianità, sulle sue consuetudini alimentari, i suoi gusti culinari, le sue opinioni in merito alla moda e all’abbigliamento, le sue manie e ossessioni, come quella per il silenzio che, in una delle sue abitazioni, veniva disturbato dai canti provenienti dalle vicine carceri e per cui a nulla erano valse sue lamentele volte a far cessare quello che lui definiva – secondo il racconto di Borowski – uno «scandalo» (52).

Mescolando aneddoti e testimonianze di attestazioni di virtù, i tre antichi scolari di Kant sarebbero riusciti nell’impossibile compito di scrivere una vita in verità impossibile da scrivere essendo che, come aveva osservato Heinrich Heine, Kant – il grande demolitore nell’ambito del pensiero, colui che aveva superato in terrorismo, secondo il poeta tedesco, persino Robespierre – non aveva né vita né storia. E del resto le nostre tre vite, nel restituirci un Kant “buono e giusto”, ottimo insegnante, amico premuroso, filosofo geniale eppure senza alcun interesse per gli onori, preoccupato per l’immancabile Lampe che deve, anch’egli, avere un Dio, hanno avuto l’effetto paradossale, nel tempo, a forza di ripeterne, noi, gli aneddoti e le presunte stranezze, di cristallizzare nell’immaginario collettivo l’esistenza di Kant come un’esistenza quasi senza alcun interesse, segnata dalla meticolosità, l’abitudine e la ripetitività, come ben rappresentato dalla fatidica pomeridiana passeggiata sul cui orario gli abitanti dell’unica città in cui ha vissuto avrebbero – riferisce fedelmente la manualistica – regolato i propri orologi.

Forse è anche questo il motivo per cui Thomas de Quincey, più conosciuto per le sue Confessioni di un mangiatore d’oppio, scegliendo di narrare gli ultimi giorni di Kant, è riuscito ad utilizzare le “vite” di Kant narrate dai suoi discepoli per elaborare una meditazione e una riflessione sugli “ultimi giorni” e la fine (e questo malgrado la dichiarazione iniziale per cui appare «evidente che tutte le persone di una certa educazione ammetteranno di avere un qualche interesse per la storia personale di Immanuel Kant»).[10] Come se Kant, in fondo, fosse troppo filosofo per vivere e la sua vita si prestasse invece ad essere quasi solo un pretesto, un epifenomeno, utile a concentrarci sulla (sua) morte, sul (suo) disfacimento. Oppure, detto altrimenti «tra le cose belle del libro di De Quincey c’è la sua capacità di tracciare un ritratto di Kant in fin dei conti vivo in quanto disturbato dalla prossimità della morte (morire, dice de Quincey, risulta “particolarmente sgradevole per gli uomini dalle abitudini regolari”). […] Come un’ulteriore rivoluzione inaudita nel suo approccio al mondo, Kant percepisce i cambiamenti di stagione non più come dei fenomeni strettamente prevedibili. Arriva perfino a identificare l’estate con il tempo dei viaggi. Lui, che non aveva mai lasciato Könisberg nemmeno per andare nella città più vicina, non smette di proporre lunghi viaggi. Il tempo non ha più una misura oggettiva; lo spazio ha la potenza attrattiva dell’ignoto; le immagini dei sogni finiscono per perseguitarlo durante il giorno».[11]

Il modo in cui lo scrittore inglese usa le tre biografie è in linea, peraltro, con la sua particolare e creativa interpretazione della filosofia kantiana: una filosofia che aveva fallito nello stile e che, pur avendo elaborato gli strumenti per farlo, non aveva saputo restituire il mondo trascendentale (inteso qui come il mondo pensabile al limite, grazie alle categorie) come ciò che avrebbe dovuto essere: una finzione del mondo reale che restava increato, ed era il mondo non realizzato della letteratura.[12] Si tratta certamente di una lettura di Kant – e in particolar modo della Critica della ragion pura – parziale quanto sorprendente (e che non è questa la sede per approfondire), ma alla cui elaborazione il più famoso mangiatore d’oppio si era dedicato con una certa costanza, all’interno di una riflessione ampia e articolata sulla teoria romantica, come testimoniano i numerosi riferimenti a Kant nella sua opera.[13]

Da Wellcome Collection, un sito web gestito da Wellcome Trust

Una “vita minuscola”

Non è un caso, quindi, che de Quincey abbia deciso di glossare questi testi. Queste pagine degli amici e discepoli di Kant, al di là del “genere” più o meno diffuso all’epoca, del progetto editoriale sotteso alla loro contemporanea pubblicazione, della riproposizione, che ritorna su se stessa e si auto-conferma, della vulgata su Kant noioso e metodico, riescono, mescolando abilmente il grottesco del quotidiano con il calco iperuranico del filosofo illuminista, il tenore di vita casalingo e il saldo attaccamento alla verità, a fingere il mondo reale. E d’altro canto, proprio come certe pagine sospese di de Quincey, le tre vite di Kant, malgrado l’intimità (come recita il titolo di una traduzione francese delle tre opere: Kant intimo), malgrado la vicinanza fisica che consente quasi di sentire i rumori del corpo, un corpo descritto minuziosamente – il corpo che muore, che si rinsecchisce, in cui tacciono a poco a poco i battiti vitali –, offrono al lettore uno sguardo “distante”, provocano un effetto straniante: più che priva di interesse, frammentata tra mille particolari, la vita di Kant, immersa nel silenzio, per la scientificità con cui viene esposta, potrebbe apparirci quasi aliena.

Una vita, per certi versi, anche “minuscola”, per come si svolge nello spazio geografico di una città, di una casa, di un paio di stanze, o dello sguardo costante, negli ultimi anni, dell’amico Wasianski, eppure capace di far convergere – da questo punto di vista sono molto interessanti i brevi documenti che Borowski allega in appendice al suo scritto – tutta un’epoca in una piccola cittadina prussiana che, per la sola presenza del filosofo, doveva sembrare il faro dell’illuminismo, il luogo in cui era stata rifondata la filosofia moderna, per usare le parole di Foucault, come risposta alla domanda «Che cos’è l’Illuminismo?», come «lavoro sui nostri limiti, ovvero fatica paziente che dà forma all’impazienza della libertà».[14]

La lettera di Maria von Herbert e la risposta morale di Kant

Borowski riporta una lettera a Kant da parte di una donna di cui omette il nome, ma che era, com’è noto dalla sua corrispondenza, la baronessa Maria Regina von Herbert (1769-1803). Maria von Herbert conosceva bene la filosofia di Kant ed è proprio a lui che si rivolge, all’autore della Metafisica dei costumi, a colui che aveva elaborato la nozione di imperativo categorico, nell’agosto del 1791, da Klagenfurt, in Carinzia, per sciogliere un dilemma morale e per «ottenere aiuto, conforto o commenti alla morte». Aveva mentito a un uomo che amava e, una volta rivelatagli la menzogna, lo aveva perso. Così si esprime l’autrice della missiva «Se non avessi letto tante cose Sue, avrei già posto una fine violenta ai miei giorni: mi trattiene invece la conclusione che ho dovuto trarre dalla Sua teoria secondo la quale non devo morire a causa della mia vita tormentata, ma dovrei vivere a causa della mia esistenza. Si metta perciò nei miei panni e mi dia conforto o condanna».

Possiamo leggere la minuta della risposta di Kant, scritta durante la primavera del 1792[15] e che, direttamente da Könisberg, a più di 1200 chilometri di distanza, conteneva, usando le sue stesse parole, «un insegnamento, una punizione e una consolazione».  Kant si pronunciava a favore della scelta dell’amico della donna, giustificandone in qualche modo l’allontanamento, essendo l’assenza di sincerità un male assoluto. In aggiunta, domandava alla destinataria quale fosse il motivo del suo rimorso. Se quest’ultimo traeva origine dalle conseguenze dell’atto, non presentava alcun carattere morale. Se invece era il frutto di un sincero giudizio morale sul proprio comportamento per aver mentito, da un lato era necessario serbare il ricordo della cattiva azione, come un giudice che non distrugge il contenuto del fascicolo di un imputato e, in caso di recidiva, si mostra pronto a emettere una legittima sentenza di condanna. Dall’altro non era opportuno crogiolarsi nel rimorso e castigarsi da sé: sarebbe stato un comportamento, tipico di certe religioni, che nell’autopunizione crede di attirarsi la grazia delle potenze superiori senza bisogno di sforzarsi per diventare migliori.

Un’esistenza come opera d’arte: la vita di Kant tra immaginario e memoria

Quest’esistenza di Kant così come emerge dalle penne di Borowski, Jachmann e Wasianki, raccontata così pazientemente, al ritmo delle fasi scandite e sempre uguali a sé stesse della giornata è quasi «un’opera d’arte, come una stampa giapponese dove si vede eternamente l’immagine di un piccolo bruco visto una volta in una certa ora del giorno»; assomiglia, infatti, a una di quelle Vite immaginarie di Marcel Schwob all’insegna del fatto che «le idee dei grandi uomini sono il patrimonio comune dell’umanità; ognuno di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie».[16]

Note

[1] M. Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino, Bologna 2011, p. 23.

[2] Ivi, p. 19. Nel Prologo l’autore ricostruisce dettagliatamente le vicende che portarono alla pubblicazione dell’opera citata Su Immanuel Kant, l’attendibilità delle ricostruzioni biografiche proposte e la loro fortuna editoriale.

[3] Borowski era nato a Konisberg nel 1740 e vi era morto nel 1831; teologo e alto funzionario della chiesa prussiana, era stato tra i primi discepoli di Kant.

[4] Anche Jachmann (1767-1843) era stato uno scolaro di Kant e ne divenne in seguito amico, svolgendo per il filosofo anche le funzioni di amanuense. Pastore, si era occupato di pedagogia e di educazione.

[5] Come Borowski e Kant, Wasianski (1755-1831) nacque e morì a Könisberg. Anch’egli studente di Kant, ne fu un amico molto stretto, assistendolo negli ultimi anni di vita.

[6] Le citazioni senza altra indicazione che il numero di pagina sono tratte da L.E. Borowski, R.B. Jachmann e A. Ch. Wasianski, La vita di Immanuel Kant, con una prefazione di Eugenio Garin, Laterza, 1969.

[7] Cfr. un classico studio come quello di D. Madelénat, La biographie, Puf, Paris 1984, p. 52 e ss.

[8] Cfr. J.-L. Diaz, L’homme et l’œuvre, Puf, Paris 2011, in particolare il capitolo 5.

[9] Il testo, con alcune successive modifiche, venne poi inserito in altre raccolte di scritti dell’autore pubblicate nel 1853 e nel 1854 (T. de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983).

[10] Ivi, p. 11.

[11] C. Thomas, L’Opiomane et le philosophe, «Critique» 486 (1987), p. 987

[12] Cfr. É. Dayre, Thomas de Quincey: sur le style transcendantal de Kant, in «Littérature» 93 (1994), pp. 99-112.

[13] A questa tematica ha dedicato molti studi Éric Dayre ; cfr. in particolare il suo Les Proses du Temps, Thomas de Quincey et la philosophie kantienne, Honoré Champion, Paris 2000.

[14] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Id., Dits et écrits, coll. «Quarto», Gallimard, Paris 2001, vol. II, p. 1507.

[15] I. Kant, Epistolario filosofico (1761-1800), Il Melangolo, Genova 1990, pp. 282-287.

[16] Marcel Schwob, Vite immaginarie, Milano, Adelphi, 2012, p.14. Non caso Schwob era stato anche il traduttore francese del libro di De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, nel 1899.

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