Cézanne il solitario
di Charles-Ferdinand Ramuz
il testo che segue costituisce la prima parte dello scritto “Cézanne il precursore”, contenuto nella raccolta di scritti sull’artista di Charles-Ferdinand Ramuz “Indagine su Cézanne” recentemente pubblicata da Oligo Editore, che ringraziamo

Il vero precursore deve essere il più umile, il più impacciato, il più irregolare, il più ostacolato – il più in disparte anche, ecco, in disparte, ma non al di fuori, anzi proprio dentro il suo secolo, e tuttavia, senza dubbio, sostanzialmente in disparte; il cammino della sua vita sarà difficile e oscuro – Signore e signori, ecco a voi Cézanne.
Paul Cézanne nato nel 1838 – morto nel 1906. Un solitario. Un solitario senza averlo voluto, un solitario suo malgrado. Si deve insistere su questa solitudine: non orgogliosa, non meditata, una solitudine subita, e per questo già così particolarmente significativa. Come potrebbe colui che anticipa il suo tempo non esserne al di fuori? Come potrebbe colui che, in mezzo al peggior disordine, tenta appassionatamente (e con quella strana miscela di consapevolezza e incoscienza, di apparizioni improvvise che si alternano alla completa oscurità) di ristabilire l’ordine dentro sé, spendendosi completamente, sfinendosi, e non riprende le forze se non per consumarle di nuovo – come potrebbe costui ancora comunicare liberamente – allorquando tutto ciò che lo circonda si rifiuta di riconoscerlo e pure lui stesso non vi si riconosce?
Abbiamo visto che la sola disciplina possibile, nelle epoche di grande dissipazione, è quella che ognuno si dà da solo – è uno sforzo, è una tensione costante – è di volta in volta la speranza di farcela, la disperazione di avere fallito – è soprattutto il bisogno di non essere distratti.
Signore e signori, la vita di Cézanne è quella di un uomo che non può essere distratto – definizione molto semplice, ma che mi pare calzante. Nel momento in cui prende coscienza di sé stesso, e assai tardi, verso i quarant’anni, durante la piena fioritura dell’impressionismo – nel momento in cui l’insoddisfazione per le produzioni di quella scuola gli fa capire di aver sbagliato ad aderirvi, avendo dato almeno l’impressione di avervi aderito, giacché lui non vi ha mai aderito se non esteriormente – che cosa fa? Scompare. Non si sa più niente di lui. Ritorna nella sua città di Aix, dove è nato, dove morirà, nel pieno cuore di questa Provenza rocciosa da cui cui trarrà, ormai esclusivamente, le sue fonti di ispirazione. Trent’anni, in completa solitudine, morale ancor più che materiale, ridicolizzato dai suoi conterranei, incompreso anche dalla sua gente, otto ore ogni giorno, in piedi all’alba, a letto la notte, con la regolarità di un impiegato, si dedicherà alla realizzazione della sua opera (la parola realizzazione è proprio quella che usava lui), cioè a fissare sulla tela e sulla carta gli elementi essenziali di un modo di sentire. Ed è a Aix che molto tardivamente la gloria va a cercarlo – non la celebrità – lui non è mai stato celebre – forse non lo sarà mai: intendo l’ammirazione riconoscente di una piccola élite a cui ha illuminato il cammino – ma forse è questa la vera gloria. Gli arriva proprio all’ultimo momento, qualche anno prima della sua morte. Quasi non ne prende atto, perché essa riguarda malgrado tutto ciò che per lui è il passato, l’opera compiuta, e lui è rivolto completamente verso l’opera che gli resta da fare, i nuovi progressi da realizzare, fino al giorno in cui cade, con il pennello in mano.
L’annullamento davanti alla sua opera, il dono totale della sua persona, l’abnegazione più completa, la rinuncia più assoluta a ogni altra soddisfazione se non quella che gli deriva – e così raramente! – da quella stessa opera, ecco l’uomo Cézanne. Una vita di una grandezza impressionante, seppur così modesta, e apparentemente così insignificante – mi rimprovererei se non l’avessi ribadito. Ma il caso di Cézanne non ci interessa solo per questo, e senza misconoscerne l’importanza eccezionale del carattere, lui è altro e più di questo: dobbiamo ben arrivare al pittore. Com’è difficile parlare di ciò che si ama, di ciò che si vuole, di ciò che si crede almeno di percepire! Difficile parlarne con parole precise, con frasi esplicative, difficile veramente far arrivare alla sfera intellettuale ciò che attiene alla sfera del sentimento! Sono, per questo pittore, le cose più umili (ma non scelte perché sono umili, semplicemente perché sono quelle che il caso gli mette più frequentemente davanti), le cose quindi più quotidiane, spesso cose inanimate, delle mele su una panca, un teschio su una tovaglia, dei bicchieri, un coltello, un pezzo di pane – o una donna che cuce su una vecchia poltrona, dei contadini che giocano a carte, un bambino con il grembiule nero, un foulard bianco intorno al collo – o ancora il paesaggio che intravede dalla sua finestra – sono per questo pittore le prime cose che gli capitano a tiro, e subito si piazza davanti a esse. E subito egli sembra svuotarsi di tutto ciò che poteva sapere, di tutte le ricette apprese, di tutte le modalità impiegate prima di lui: più che il confronto, il faccia a faccia, tra un povero uomo spogliato di ogni prestigio, di ogni credito – e l’oggetto esterno. Ma realmente l’oggetto. Non l’oggetto visto attraverso un modello, l’oggetto già recepito grazie ai ricordi di trasposizioni analoghe, ma un oggetto tutto nuovo, un oggetto visto come per la prima volta. E tutto avviene, allora, tra la percezione che ne ricaviamo e i modi di renderla che all’occorrenza ci inventiamo da soli.
