Su “Inside Story”
di Giuseppe A. Samonà
Era molto tempo che non mi succedeva di finire un libro, anzi, di stare per finirlo – mi manca letteralmente l’ultima mezza pagina, e interrompo un attimo per scrivere in fretta e furia queste righe – e già sapere che non potrò far altro che ricominciare a leggerlo, dalla prima parola. E preciso: non “sapere che lo leggerò di nuovo”, il che, da Cechov a Proust, a Dickens, Manzoni, Dumas, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, mi è successo con tanti autori; sapere che lo ricomincerò subito, senza soluzione di continuità, come mi è successo una volta al cinema con Kill Bill 1, nascondendomi nella sala per restare anche la proiezione seguente, ed è un ricordo speciale, ma ce ne sono anche altri. Ecco, in letteratura mi è capitato solo con l’Iliade e l’Odissea e con un paio di tragedie di Shakespeare.
Intendiamoci, non voglio certo dire che Martin Amis, con Inside Story, abbia la stessa magia, la stessa potenza di Omero o Shakespeare. Voglio dire semplicemente che, come con quelli, sto sapendo poco prima di finire che ricomincerò subito. Proprio dalla prima parola, assaporando il piacere di ritrovare alcuni passaggi che ricordo essere poche righe più in là, o di scoprirne sotto una nuova luce altri, etc.: come succede appunto, in generale, con le riletture. Perché ci sono autori che, al di là del fatto che siano o meno “i più grandi” (ma le gerarchie sono comunque solo un gioco) ci parlano in un modo particolare, ci sembra che ci assomiglino. Da notare, per altro, che Martin Amis è morto nel 2023 e Inside story, del 2020, è il suo ultimo libro: ma per me è stato il primo, e per adesso l’unico, quello che me lo ha fatto scoprire.
Dunque, ho voglia di ricominciarlo, e so che lo farò, subito dopo quest’ultima mezza pagina: in francese, perché è in traduzione francese che ce l’ho adesso a disposizione (l’ho preso in prestito in una Biblioteca, qui a Parigi), e poi in italiano, perché alcuni vortici linguistici mi sono sembrati talmente vorticosi che non sono sicuro di averli colti in tutte le loro sfumature, e poi nell’originale, in inglese (cacchio, la triplice lettura, come mi è successo, anche se distanziate e in ordine diverso, con David Copperfield…), ma con la versione francese o italiana nei paraggi, perché insomma, altrimenti qua e là qualcosa rischia di sfuggirmi. Che programmino, c’è da leccarsi i baffi.
E vorrei dirlo a (leggere questa lista sorvolando come se si declamasse una litania): Sophie, Michèle, Isabelle, Clara, Eva, Michel, Michele, Filippo, Andrea, Simone (it. uomo) e Simone (fr., donna) – già, dovrei fare una versione di questo articolo-messaggio anche in francese, per gli amici che non leggono l’italiano – e poi ancora a Hélène, Elena, Helena, Philippe, Peter, Pierre, Fulvio, Lamberto, Emilio, Antonio, Vittorio, Daniel, Daniele, Daniela, Joseph, Alessio, Leo, Carmine, Alberto, Marghi, Vale, Cristina, Roberto, Paola, Paolo, Rebi, Azu, Erminia, Barbara, Alessandra, Bastiana, Franco, Maurizio, Dona, Sara, Felipe, Nando, Luciana, Lucie, Manon, Maria, Jean-Louis, Cate, Silvia, Sylvia, Chiara, Matteo, Miriam … e qui mi fermo, anche se ce ne sono altri, altre, e mi verrebbe di continuare a buttar giù nomi, c’è qualcosa di fantastico, di “creativo”, nel solo nominare le persone, quasi che i nomi, da soli, potessero riempire una pagina di letteratura – c’è del resto anche un sonoro labirinto onomastico, nel libro, ed è inebriante perdercisi dentro… Aggiungo però in chiusura almeno Phoebe, perché nella vita di ognuno di noi, se solo un po’ siamo riusciti a vivere, c’è sempre una Phoebe, o un Martin…
Ecco, scrivo queste righe semplicemente per chiedere ai miei amici, ai miei affetti più cari: ma lo avete letto? E se no, per dir loro: leggetelo. Perché questo – come altri – è un libro spartiacque: ci sono quelli che hanno letto Inside story, e quelli che invece no… Ah, certo, devo anche ringraziare Salman, Mia e Giacomo che, ognuno a modo suo, mi hanno messo sulle sue piste. E avvertire Fabrizio che sì, dopo mi andrò a leggere anche il libro sulla morte del padre – anche se non credo che sia come dice lui “ancora più bello”, ma forse sbaglio, non lo ho ancora letto, appunto…
Come mai questo improvviso fuoco? Questa smania di condivisione? Credo soprattutto perché Inside Story è un’autobiografia completamente folle, che tuttavia, proprio attraverso questa follia, riesce la più riuscita di tutte le autobiografie, uscendo dai suoi limiti come un morbo contagioso: è vera e finta (già, David Copperfield), proprio come la nostra vita, e di più, il vero è finto, perché sempre quando guardiamo indietro reinventiamo il nostro passato, e il finto è vero, perché niente come la finzione riesce a scoprire le verità più violente nascoste dentro la nostra esistenza, e in questo senso dice di Martin, umano e scrittore, che con lo stile confonde e trascende realtà e finzione, ma anche di ognuno di noi, che si sia o meno scrittori. Anzi, soprattutto se lo siamo, vorrei aggiungere, più o meno affermati o anche del tutto sconosciuti, non importa: perché fra le tante altre cose, questo poliedrico “romanzo” è anche un formidabile manuale-riflessione sulla scrittura – ho fotocopiato per metterle sulla scrivania, a portata di mano, due paginette sul senso e l’uso della punteggiatura che da sole già valgono l’intera lettura… E poi anche, o innanzitutto, c’è molto amore, l’amore carnale, dolce, violento, impertinente, sublime, lascivo, osceno; o l’amore-persona, l’essere umano desiderato, persino amato – ma non abbiamo mai trovato le parole giuste per dirglielo… – che aveva forse una decina d’anni più di noi, ma eravamo così giovani, che importanza aveva? E lo si riincontra molti anni dopo, ora è proprio vecchio, è vecchia, di fronte a noi, che vecchi ancora non siamo (e ci illudiamo…), ma non è quella vecchiaia amichevole, avvolgente, con cui la letteratura sa cullarci, del tipo … ha sessant’anni, e più la guardo e più mi sembra bella, no, è una vecchiaia devastante, demolita e demolitrice, in cui gli anni si sono accumulati come i chili, il viso è stato inghiottito dal grasso, il corpo gigantesco è oramai ridotto a una massa soda, paurosa, ma sia pure infossati, avvolti dalle rughe, gli occhi, lo sguardo eterno, parlano ancora di giovinezza, di amore, persino di desiderio – ma anche di attesa della morte.
Già, poteva mancare la morte, che è da sempre la prima grande protagonista della letteratura? Ma di cosa si parla, esattamente, quando si dice morte? Della morte – che non esiste – o dell’attimo della morte? che non è mai un attimo, ma è una linea, una cronologia, forse infinita, anche nelle morti istantanee, o nel sonno, quando – dicono – l’intera vita ci passa davanti, come estratta dal tempo… E di cosa abbiamo paura? Di morire o di essere morti? Possibile che il mondo continuerà senza di noi? Chi e come ci ricorderà? (Non posso fare a meno di pensare che Martin A. è morto meno di tre anni dopo aver pubblicato questo suo ultimo, in tutti i sensi, libro.)
E su tutto, ovunque, c’è un modo speciale di raccontare, quello della letteratura, una letteratura volentieri urticante, provocante, dissacrante: attraverso la quale si riflette innanzitutto… sulla stessa letteratura (autori veri o inventati, e soprattutto reinventati, nel contempo veri e immaginati, veri proprio perché immaginati, in particolare Saul Bellow, Christopher Hitchens, Philip Larkin, ma anche Kingsley Amis e Elizabeth Jane Howard, Jane, suo padre e la sua “matrigna” … e molti altri ancora, presenti o passati); e poi sulla morte, appunto, e sulla vita, a cominciare ovviamente dalla propria (è una “autobiografia”, lo ricordo, vera e inventata, vera perché inventata etc.); o persino sull’attualità, sulla politica, sulla Storia: ma sempre nella prospettiva di una molto creativa memoria personale, per la quale tutto diventa romanzo. Dall’assassinio di Kennedy nel 1963 (nel ricordo di Martin A. fragile adolescente) all’11 settembre 2001 (visto dal punto di vista del giorno dopo, della vigilia… del giorno dopo, e dei giorni dopo il giorno dopo: potentissimo!) sino all’apparizione di Donald Trump, che si annuncia all’orizzonte sempre più minaccioso – minaccioso ovviamente per quelli come Amis, espressione di una sinistra libertaria, liberale nel miglior senso del termine, e anticonformista, profondamente umanista, direi io se dovessi definirlo, ma probabilmente lui si arrabbierebbe, perché il suo spirito libero sfugge a qualunque categorizzazione.
E al centro di tutto, c’è uno dei principali fili di riflessione del suo intero percorso di uomo e di artista, anzi, un filo fatto di fili intrecciati: l’ebraismo, l’antisemitismo, la shoah, Israele, con tutte le contraddizioni che Amis inquadra con una semplicità, e insieme un’originalità disarmanti, spaesanti, e sempre con lo strumento della letteratura. I ragionamenti brillanti dialogano fra di loro – per riassumerne in una frase alcuni tra quelli che mi hanno più colpito: I Protocolli dei Saggi di Sion (citati solennemente nella Carta di Hamas) sarebbero, inintenzionalmente (ma c’è l’inconscio), nobilitati dall’accusa di essere un “falso”, accollatagli anche dagli studiosi più seri, perché un “falso” presuppone all’origine una versione autentica, mentre questi sono una fabbricazione integrale…; il regime di Vichy diventa un personaggio, il viscido, ossequioso Uriah Heep (siamo di nuovo dentro l’amato David Copperfield, ovviamente) di fronte al criminale Bill Sikes (Oliver Twist…), che impersona la Germania nazista…; … ma dunque, se i paesi sono delle persone, allora anche le persone sono dei paesi, Martin ad esempio è una democrazia liberale di tipo parlamentare (ma con qualche zoppia costituzionale…); l’antisemitismo – una nevrosi? una psicosi? – implica un piacere che rende assuefatti, in tutto e per tutto fisico, come la cocaina, anzi, meglio, come un’inarrestabile masturbazione, una concretissima pippa insomma (traduco il francese “branlette” che a sua volta, immagino, traduce “handjob” o chissà “jerk-off”, ho fretta di rileggermelo nell’originale…), e un discorso analogo vale per il messianismo… Ed ecco, in questa prospettiva Amis si chiede, e ci aspira dentro le sue domande: Poteva Israele non nascere, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale? o nascere altrove da dove è nato, per esempio in Baviera o in Madagascar? È possibile trovare un equilibrio fra l’inevitabile esercizio della forza, della forza non di rado odiosa, del potere, indispensabile per chi combatteva contro il rischio di estinguersi (e la paura dell’estinzione – sottolinea Amis – continua a correre lungo tutta la storia del paese Israele), e la necessaria volontà di resistere alla distruzione, all’oblio, di conciliare insieme memoria e avvenire? esistenza e umanesimo? In che modo si sono intrecciate due catastrofi, quella palestinese e quell’ebraica, in un avvitamento che è propriamente tragico, fatto di esclusioni, omissioni e censure reciproche? (Perché il libertario Martin, pur sapendo, nel contempo affascinato e inquieto, le ragioni di Israele, non ignora mai quelle della Palestina – e l’Occupazione, ci dice, è anche una nakba, una catastrofe politica, sociale, morale per gli ebrei…) Come mai Israele ha per lunghi tratti potuto negare, insieme alla catastrofe palestinese, anche quella sua propria, che pur ha, se non fondato, fornito un impulso determinante alla causa sionista? (Di nuovo la letteratura, nelle parole di Bellow, o meglio, del Bellow chiamato in causa da Amis: “Dapprima, vi hanno assassinato, poi vi hanno obbligato a meditare sui loro crimini; farlo, mi soffocava”….) E tante altre questioni, perché Amis più che rispondere interroga e si interroga, e sempre ci spiazza, facendo emergere la complessità, le contraddizioni dell’umanità di cui facciamo parte: scavando, ponendo domande scomode, appunto, e sempre rifuggendo dagli slogan, dai luoghi comuni, dalle comode, omogenee, pronte all’uso semplificazioni. Non è del resto quello che, per vocazione, dovrebbe sempre fare uno scrittore?
E devo confessarlo: un brivido, un senso nel contempo di sollievo e di dolore, mi ha preso leggendo, disseminate lungo il libro, le pagine che concernono Israele (e anche i Palestinesi: perché ahimè la Palestina non c’è), le quali disegnano una storia in cui si intrecciano luci e ombre, errori e anche orrori, contraddizioni e speranze, slanci e cadute, senza sconti, ma mai banali, mai schematiche né semplificatorie di un itinerario complesso che si snatura a essere ridotto a una sola componente… , e sempre piene di piena, autentica letteratura. Sono pagine scritte tre anni prima dell’inizio di quella spirale di morte e distruzione che ancora è là pronta a riesplodere, e dentro la quale il nome di Israele in larghi settori di quella sinistra che è anche la mia sembra diventato impronunciabile, se non per associarlo ai soprusi, alle bombe, al massacro dei civili – eppure, in queste pagine, lontane e vicine, c’è già tutto: Gaza, il fanatismo giudeocida e jihadista di Hamas, Hezbollah, l’Iran dietro le quinte, lo spostamento sempre più a destra di Israele insieme alla realtà (non solo il fantasma, anch’esso reale) di essere circondati da alcuni milioni di nemici mortali, il progetto messianico che minaccia da dentro, persino al di là della nuova catastrofe che incombe sui Palestinesi, la natura ebraica, nel senso umanista e “amisiano” del termine, e democratica della società israeliana che, fra mille apprensioni, è cara allo scrittore, e che non vuole, non può abbandonare (ma dalla quale teme, lui, di essere abbandonato…). Insomma, un rompicapo maledettamente complicato che Martin Amis esplora, di nuovo, con la sua arte, la letteratura, che procede più con le domande e i dubbi, che con le certezze e le semplificazioni. E io, sempre avanzando fra queste luci e ombre, avevo nella testa, insieme a una convinzione, una domanda (e mi sembra che ogni lettore / scrittore, soprattutto se di sinistra, progressista, dovrebbe naturalmente porsela): è certo lecito, che dico? doveroso, giusto, impegnarsi con determinazione contro un governo di estrema destra e messianico e la sua hybris guerriera e distruttrice, schierarsi a fianco, materialmente o idealmente, dei Palestinesi, nei tanti diversi modi propri a ciascuno, per cercare di difenderli da nuovi massacri, da ulteriori soprusi e finalmente, anche se oggi sembra più lontano di un’utopia, arrivare a una soluzione che permetta, a loro come agli altri, a tutti, di vivere liberamente e degnamente, in pace, e con uguali diritti – ma come è possibile, cosa significa odiare in sé, nella sua complessità, un paese? quel paese?

Caro Giuseppe, rispondo all’ultima domanda, ma vi posso rispondere solo personalmente. Ma per rispondervi devo anche cercare di capirla, di coglierne il senso. Chi denuncia la violenza genocidaria oggi sui Palestinesi di Gaza e il progetto di pulizia etnica in Cisogiordania,”odia in sé tutto un paese”? Innanzitutto non lo odia “in sé”, ma lo odia semmai per quel che “fa”. E quindi tutto riguarda come decriviamo quel “fare”. Che cosa sia “detestabile” in quel fare credo che non ci siano dubbi. L’ingiustizia se è tale è sempre detestabile. Se poi l’ingiustizia diventa trionfante nella sua estrema atrocità, è comprensibile che essa susciti orrore, ma anche collera e anche una forma di odio. Il problema è poi cosa fa ognuno di quest’odio. Cioè che espressione politica cerca di dargli (denuncia, boicottaggio, ecc.) E parlo sempre per me, per un testimone terzo, perché è a un testimone terzo che tu ti rivolgi. Il punto pero’ penso più problematico, non è tanto forse la detestazione dell’ingiustizia: ma chi o cosa è detestato. E’ detestato solo un uomo (il primo ministro)? E’ detestato solo un piccolo gruppo di uomini (tutti i ministri di un governo) o è detestato un popolo: tutti gli israeliani in quanto israeliani? Io credo che tu sappia qual è la mia risposta: è detestato uno Stato (qualcosa di più di un governo e qualcosa di meno di un popolo), ed è detestata un’ideologia che permette a una parte importante di cittadini di quello Stato di far funzionare un genocidio. Per fare un genocidio non basta un governo. Ci vuole un consenso più ampio che si estende ad una catena di soggettività, dentro e fuori la politica, dentro e fuori l’esercito. Ma lo Stato funziona perché c’è un’ideologia che è capace di radunare nelle sue istituzioni una gran quantità di individui diversi. E’ quindi in ultima analisi l’ideologia genocidaria condivisa da tutti i diversi attori del genocidio che è detestabile. Ma questi attori non sono gli israeliani in quanto tali. Sono quegli israeliani che, in un modo o nell’altro, pensano che non ci sia alternativa a quanto il governo sta facendo. Non possiamo sapere a prima vista, scrutando un passaporto, se l’israeliano che potremmo avere davanti è portatore o meno di quella ideologia. Sappiamo che alcuni israeliani non sono per nulla portatori di quella ideologia, e lo pagano caro. Sappiamo pero’ che i sostenitori di questa ideologia detestabile sono una maggioranza, ossia una massa sufficiente a far funzionare la macchina di distruzione e annessione dello Stato israeliano a Gaza e in Cisgiordania. Non sono i coloni a fare il genocidio, né il solo ministro: è l’esercito regolare e tutte le istituzioni grazie al quale esso puo’ funzionare efficacemente.