In viaggio verso Casarsa

di Massimiliano Gusmaroli

[Brano tratto da un racconto lungo, inedito, intitolato Verso Casarsa]

Nel buio dello scomparto del treno che mi porta a Trieste, continuo così ad ascoltare questa «roba», questi pezzi composti da dj, non da musicisti diplomati al conservatorio (benché il sintetizzatore vi sia ormai entrato come strumento riconosciuto); questa musica fatta di suoni che nessuno strumento di legno o metallo può offrire e che quindi bene si sposano con la mia idea moderna, e con le mie visioni. Un’idea avveniristica che è pur sempre melodica, a quanto pare. Forse si scoprirà un giorno che anche questa musica è destinata alla classicità, ed io questo già lo so, lo sento. Già la vedo nella sua potenza ancora incompresa tenere testa fieramente al Requiem di Mozart. Questa roba pur derivante da una cultura massiva e atomistica, caotica e informe, né umanistica né ordinata, ma che potrebbe suonare l’alba di un nuovo umanesimo. I cui suoni, pur deliranti e alienanti, pur performativi, sono forse a maggior ragione le note di una moltitudine che non è più una società, di una progenie occidentale orfana della società, in cerca di padri, di maestri, cioè di una società. Proprio come dei religiosi in cerca di dèi, questi seguaci senza guida, i cui moventi, pur edonistici e orgiastici, sono forse una nuova domanda di umanità e di storia. Ma questo simbolo musicale non riguarda solo una generazione di giovani sbandati, come dicono i sociologi laureati, bensì attiene, come tutto il resto, a tutti noi cresciuti nei decenni della Destituzione di tutto. È sicuramente così! come spiegare altrimenti le sensazioni che questa roba accende nelle mie orecchie fin nel mio animo seriamente pasoliniano? Laggiù, nel mio spazio profondo, là dove proprio questa musica mi dice, forse, che la mia antichità è stanca. E non me ne voglia Pasolini, ché non è lui l’antichità, pur essendo «una forza del passato», o, se lo è, è anche la modernità. «Bisogna essere moderni», diceva. Forse anche per questo una musica del genere non mi slega da lui, ma anzi bene mi accompagna.

***

Casarsa della Delizia, nome che è una pura suggestione poetica. Luogo nativo della madre – il figlio vi apprese la vita rurale, la dolce «lenga furlana» e la passione politica; da cui pure fu bandito, per aver appreso il sesso. Mi ripeto allora, nel buio dello scomparto e nel sonno generale, quella breve poesia letta quand’ero ragazzetto di cui ho sempre ricordato a memoria i versi e che inizia con «Fontan d’aga dal me pais…». Commetterò forse degli errori, ma me la ricordo così.

Pasolini fu un poeta ben inserito nella tradizione. Non fu un Ginsberg. Tuttavia fu anche uno sperimentatore, un eclettico… sebbene rispettoso della tradizione. In fondo, con le sue modernità, non fu diverso da un Ariosto o da un Dante, ma proprio in questa «forza che viene dal passato» risiede la sua grandezza classica, che è per definizione durevole, resistente, giovane, e quindi moderna. Se dunque egli è stato il mio maestro, anzi «mio padre», come ho scritto sulle carte che consegnerò alla famiglia Pasolini, o al Centro Studi, eccomi dunque vagare con questa pasoliniana classicità in un mondo totalmente rivoltato contro ogni classicità, consunto e devastato dall’effimero come marchio primo del potere che lo tiene e lo organizza. E se come figlio di Pasolini sono dunque illegittimo davanti alla legge, per l’eredità che porto sono invece più che legittimo. 

La musica mi scorre nelle orecchie, ma provo il disagio di non aver letto nemmeno un po’ e di dovermi addormentare così, come fossi indifeso. Me ne sto nella tenebra dello scomparto a riflettere ma so che dovrei anch’io riposare, visto il viaggio importante. Dormire, come questi filippini intorno a me. Ma so anche che io non sono come loro. Rimango infatti in sospeso, dolcemente eccitato dal viaggio verso Casarsa e amaramente in contrasto con me stesso, tra questa musica elettronica per svagarmi, per perdermi, per farmi opaco, e questi libri che ho qui nella borsa e sempre con me per concentrarmi, per avermi, per farmi vigile. Lettore avido, poeta e uomo civile interessato alla politica (ex sindacalista, per otto lunghi anni della mia vita), con un Pasolini che riassume in sé il modello che ho scelto; ma al contempo anche un ometto con gli auricolari, felicemente bombardato, che forse vorrebbe risolvere la politica impugnando una pistola e non sa più se amare o disprezzare questi filippini, e quei contadini verso cui sta viaggiando, come se troppo stretta fosse la vita per contenere tutte queste contraddizioni!

A Bologna i filippini si organizzano, salutano ed escono, dopodiché, di colpo, entrano nello scomparto due enormi ragazzine che fino ad allora avevo visto dormire curve e infastidite prima sugli strapuntini poi, dopo l’ennesimo morso del sonno, stese nel corridoio tra i piedi della gente. Precedono l’entrata di una donnona, la madre, anch’essa di carnagione chiara e giallastra, capelli biondi, meno longilinea ma esattamente selvatica e turbolenta come le figlie. Subentrate immediatamente dopo gli ordinati e ortodossi filippini queste tre slave, con una tempesta di sacchi a pelo già srotolati e lunghe cosce e lunghe braccia nude occupanti i posti lasciati dai loro predecessori, mi sono sembrate subito lo stendardo più vivido della varietà umana e dello spettacolo di cui è semplicemente capace il mondo nella sua alternanza di nazioni e carnagioni. Nonché il simbolo del viaggiare!

Delle due figlie una è alquanto scontrosa con la madre, forse la primogenita, forse adolescente. Il trucco marcato intorno agli occhioni infantili e cerulei, un po’ sbafato dall’insonnia, il taglio di capelli scaleno e l’orecchino che ci parla di trasgressione: è facile ravvisare una tendenza punk ma senza volgarità né degradazione, senza conformismo né quel falso pretesto filosofico che lo sorregge, ovvero non com’è nella spenta, triste, volgare, conformista, ignorante e arrogante sottocultura punk e anarcoide che si vede e riconosciamo a Roma nei cosiddetti Centri Sociali Autogestiti – di cui pure sono stato e sono un frequentatore, se a volte essi coincidono con la sinistra migliore di questo Paese in cui siamo costretti a far vigere il meno peggio. Al contrario, questa ragazzina, pur con una fissa smorfia un po’ brutta e antagonista verso la madre, è uno spettacolo di salute e cura, nonché di giovanile bellezza intatta. Nessun capo d’abbigliamento sdrucito, nessun tatuaggio tribale e conforme, nessuna puzza di cane malato e baciato in bocca… Hanno ambedue le figlie stupende corporature sviluppate, pelli immacolate, se pure un po’ abbronzate, d’un pallore solo un po’ smarrito, forse per via di una vacanza a Roma. Scenderanno a Pordenone, lo hanno detto al conduttore che all’altezza di Padova ci ha obliterato i biglietti e che in un inglese che mi ha colpito per la sua sforzata e italianeggiante pronuncia, nella quale purtroppo mi sono riconosciuto, ha intimato loro di avanzare di due carrozze poiché a Venezia il treno sarebbe stato spaccato in due: un pezzo avrebbe proseguito per Trieste e un altro per Pordenone. 

Io devo arrivare alla fine. Non solo alla fine di questa tratta, a Trieste, ma alla fine dell’Italia, al confine. Luogo che vedo ameno e pronuncio con vigore, ma potrebbe benissimo essere del tutto insignificante. Tuttavia nella mia mente la parola «confine» produce significati e tutta un’accensione di vitalità. Anzi, oltre ai significati, mi procura un Senso.

Benché questa mèta sia estranea al viaggio pasoliniano e fuori dalla rotta di Casarsa comunque non è estranea al viaggiatore e fuori dalle rotte ideali dell’uomo che io sono, perciò è deciso: dopo Trieste prenderò la via per Gorizia e con un passo sarò dunque quasi in Slovenia.

Questo pezzo di treno sganciato e lanciato verso il confine, in cui ormai sono rimasto solo, a dondolare, a guardarmi ampio e compiaciuto nella mia solitudine anch’essa estrema, assume adesso questi significati e questo Senso del confine come dentro una simbolica coincidenza con me stesso, con la mia personalità di confine, per così dire, viaggiatrice da sempre tra ideali città, ai limiti di sé. 

Città interiori in cui la poesia è legge. Per cui anche questo vagone notturno, infatti, è adesso avvolto nel suo essere poetico, cioè nel suo essere ferroso e fatto di ferroso rumore, in questo vento fittizio e potente che è suo, in questa luce bassa e a tratti unica nella notte che pure è sua, come questo suo forzato essere su una rotaia, in una corsa poetica ma quasi penosa poiché consumata in vecchia poesia, la sua vecchia poesia di treno che va. Poesia in cui pure è concepito questo viaggio, del resto, dato che avrei potuto prendere un aereo fino a Milano o Venezia. Ed invece, questa sera, a sera ben inoltrata, ho lasciato la mia casa (quasi all’improvviso nella mia vita) e con uno zainetto leggero, ma anch’esso grave di poesie, mi sono imbarcato, a cuore alto, verso una Casarsa di poesie. 

Trieste mi è capitata sulla rotta, forte di Umberto Saba.

Saba è uno dei poeti che davvero stimo e amo; recentemente riletto, l’ho voluto perfino in regalo per il mio trentasettesimo compleanno, e qui, sul libro bianco, edizioni Einaudi (purtroppo), ho scritto una poesia che ho poi fatto agire in una mia «azione» offrendola direttamente dal margine della pagina su cui è nata. Sì perché io compio da qualche annetto delle performances che chiamo «poesie in azione» e sono testi scritti apposta o adattati da mie poesie per essere dati fuori dalla carta o dal tradizionale reading. Valga a spiegarmi meglio il testo del volantino-brochure dell’ultima di queste azioni: «Gli Angeli della Vita lottano contro i Demoni della Distruzione, sabato 26 febbraio 2011 ore 19:00 presso la Libreria Il Mattone a via Bresadola 12-14 (Centocelle, Roma) – in forma di poesia in azione – durata: 30-40 min. (?) dipende da come si svolge la lotta…».  Di solito agisco da solo, mentre qui ho chiesto a mio fratello (ex artista di strada, anche clown dottore) di interpretare il Demone della distruzione, il quale, aggirandosi per la libreria e parlando in versi, ha lottato così con l’Angelo della vita. Pubblicizzata dalla libreria e da qualche annuncio sui giornali locali, la poesia in azione si è quindi data nel buio di una sera di febbraio in una Roma non solo non avvezza a queste cose ma che addirittura sta cercando attraverso delibere comunali di distruggere l’arte svolta fuori dai luoghi comuni (la frase «luoghi comuni» è in questo caso perfettamente ambivalente). Già con il sindaco Rutelli una decina di anni fa c’era stata una regolamentazione tesa a ridimensionare l’arte di strada, che è l’altra metà del mondo: giocolieri, acrobati, fachiri, cantanti, musicisti, creativi vari, tra cui anche il Ponentino trio e Birdman, ma anche clowns e poeti – io stesso più di una volta nel 2009 ho messo un tavolo bianco in mezzo alla stazione Termini, indossato una camicia bianca, e là seduto con penna e fogli (bianchi) mi sono esibito nella «figura del poeta».

In questi giorni, con la giunta fascista Alemanno si parla addirittura di creare un «albo», un «tesserino di riconoscimento», e comunque a tutti sarebbe «vietato di esibirsi nei vicoli storici», ovvero dove gli artisti di strada si esibiscono. Queste le voci che corrono, che gli artisti con cui mi fermo a parlare mi riportano. Il motivo del mio interessamento? L’ho espresso poco tempo fa in una poesia dedicata ai saltimbanchi

 ***

Albeggia, a Venezia il treno è stato spaccato in due ed io sono ancora qui; dal finestrino vedo il cartello ferroviario con il nome della città, poi case e lampioni; cerco la laguna ma non si vede; mi ridistendo sui sedili. Avrò forse dormito qualche minuto nell’arco dell’intera nottata. Alla discesa dal treno, ore 7:28, come dice il tabellone, già fa molto caldo e l’aria è immobile. La necessità di un filo d’aria mi fa pensare alla Bora di Trieste, il famoso vento, e così, alla biglietteria della stazione, a un impiegato allo sportello paffuto-occhiazzurri-capellibianchi-aspettoridanciano, in modo molto serio mi avvicino e dico: «Mi scusi, dove posso trovare la Bora?», e l’impiegato: «Mi dispiace ma in questo momento ne siamo sprovvisti.»

Trieste «ragazzaccio aspro», «di una grazia scontrosa», «con mani troppo grosse per regalare un fiore», «Trieste amore, con gelosia». Queste, bene o male, alla mia fallace memoria, sono le parole di certi tenerissimi versi sabiani, nei quali, dopo la tenerezza, subito mi colpisce l’aspetto strutturale: la rima fiore e amore, che come disse lo stesso Saba: «M’incantò la rima fiore amore, la più antica, difficile del mondo».

Siamo al 15 agosto, attraverso quindi una città alterata dalla feria. Sicuramente diversa dal suo solito; effetto di questa antica festa pagana mai così meritata e necessaria come in questo braciere cittadino. Roma è uguale: tutto il lavoro si ferma, un anno intero si placa, anche il consumismo.

Cerco un bar per fare colazione ma molte saracinesche sono abbassate. Un bar è aperto ma non serve nessuno, si sta pulendo; un altro si sta rinnovando; ne trovo infine uno in piena funzione normale, ma troppo in piena funzione normale, dato che una grossa, arrogante voce televisiva proviene dal suo interno, in cui entro. Mi volto verso l’alto (verso l’Alto), sulla destra, e vedo incombere un televisore immenso e sporgente dalla parete come un Cristo, dopodiché, voltandomi davanti a me, vedo al di là del bancone una barista molto giovane, ma più che una ragazza originale sembra una figura vista già infinite volte nel nostro Paese: il taglio di capelli obbediente a una moda comune fino alla banalità più estrema, la maglietta nera più ordinaria, il linguaggio decaduto e come devoto alla normalità più normale, il gesto anch’esso sciatto, spossessato, come non guidato da sé, alieno alla giovinezza della ventenne così come nemmeno aggraziato dal lavoro, ma puramente volgare. Una volgarità, però, appena conquistata, appena perfetta. Cerco di capire in che cosa consista questa volgarità, che subito così mi viene di chiamarla questa certa cosa che sta su alcune persone come un canone. Ma anche sulle cose, come su quell’interno di bar, appunto, e che nella sua atmosfera adesso ingloba persino me, me che vengo portando la poesia, come un Angelo della poesia.

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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